Medium

«Pronto?»
«Ciao, sono io.»
«Oh ciao, Amìna.»
«Senti, allora ci vieni a casa di Wilfredo, stasera?»
«No, penso proprio di no. Ho voglia di starmene a casa. Ho preso a noleggio il DVD di un vecchio film, ‘Dersu Uzala’. Anzi, perché non vieni tu da me?»
«Ma cosa dici? E’ da tanto che si parla di questa festa. Dai, che ci divertiamo. Viene anche la Tere, la medium di Tòdaro: fanno una seduta spiritica.»
«Ragione di più per starmene a casa.»
«Non avrai paura, spero.»
«Non è una questione di paura. Io i morti, se fossi in te, li lascerei là dove stanno. Mi reputo una persona abbastanza razionale, ma l’ultima cosa che desidero è interferire con qualcosa che non conosco e che non so gestire. Non ho nessuna prova che gli spiriti non esistano e non sono così incosciente da voler dar loro fastidio.»
«Sei sempre il solito…»
«Avrai anche ragione tu, ma un mio amico fraterno, tempo fa, ha fatto una seduta spiritica proprio con un medium di grande fama. Voleva organizzare una festa frizzicorina per il suo quarantesimo compleanno invitando, nella casa al mare del padre assente per lavoro, un mucchio di amici e poi appunto questo medium di grido.»
«E poi che è successo?»
«E’ successo che sono rimasti in piedi fino alle quattro del mattino per cercare di mandar via uno spirito che avevano evocato e che si era messo a far loro dispetti. Quest’anima travagliata, che il mio amico mi disse appartenere ad un suicida annegato, ha fatto esplodere tutte le lampadine della casa, sfiorendo le piante e facendo pure uscire l’acqua dai rubinetti. Alla fine, esausti, anziché rimanere lì al mare, come programmato, se ne sono andati via, perché nessuno si sentiva tranquillo a passare la notte in un simile posto.»
«E finito tutto bene, quindi…»
«Più o meno: fino a quando non è arrivato il padre, ignaro, qualche giorno dopo.»
«Che gli è accaduto?»
«A lui, che è completamente calvo, hanno ricominciato a crescere i capelli.»
«Beh, una cosa positiva, dopo tutto.»
«Non tanto. Erano capelli color verde prato.»

Da MacDonald’s

Ero seduto su di una panchina all’interno dell’iper di Tòdaro e stavo facendo la guardia a un carrello enorme semivuoto che sembrava guardarmi con grande tristezza. Ero in attesa di Amina che si era infilata in un negozio di abbigliamento per comprare non so più quale accessorio che proprio le mancava. Io mi ero già arreso un’ora prima. Il crollo psicofisico si era verificato esattamente all’interno dello spaccio delle scarpe dove, nonostante l’assortimento faraonico, lei non aveva trovato le scarpe del numero che poteva calzare o anche se l’aveva trovate non aveva ritenuto tuttavia che avessero le nappette giuste o se casomai le avessero avute non sarebbero state comunque del colore che s’intonavano (a cosa poi?!?).
Insomma, rassegnato, aspettavo sulla panchina… sicché lo sguardo si fece ballerino fino a posarsi su di un signore seduto qualche metro davanti me, da solo, a dal panino un tavolino della McDonald’s: stava addentando un MacQualchecosa, a tre piani di carne, ma con sottilette, pomodori, insalata, cetriolini e salsine multicolori che fuoriuscivano dall’insieme alla ‘sisalvichipuò’. Sembrava che il panino avesse una vita propria e che quel tizio gliela stesse togliendo ad ampi morsi. Il buffo era che, dinanzi a sé, aveva altre quattro scatolette tutte uguali e del medesimo tipo di quella che doveva aver contenuto l’hamburger che stava sbranando. Gli involucri in questione erano poi inframmezzati da un numero spropositato di contenitori di patatine fritte, molti dei quali ancora pieni. Lo spazio rimasto libero sul tavolo era infine occupato da bicchieri colmi di coca-cola, bustine di altre salse e un gelato.
Sulle prime pensai che fosse la quantità di cibo sufficiente a sfamare una intera comitiva di turisti che, attardatasi da qualche parte, sarebbe all’improvvisa comparsa urlante reclamando il pranzo, ma poi notai che l’unico cliente di quel banchetto era proprio lui. Il fatto che più colpiva era peraltro il forte contrasto tra quella voracità ferina e la corporatura tendente al magro di questo signore che era pure ben vestito a giudicare da quanto emergeva da sopra il tavolo: l’insieme, dunque, non collimava affatto con lo scempio che quello andava combinando.
Inoltre, nonostante che il tavolino fosse situato pressoché al centro della saletta, nessuno dei presenti gli prestava la minima attenzione anche se lui non mancava di mangiare con la bocca aperta – in modo da far intravedere che fine infausta può fare un manzo di pochi mesi – succhiandosi ad intervalli regolari (con relativo schiocco) le dita sporche di maionese e di ketchup.
Dopo aver divorato e bevuto ogni cosa (per un hamburger ebbi pure il sospetto che lo avesse mangiato senza toglierlo dall’involucro) si appoggiò quindi con aria sfinita allo schienale della sedia. Aspettò qualche istante, giusto per far riposare, forse, le sue mandibole tritatutto, dopodiché, preso un bel respiro, lanciò un rutto baritonale della durata di circa un paio di eternità.
Tutti gli astanti finalmente smisero di mangiare per osservare l’autore di cotanto richiamo. Persino la musica diffusa dall’altoparlante sembrò interrompersi.
Poi, per uno di quei moti spontanei di cui solo la gente è capace e che rimangono inspiegabili anche ai più eminenti sociologi, scattò l’applauso.
Senza vergognarsi neanche per un attimo, il tizio si alzò per prendersi e godersi ancor più i ‘meritati’ applausi, accennando persino ad un inchino sia a destra che a sinistra.
 Io, temendo che quel tipo, spinto dall’entusiasmo del momento, si cimentasse anche in altri rumori corporei, mi alzai in fretta e furia e, brandito il mio carrello malinconico, mi misi alla ricerca di Amina, deciso a stanarla in qualsiasi camerino si fosse nascosta.

Al cinema

Era da molto che non andavo a cinema con Amina. E’ sempre difficile dirle di no anche se le sue preferenze per i film impegnati, da circuito d’essai, ultimamente mi avevano lasciato un po’ perplesso. Quando ero ragazzo non disdegnavo pellicole di tal genere, ma invecchiando mi son reso conto che un buon film d’azione o una commediola americana leggera leggera hanno il potere di distrarmi e di rilassarmi dallo stress del lavoro. I film commerciali potranno anche non avere il ‘messaggio’ incorporato, ma certo è che vivo bene lo stesso.
“Non è che poi ti metti a dormire come l’altra volta, vero?”
La sua domanda esigeva ovviamente un mio no deciso. Ma mi rifugiai in uno:
“Perché ti do fastidio se dormo?”
“A me no, è che disturbi i vicini di poltrona in quanto russi forte. E poi mi spiace che ti annoi, magari preferiresti fare qualcos’altro.”
“No no, affatto, per me è sempre un piacere starti accanto.” Nonostante tutto, ero sincero.
All’entrata del cinema il manifesto, assai spoglio e minimalista, preannunciava il film di un regista slavo impronunciabile. Anche il titolo era sibillino.
“Di cosa tratta questo film?” chiesi preoccupato.
“Vedrai che questo ti piacerà” rispose lei rassicurante.
Non appena furono spente le luci, il film partì subito in salita. La telecamera indugiò per dieci minuti buoni su un tizio seduto sulla sua poltrona di casa, immobile, mentre guardava la parete bianca davanti a sé. Poi ad un certo punto lo stesso tizio risvegliatosi dal suo torpore, si alzò andando verso la porta d’ingresso che, dopo aver ancora indugiato, spalancò all’improvviso: un fascio di luce abbagliante lo investì dolorosamente. Come (forse) sono riuscito a capire nel prosieguo della proiezione quella doveva essere la metafora della presa di coscienza del protagonista circa il proprio passato di dissidente politico in piena guerra fredda, passato che, essendo lui prossimo alla morte e alla catarsi finale, aveva deciso finalmente di rimuovere. Seguirono scene lentissime di esterni. Neve, dacie e tundra, tundra neve e dacie, dacie, neve e tundra. Non se ne poteva più.
“Allora come ti è sembrato?” ebbe il coraggio di chiedermi Amina all’uscita. La sua espressione di vivo interesse per la mia opinione mi lasciò interdetto. Avevo tuttavia deciso di dirle la verità.
“Hai visto come il regista ha espresso in modo così sublime il travaglio interiore di Serghiej Olomov?” mi chiese stoppandomi ogni velleità liberatoria. “Il candore della neve era un chiaro richiamo alla verginità del pensiero rivoluzionario del protagonista, mentre il rosso delle bandiere era un evidente riferimento al sangue che sarebbe stato inevitabilmente versato per la realizzazione dell’Idea. Non hai colto anche tu il significato intrinseco di questi passaggi fondamentali dell’opera?”
“Sì, sì certo…” mentii spudoratamente.
“E che dire di quella scena di nudo?” disse lei dopo una pausa.
“Nudo?”
“Già, nudo. Non si era mai visto in un film d’autore russo impegnato, scene così lunghe e particolareggiate di sesso esplicito.”
“Davvero?” mi scappò.
Poi Amina fece un’altra pausa proprio mentre salivamo in macchina. Fu quello il momento in cui il profumo di olive nere della sua pelle mi investì in pieno stordendomi piacevolmente.
“Hai dormito anche questa volta, vero?” mi chiese con aria da finta sconsolata.
“Forse… un po’…” confessai.
Prendemmo per la provinciale: in questo modo sarebbe stato più facile evitare il traffico del sabato sera.
“Non c’è stata nessuna scena di nudo… stavi scherzando, eh?” le chiesi dopo un po’ “mi fai i tuoi soliti trucchetti da avvocato…”
Lei senza distogliere gli occhi dalla strada mi sorrise.
“Però devi ammettere che non ho russato.”
“No, questa volta no.”

Promemoria

A volte, quando adopero il programma di scrittura installato sul mio computer, mi accade che esca un avviso. Mi si chiede l’inserimento del CD d’installazione perché il programma non troverebbe un certa cosa che gli serve per farne un’altra. Io il CD (quello giusto) glielo ho dato in pasto più di una volta, ma lui l’ha rifiutato non riconoscendolo come originale. E dire che il CD in questione è davvero originale tanto da trovarsi nello scatolone del computer quando l’ho comprato, per cui non ho mai capito perché debba fare tanto il difficile.
Ma siccome non c’è niente di più testardo di un bit, quando ora appare quel benedetto avviso, anche mentre sto scrivendo, lo chiudo alla stessa velocità con cui si è aperto. Così è successo l’altro giorno.
Mi ero alzato di buon mattino per scrivere una lettera che dovevo portare al lavoro: me ne ero dimenticato, come mio solito, ma per fortuna, c’era ancora tutto il tempo sufficiente per prepararla, vista l’ora. Stavo procedendo nella rapida battitura quando esce il famoso avviso e io… ZAC lo chiudo immediatamente. Passano trenta secondi ed esce un secondo avviso ed io, concentrato com’ero su quello che stavo digitando, schiavo del mio riflesso condizionato, ZAC lo richiudo alla velocità di un millisecondo. Poi, tutt’ad un tratto, mi fermo: mi accorsi che avevo commesso un errore imperdonabile: quello che avevo chiuso non era l’avviso di richiesta di un fantomatico e improbabile CD, bensì il mio calendario elettronico che mi avvertiva, con priorità rossa, che c’era qualcosa da fare assolutamente nelle successive ventiquattrore e che non avrei dovuto dimenticare in nessun modo. Cominciai a sentir caldo. Andai a consultare il calendario elettronico del giorno, sul computer, là, cioè, dove avevo a suo tempo inserito il messaggio di promemoria. Cancellato! Avendo fatto clic sul pulsante OK non solo avevo rinunciato a posporre lo stesso messaggio per le ore o i giorni successivi, ma lo avevo anche eliminato. Per sempre.
La giornata prese all’improvviso tutta un’altra piega.
Quale poteva mai essere l’impegno che mi ero fissato? Cosa ci poteva essere di così tanto importante? Scartabellai appunti, calendari murali, l’agenda cartacea… nulla. Nessun indizio. Cominciai ad arrovellarmi. Che potesse essere una bolletta da pagare? Qualcosa da ritirare da qualche parte? Una scadenza del lavoro? Lentamente mi montava il panico. Quello che mi allarmava particolarmente era il fatto che il messaggio da me ignorato avesse un livello di attenzione rosso. Non verde o giallo o blu come mi accadeva di etichettare ciò che dovevo rammentarmi in una scala crescente di importanza, ma rosso, capite ROSSO, il che evidenziava conseguenze particolarmente negative in caso di inosservanza.
Cercai di fare mente locale: era un martedì. Cosa poteva esserci di rilevante in un martedì? L’uscita di una rivista? No, non era possibile, anche se l’avessi perduta l’avrei sempre recuperata da Tito. Una cena? Ecco sì, poteva essere una cena! Presi il telefono e chiamai tutti gli amici che conoscevo: Tonio, Bastiano, ‘Gi, Celestino, Tapioca… Il risultato fu che la cena era sì in programma, ma per il sabato sera di quella stessa settimana.
Finii la lettera e andai al lavoro aspettandomi il peggio. Passò la mattina, passò il pomeriggio: nessuna tegola mi era ancora caduta sul cranio. Ma non mi sentivo salvo. Sapevo che ‘quella cosa’ era in agguato e che sarebbe uscita quando meno me l’aspettavo per farmi pagare cara la mia dimenticanza.
Alla sera, a casa, verso le 21 squillò il telefono. Ecco ci siamo, dissi credo ad alta voce, ora ne sentirò delle belle.
No, era Browser. Sembrava disperato per il fatto di aver scoperto di avere la bocca storta. Non lo presi ovviamente sul serio. La mia mente era rivolta altrove. Inventai una scusa e riattaccai. Andai a dormire, sicuro che l’indomani avrei avuto un’amara sorpresa. Mi ripromisi di far vedere il computer magari allo stesso Browser: mi avrebbe eliminato quell’inconveniente dell’avviso inserimento CD. Questo però non mi faceva star meglio.
L’indomani, appena svegliato, fui folgorato dal ricordo. Dovevo andare dal dentista! Ma certo! Ecco cos’era! L’avviso messo nel promemoria elettronico al martedì era per ricordarmi che il giorno, mercoledì appunto, sarei dovuto andare dal dentista. Non era stato facile avere l’appuntamento in tempi brevi, ma ci ero riuscito. Era per le 19. Ora mi sentivo sollevato. Ero proprio contento.
A dieci minuti alle 19 scesi per andare allo studio del medico che peraltro è vicino a casa mia. Incontro Amina.
“Ciao bellissima!” feci io.
“Ciao!”
“Scusami, ma non posso fermarmi perché ho l’appuntamento con il dentista. Ti chiamo io, magari domani…”
“Domani?” fece lei rannuvolandosi di colpo “guarda che il dentista l’hai fissato sì alle 19, ma di mercoledì prossimo. Noi stasera dovevamo andare a cena. Hai prenotato in quel ristorante esclusivo come ti avevo chiesto, vero?”
Io impallidii.
“Non è possibile che tu ti sia dimenticato che questa sera festeggiavamo il mio compleanno…”

Un’attesa infinita

È incredibile quanta carica di allegria possano comunicare i bambini di un asilo nido che, vocianti, vengono consegnati, alla fine della giornata, dalle educatrici alle mamme. C’è chi piange, chi brandisce un disegno tutto colorato, chi non vuole più staccarsi dalle gonne della suora. Anche per questo motivo accompagno volentieri Amina, quando capita di dover andare a prendere sua nipote Banjii: trovo che sia un bagno salutare di ottimismo, una iniezione intramuscolo di fiducia nel futuro.
Nell’attesa degli eventi, mi tengo, comunque, sempre un po’ in disparte, perché, nel momento fatidico della consegna dei bimbi, il rischio di essere calpestato dalle mamme distratte, dai nonni impacciati o dai filippini spaesati è senza dubbio concreto.
Così l’altro giorno, nella mia posizione defilata, accanto alla nicchia del San Sebastiano, nell’antico chiostro delle “Crògiole” di Lughi, potevo vedere, come al solito, gran parte degli adulti che, davanti a me, allungavano il collo per percepire se dal fondo del corridoio provenivano segni dell’imminente arrivo dei pargoli. Scrutavo le persone, come spesso faccio quando aspetto qualcuno o qualcosa. Poi la mia attenzione cadde fatalmente sulla signora Spicciaùti, anche lei in quel luogo, con l’immancabile carrozzina appresso e il cappello dalle variopinte piume di fagiano. Era con due amiche e chiacchierava amabilmente: si comportavano tutte e tre come fosse reale la patetica farsa dalla donna di avere con sé un bambino che in realtà esisteva solo nella sua fantasia malata. E trovavo fin fastidioso che l’entourage della signora facesse a gara per assecondarla nella sua stramberia sempre più grottesca; mi era stato riferito, infatti, che erano arrivati persino a regalarle completini per il bambino, a chiederle come stesse il piccolo quando non lo vedevano con lei e a darle consigli e suggerimenti su come affrontare e superare le difficoltà di esser mamma. Insomma, una finzione più reale della realtà. E questa ipocrisia, pare, era stata messa in piedi solo per un riguardo al marito, avvocato ricchissimo e influente, oltre che politicamente ammanigliato con la coalizione governativa.
Stavo ruminando su queste amare considerazioni quando uscì dalla saletta dei giochi il gruppo dei bambini-girasole insieme ai bambini-tulipano. Per un attimo il chiasso raggiunse l’acme. Una delle due amiche che si trovavano con la Spicciaùti, afferrò la sua piccina al volo, non appena le arrivò a tiro, riuscendo a sottrarla alla canea urlante che si stava accalcando sui bambini: dopo aver baciato la sola Spicciaùti quella se ne andò.
Di lì a poco, venne sfornato il terzo gruppo, quello dei bambini-margherita. Capii che il nipote di Amina sarebbe stato l’ultimo al seguito del quarto contingente.
Nel frattempo arrivò il turno di accomiatarsi anche dell’altra amica in compagnia della Spicciaùti, ma mi accorsi che non aveva con sé alcun bimbo. Salutata infatti, anche se in modo più formale, la signora si portò via quella che io pensavo essere la carrozzina della donna. La cosa, a quel punto, cominciò a incuriosirmi, non riuscendo esattamente a capire che cosa ci potesse fare quella esaltata in un tal posto.
Finalmente fu la volta dei bambini-fiordaliso. Amina scattò in avanti, come una centometrista, per farsi vedere da Banjii. Quasi contemporaneamente, un altro bambino biondo si staccò dagli altri andando incontro sorridente alla Spicciaùti. Lei si abbassò e lo baciò sulla fronte. Ecco, ho capito, dissi tra me e me, è venuta a prendere il figlio di una qualche sua amica. Questa donna ha sempre la capacità di sorprendermi, pensai. Ma poi il bambino salutò la signora e proseguì in direzione della madre poco distante.
Nel frattempo Amina tornò verso di me, tenendo per un braccio il recalcitrante Banjii, una vera peste di bambino se non fosse stato per quel viso dolcissimo da “angioletto caduto dal cielo” che si ritrovava. Salutai l’angioletto ma lui mi fece una smorfia per nulla amichevole.
Intanto tutti i bambini erano stati riconsegnati ai rispettivi parenti e il chiostro era stato restituito al suo silenzio secolare.
Era rimasta, lì, da sola, la Spicciaùti, ferma, in piedi, in atteggiamento di paziente e trepidante attesa. Poi, dopo un po’, con estrema gentilezza si rivolse ad una suora che fungeva da portinaia:
“Mi scusi, sa per caso se nella saletta è rimasto qualche bambino?”
“No signora, sono già usciti tutti, non c’è più nessuno di là.”
“Ah, ho capito, allora mio figlio l’ha già preso mio marito. Non capisco perché si dimentichi di avvisarmi!”
La donna salutò e si diresse verso l’uscita. Io la guardai, sfacciatamente, con la bocca aperta mentre mi sfilava accanto.
“Viene qui ogni giorno…” mi disse sottovoce Amina prendendomi per mano “… e ogni giorno è sempre la stessa scena. Le prime volte tutti trovavano la cosa straziante. Ora non ci bada più nessuno.”