Clark

Clark-GableAurelio era nel suo letto d’ospedale. Non c’era nessuno al capezzale. Il braccio, vistosamente fasciato, era adagiato sopra le coperte. ‘30 punti di sutura gli hanno dato‘, mi disse l’infermiera con aria compunta. ‘Sembra gli sia sfuggita la motosega mentre stava tagliando la legna‘. Ora dormiva per effetto della sedazione. Il viso era rivolto verso la parte più in ombra della stanza, la bocca leggermente storta in una smorfia che solo l’anestesia può disegnare. Stavo chiedendomi se fosse il caso di andarmene o aspettare, quando entrò nella stanza, trascinandosi dietro un’asta portaflebo, Tonino. In realtà non l’avevo riconosciuto, fu lui a salutarmi.
«Ho un brutto male, sai… dicono che non ci sia più niente da fare…» mi anticipò come per rispondere alla domanda che gli avrei fatto. Lo squadrai. Era rinsecchito come se si fosse ritratto in se stesso, con pochi capelli sulla testa, gli occhi chiari appannati, un’età indefinibile addosso. «Senti…» mi disse a bassa voce infilandosi a fatica nel letto. «Visto che sei qui. Devo dirti una cosa.»
«Dimmi» gli feci avvicinandomi.
«Sai che da quando sono in pensione mi dedico al mio hobby di impagliare gli animali…»
«Sì certo, Tonino.»
«Ecco, ecco… volevo regalare al Circolo di Lettura alcuni pezzi che mi sono riusciti proprio bene.»
«Adesso non pensare a queste cose.»
«No no, te ne voglio parlare adesso perché potrei da un giorno all’altro non conservare la lucidità sufficiente per farlo, così almeno mi han detto i medici…» Deglutii. Almeno cercai di farlo. «Ho un bellissimo cinghiale che hanno sparato là a Poggiobrusco, proprio dietro a casa tua…» seguitò «è venuto una meraviglia e ne sono particolarmente orgoglioso…» disse sbattendo la lingua sul palato alla ricerca di un poco di saliva. «E poi… e poi… ho tre galli cedrone… una rara volpe grigia, un airone cinerino e… e… diverse altre cose, che adesso non ricordo neppure più.»
«Va bene, Tonino, adesso non preoccupartene…» gli dissi posandogli una mano sulla sua che sbucava dalla manica del pigiama come fosse finta. «Ora stai tranquillo» gli ripetei non sapendo cos’altro dire. Il suo sguardo si era spento. Pareva stesse vedendo un film su uno schermo lontano. Gli occhi si erano fatti lucidi.
«E poi ovviamente c’è Clark…» mi disse all’improvviso ritornando alla realtà.
«Clark?»
«Clark Gable!»
«Sì, certo» gli dissi io «e chi altri?» come se avessi capito cosa intendesse dire.
«Quando entri in casa mia è sulla destra appena dietro l’armoire con le braccia un po’ alzate, come se recitasse, e il viso da ‘piacione’. Chissà quante volte ci sei passato davanti.»
In effetti me lo ricordavo. Vagamente. Sorrisi. «Vuoi dare al Circolo anche quello?»
«No no, per carità… stonerebbe.»
Aurelio, dietro alle mie spalle fece un lungo sospiro. Considerai in quell’istante che stavo facendo il pieno di ragioni per sentirmi depresso. Lo guardammo entrambi mentre lentamente voltava la faccia verso la finestra. Un filo di bava gli scese dall’angolo della bocca. Stava russando.
«Trent’anni fa, o forse più, stavo tornando dal mio paese, giù in bassitalia» si mise Tonino a raccontare. «Era notte e c’era molta nebbia; stavo percorrendo una stradina di campagna quando ad un certo punto ho investito un capriolo. È uscito improvvisamente dalla macchia e non l’ho visto. Accostai la macchina: mi aveva sfasciato la mascherina davanti e un faro. Imprecai perché il fuoristrada era nuovo o quasi. Poi realizzai che, dopo tutto, mi sarei mangiato un capriolo e come risarcimento non era da buttare.» Tonino mi fece segno di allungargli il bicchiere d’acqua riposto sul comodino. Bevve a piccoli sorsi.
«E allora?» lo incalzai vedendo che se la stava prendendo con calma.
«Allora, mi sono avvicinato al capriolo è mi sono accorto che non lo era affatto; era un tizio. Ed era piuttosto morto.»
«Cosa?»
«Sì, allora ero giovane e non volevo avere grane. Così l’ho caricato sul fuoristrada e l’ho portato a casa. E siccome assomigliava tanto a Clark Gable ho accentuato la sua somiglianza. Insomma, l’ho impagliato e piazzato nel corridoio di casa mia. Non se n’è accorto mai nessuno. Neppure tu. C’è chi, in tutti questi anni, l’ha usato persino come portaombrelli.»

Io sono malato

L’infermiera entrò nella stanza come una furia. Senza guardare diede una manata all’interruttore a muro, grigio di ditate, e azzittì la chiamata: «si può sapere cosa vuole ancora?»
L’uomo con gli occhi chiusi, si agitava nel letto, madido di sudore. «Mi può dare un antidolorifico per la notte?»
«Il medico non ha lasciato prescritto nulla!» disse secca per azzittirlo «… e poi lei non c’ha niente!»
«Come non ho niente!?! Ho dodici punti in gola…»
«Tutte storie. Lo sappiamo benissimo perché lei è qui. Le solite raccomandazioni…».
«Ma cosa dice?» sbottò indicando il fondo del letto «legga la cartella… c’è scritto ogni cosa… ho anche la febbre alta, da ieri, e nessuno se ne preoccupa.»
«Lei è il peggior finto paziente che mi sia mai capitato…» e dicendo questo si girò così velocemente che la crestina bianca tra i capelli le si spostò di lato. L’uomo aspettò nel silenzio che l’infermiera tornasse. Non poteva dire sul serio, non poteva davvero lasciarlo lì in quella condizione.
«Non tornerà» si sentì dire nella penombra accanto a lui.
«Come dice?»
«Lei è nel reparto sbagliato». L’uomo si voltò un poco e vide il profilo di una donna non più giovane che si protendeva verso di lui. «La osservo già da un po’, sa?’: lei deve andare in un altro reparto … a pagamento, s’intende, ma lì i malati ipocondriaci sono presi sul serio… Ho visto i suoi vestiti e il Rolex che ha al polso. Lei è uno che ha mezzi, non perda tempo con noi.»
«Malato ipocondriaco, io? Ma sto male sul serio: mi hanno operato l’altro ieri… due ore di intervento alla tiroide… ho male dappertutto… senta anche la voce com’è rauca!»
«Interpretazione perfetta! Lei è bravissimo, gliene devo dare atto… ma non deve convincere me. Venga, andiamo…» e così dicendo sganciò il freno dalle ruote del letto. «Dobbiamo andar via prima che l’infermiera ritorni».
«Ma dove andiamo?» fece l’uomo preoccupato vedendosi girare tutt’attorno la stanza.
«Nel reparto che le ho detto. Non si preoccupi, ho già fatto la strisciata con la sua carta di credito, il resto lo pagherà a rate, con calma… Vedrà si troverà benissimo».
«Io non voglio andare da nessuna parte! Sono malato sul serio, né ho intenzione di pagare alcunché. Ho il diritto di essere curato gratis, pago le tasse, io, cosa crede?». Il letto, spinto dalla donna, aveva intanto inforcato il corridoio e poi un altro, per poi imbucarsi in un ascensore per lettighe e attraversare un paio di reparti. «Ecco ci siamo!» annunciò la donna trionfante. In un attimo il letto raggiunse una stanza trovando parcheggio in uno spazio vuoto. L’uomo aveva voglia di piangere.
«Allora come lo vuole?» sussurrò un’infermiera apparsa dal nulla mostrando un décolleté vertiginoso profumato di mirra.
«Come dice?» fece lui ancora stordito dalla febbre.
«Come lo vuole l’antidolorifico? Normale, ‘scoppiettante’ o vuole la nostra ”superbumba’?» e strizzò l’occhio.

Sì, io sto bene

 

Nel dormiveglia della febbre l’uomo sentì squillare il telefono in lontananza. Si alzò a fatica. I brividi lo scuotevano profondamente; prese il maglione sul bracciolo della poltrona e lo indossò sopra il pigiama.
«Sì, pronto?» disse con una voce che gli uscì cavernosa.
«Non sai cosa mi è capitato oggi appena entrata in ufficio?» fece lei tutto d’un fiato. «Pensa! Mi si è rotto un tacco. E non c’è stato verso di ripararlo. Così sono andata dal capo zoppicando che sembravo un pirata sulla tolda di una nave. Non mi sono mai sentita tanto umiliata in vita mia…»
«Mi spiace.»
«E poi lui mi ha affibbiato quella rogna immensa di cui ti avevo parlato e che nessuno voleva, ecco cosa significa essere una donna in un ambiente di soli maschi.»
«Mi spiace davvero, cara, io comunque sto meglio…»
«Ah certo!!! Facessi gli occhi dolci e mi mettessi le gonne e le magliette giuste come fanno certe segretarie… Guarda, non farmi parlare perché ne avrei di cose da dire… Ma che non tirino troppo la corda perché sennò… sennò… non so nemmeno io cosa potrei fare…»
«Beh… questa mattina avevo ancora un po’ di febbre, ma con la tachipirina un po’ è scesa…»
«Giorno verrà che scopriranno i miei meriti professionali e i signori uomini allora sì che capiranno con chi hanno a che fare… altro che smancerie e battutacce da caserma… e poi fumano, fumano tutti. Se ne fregano della legge. Io glielo dico di smetterla e loro sai cosa fanno? Si mettono a ridere, mi prendono in giro, ma si può?»
«E’ la tosse che ancora mi preoccupa, forse con un po’ di latte e miele…»
«Un giorno o l’altro gli faccio lo scherzo di chiamare i Carabinieri, allora sì che sarò io a ridere, altro che…»
«No, l’antibiotico ancora non l’ho preso…»
«Va bene, va bene… non voglio farla tanto lunga. Ti richiamo più tardi, adesso devo andare in riunione… tornerò a casa tardi, ciao.»
«Sì, sì, non ti preoccupare, tanto io sto bene, ciao.»