Punto e Virgola

Era conosciuto da tutti come Luca Lagonegro. Uso l’imperfetto perché di lui non si è saputo poi più nulla; dopo quel giorno d’inverno, intendo dire, in cui uscì dal bar del Cinghiale, a Lughi, senza farvi più ritorno. Ma andiamo per ordine.
Luca era ancor più noto in paese con il soprannome di ‘Punto e Virgola’ per quella sua camminata un po’ bislacca per la quale prima si impuntava con la gamba rigida sinistra e poi cedeva improvvisamente con quella destra, quasi dovesse rovinare a terra da quel lato, finendo con il disegnare un’andatura armonica da nave in tempesta o, appunto, come tutti pensavano, da punto e virgola. Nessuno seppe mai se lui fosse o meno a conoscenza che lo chiamavano in quella maniera, ma certamente non lo aveva mai dato a a vedere. Aveva sempre il sorriso sulle labbra e un carattere mite che aveva conquistato il cuore dei compaesani. Forse molto aveva contribuito proprio quel suo modo di procedere sgangherato e buffo, dovuto a una poliomelite contratta all’età di tre anni, e quella sua aria di volersene sempre scusare a ogni passo. Sta di fatto che il suo studio da commercialista andava a gonfie vele. Aveva una parola buona per tutti, sia per quelli che non potevano pagare e chiedevano una dilazione, sia per quelli che i soldi invece ce li avevano e non volevano pagare troppe tasse.
E così arriviamo a quel 17 dicembre di circa tre anni fa. Il bar era pieno, in gran parte di amici, ma anche di forestieri venuti apposta per la Fiera del Bove nero. Lui ad un certo punto, alzandosi in piedi e puntandosi con un braccio al tavolo, aveva detto ad alta voce:
«Ho fatto, proprio ieri, quarant’anni di lavoro ed è il momento di andarmene in pensione.» Lo disse soddisfatto, alzando il boccale di birra a mo’ di saluto generale. Ma lo disse, come al solito, sorridendo tanto che molti non lo presero sul serio e continuarono a guardare la tv o a giocare a tressette. «E ora…» disse a voce ancora più alta «… passerò per quella porta, andandomene via dritto come un fuso: e non mi vedrete mai più.»
L’idea che “Punto e Virgola” se ne potesse andare via ‘dritto come un fuso’ fece sbellicare gli astanti dalle risate. Luca però non si scompose. Posò il boccale pieno a metà, si aggiustò la cravatta sul colletto inamidato che non mancava mai di ingentilire l’altrettanto immancabile completo gessato e, senza dondolare né a sinistra, né a destra, camminando come una persona normale, prese la porta e se ne uscì, facendo rimanere attoniti gli astanti che per quarant’anni e forse più, lo avevano ritenuto uno storpio.
Dopo qualche settimana si scoprì anche che c’erano diversi ammanchi nelle casse delle società da lui gestite; si apprese inoltre che Luca Lagonegro si chiamava in realtà Paolo, Paolo Blažetić o Blažotevic o qualcosa del genere e che non era nato neppure a Lughi, ma forse in Croazia o in Dalmazia. Insomma ci si accorse che di lui si sapeva ben poco. Davvero troppo poco, come si lamentò pure il maresciallo del posto. Anche se per tutti rimase sempre e comunque ‘Punto e Virgola’.

Un caffè ben zuccherato

«Un caffè» disse l’uomo rivolgendosi al barman che gli dava le spalle. Oreste lo guardò nel riflesso dello specchio senza voltarsi o fare un cenno d’intesa. L’uomo, mai visto prima al bar del Cinghiale, aveva un riporto vistoso che gli copriva malamente parte del cranio mentre un paio di occhiali dalla montatura spessa sembrava volergli ghigliottinare, da un momento all’altro, un naso troppo grosso per quella faccia tonda. Oreste armeggiò alla macchina del caffè con la solita rapidità e, afferrata una tazzina bollente da sopra la Gaggia, la riempì di caffè profumato. «Eccoci» disse piazzando la tazzina sul bancone; il cliente, dopo essersi guardato un po’ attorno, scelse da una ciotola di peltro una bustina di zucchero di canna; la strappò di lato e la versò interamente. Cominciò a girare. Dopo cinque minuti che girava ancora, Oreste gli domandò:
«Qualcosa non va?»
«No no, tutto ok, grazie. È che, se non si mescola a lungo, lo zucchero di canna non si scioglie bene e rimane sul fondo.» Trascorsero altri cinque minuti, l’uomo stava ancora muovendo in circolo il cucchiaino in modo ipnotico.
«Sì, ma quando lo zucchero si sarà finalmente sciolto tutto, il caffè sarà freddo» osservò Oreste che non riusciva a capacitarsi. L’uomo non stava neppure a sentire: mulinava la posata, in modo lento e metodico, assorto nei suoi pensieri. Passarono altri minuti e nel bar si era fatto un silenzio imbarazzante. Oramai si sentiva solo lo sbattere del cucchiaino contro le pareti della tazzina. Il Conte Lodo Tederighi Baldi con una mano in tasca e l’altra a lisciarsi un baffo si avvicinò un poco e azzardò con ironia:
«Credo che alla fine ci farà il buco in quella tazzina…» L’uomo mescolò ancora poi estrasse il cucchiaino dalla tazza e lo posò sul piattino. L’uomo strinse la tazzina per il manico, ma poi ci ripensò; riprese il cucchiaino e, infilatolo nel caffè, prese a girarlo nuovamente in modo cadenzato. Il coro degli astanti fu all’unisono di disappunto. Molti, a quel punto, si avvicinarono allo strano tipo con curiosità, altri girarono la sedia per vedere meglio, uno, addirittura, spense il televisore per non distrarsi.
L’uomo, trascorsi altri interminabili attimi, ripose nuovamente il cucchiaino sulla tazzina afferrando delicatamente con due dita il manico della tazzina. Ci fu un attimo in cui tutti i presenti trattennero il respiro. Poi il cliente staccò finalmente la tazzina dal piattino per portarla alla bocca, ma, all’improvviso, con uno scatto secco, rovesciò il caffè dietro alle sue spalle centrando tre o quattro persone che, raggiunti dal liquido, cominciarono a bestemmiare e a inveire. L’uomo rimase immobile, con un’espressione disgustata.
«E adesso che c’è?» chiese Oreste che ancora non si era ripreso dalla scena cui aveva appena assistito.
Il cliente schioccò rumorosamente la lingua battendola più volte contro il palato; e sospirò:
«Lo sapevo io: è amaro! Lo zucchero non si è sciolto bene!»

* * * * *

La storia minima ‘Un caffè ben zuccherato‘ è stata pubblicata per la prima volta sulla Webzine

(–> Per i sentieri di Poggiobrusco n. 1)

Gin lemon

La signora sedeva spesso a quel tavolino d’angolo. Beveva un gin lemon fumando qualche sigaretta. L’aria era distinta, un viso serio, valorizzato da fluenti capelli castani, nascosti a volte da un cappello largo, altre volte raccolti in modo discreto dietro la nuca. Quarant’anni addolciti da qualche amore meno distratto di altri con qualche traccia sui lineamenti maturi e il corpo raccolto in vestiti raffinati, ma indossati con stile, senza strafare. Sembrava sempre aspettasse qualcuno, ma dopo circa mezz’ora guardava l’orologio come se il tempo fosse scaduto e, posati in fretta i soldi sul tavolo, si allontanava con il passo di chi abita il proprio mondo a proprio agio.  E come ogni mercoledì era a quel tavolino laggiù. Leggeva un libro che sfogliava pigramente. Aveva appena terminato la pagina undici quando da dietro la sua spalla vide inoltrarsi lentamente una mano. Non fece in tempo a spaventarsi che un uomo sui trent’anni gli cadde addosso per poi rovinare sul tavolino rovesciando bicchiere e posacenere. La donna, con entrambi i pugni chiusi, quasi volesse aggredirlo, si stizzì.
«Mi scusi sono mortificato…» fece lui cercando di riprendersi la dignità scivolata a terra con la sedia e tutto il resto. Teneva ancora in mano il cellulare in cui la donna scorse distintamente la foto del suo piede destro.
«Cosa fa? È impazzito?»
L’uomo si era accorto che la donna osservava insistentemente la foto sicché, vistosi scoperto, prese a balbettare:
«Lei non sa, lei non può capire…» cercò lui di giustificarsi confusamente «io la vedo spesso qui al mercoledì. Lei ha dei piedi bellissimi, io ne vado pazzo… io, io…» Era stravolto, rosso in viso, gesticolava non sapendo più dove mettere le braccia e il resto del corpo.
«Va bene… però adesso si calmi, non faccia così» fece la donna preoccupata si sentisse male tanto era paonazzo. «In fondo non è successo niente di terribile.. adesso si calmi… su, da bravo…» L’uomo si ammutolì. Non osava guardarla in faccia. Aveva gli occhi fissi a terra, come un bambino che si aspettasse la giusta punizione. «Però la foto… è venuta mossa…» disse la donna indicando il cellulare abbandonato lungo i fianchi. «Su, ci riprovi. Vuole che mi tolga la scarpa o va bene così?»

Il sat-nav

Il rumore era assordante. Sembrava che la strada stesse ribollendo e il muro arretrasse barcollando sotto una forza inarrestabile. Poi dalla viuzza che si getta nella piazzetta di Lughi proveniente dalla provinciale, un enorme TIR rosso con le fiancate sfregiate di nero e una tigre in procinto di balzare, entrò sbuffando nel quadrato. I vetri dei negozi vibrarono e una nuvola di gas combusto rimase rasoterra per l’aria bassa e il tetto a nuvoloni grigi. Il TIR si accovacciò in centro e subito Alvaro, il vigile di Lughi, si precipitò ad ammonire: ‘Non può parcheggiare qui, è vietato’ ma la sua voce suonò fessa e innaturale e il vento se la portò via in un attimo. Un effetto dovette però averlo avuto, perché dalla cabina balzò giù atletico l’autista e Alvaro subito apparve uno stuzzicadenti in mano a un gorilla se solo i gorilla fossero stati come quello: biondi, massicci e con la mascella volitiva. L’autista replicò qualcosa in una lingua incomprensibile e subito si diresse al Bar del Cinghiale lasciando Alvaro con il fischietto tra le labbra molli. Ordinò una birra, ma si mise a ridere quando Oreste gli piazzò davanti il bicchiere più grande che aveva. L’autista mimò la grandezza che desiderava e Oreste impallidendo gli allungò più bicchieri, tutti colmi.
‘Viene da Malmo, in Svezia’ tradusse Pani che aveva lavorato all’estero per tanti anni.
‘Che ci fa qui, con quel bestione?’
‘Dice che è il suo nuovo sat-nav, il navigatore satellitare, ad avergli indicato questa come la strada più breve per il Sud’.
‘Ma non è il percorso più veloce, c’è l’autostrada…’ obbiettò qualcuno.
‘È la strada più breve!!!’ ribadì il biondo in svedese finendo la terza birra. E senza neppure cercare di smorzare un rutto spontaneo che fece ballare i tavolini, l’uomo uscì di fretta dando l’impressione di voler sradicare la porta che aveva davanti. In pochi balzi fu in cabina. Un frullo di passeri scappò all’accensione del motore. Pareva ci fossero due camion là dentro. ‘E ci sarà anche una matrimoniale altro che brandina!’ sentenziò uno magnificando da intenditore la montagna di metallo e plastica che si allontanava lentamente. La piccola folla, assiepata appena fuori il bar, avrebbe avuto di che parlare nei giorni a venire anche se ora non aveva più nulla da aggiungere a quell’immagine mitologica sempre più piccola.
Poi un fragore di metallo strusciato contro le alte finestre e un divellere di specchietti laterali delle macchine annunciò l’arrivo di un altro colossale autoarticolato. Si liberò agevolmente di un paio di segnali stradali e caracollò sicuro all’imbocco della piazza. Era come un tirannosauro appena stanato, pronto alla lotta.

All’improvviso è arrivata

Il professore Ghirinbelli apparve in piazzetta con l’aria stralunata. La barba, cresciuta a dismisura da quando era in pensione, sembrava tremare. All’improvviso gli si accese in volto un largo sorriso e con un movimento fin troppo rapido per la sua età afferrò qualcosa a mezz’aria e cominciò a tirare.
«L’ho presa, l’ho presa» si mise a gridare. Alcune persone che stavano prendendo il caffè al bar si spaventarono e gli corsero vicine.
«Cosa succede, professore, si sente male?»
«No, no, anzi… aiutatemi non ce la faccio da solo…» Nello sforzo di tirare qualcosa a sé, nel vuoto, all’anziano cattedratico erano venute bianche le dita delle mani e aveva preso ad ansimare.
«Ma cosa sta facendo, professore? Perché fa così?» domandarono non vedendo nulla davanti a loro.
«Prendetemi per la vita, presto, tirate anche voi! Per carità!» Un po’ per la perentorietà del comando, un po’ per la stima incondizionata di cui l’uomo godeva in paese, i pochi astanti lo aiutarono. Il primo si mise dietro al professore cingendolo ai fianchi con le braccia. Gli altri a loro volta si piazzarono alle loro spalle a formare una catena umana.
«Cosa stiamo facendo, professore?» gli chiesero tutti.
«Non ce la facciamo, chiamate altre persone!» quasi implorò. E l’ultimo della coda andò di casa in casa, di negozio in negozio. Bisognava aiutare il professore… non ce la poteva fare da solo, si trattava di un’emergenza, bisognava far presto. Così si unì il fabbro con i suoi centotrentadue chili di muscoli ferruginosi, i gemelli Taddeo, la squadra di canottaggio al completo, Bepi, il Toledo, Rumi il boscaiolo. Ma nonostante la fila si ingrossasse e la gente facesse del suo meglio, la forza stava avendo la meglio, guadagnando terreno.
«Cos’è che tira così tanto, professore? Eppure non si vede un bel niente» chiese il maresciallo che accarezzava la pistola d’ordinanza pronto a usarla.
«È l’Utopia» balbettò il pensionato per lo sforzo. Se riusciamo a trattenerla tra noi non avremo più malattie, non invecchieremo più, non dovremo più faticare per vivere, rivedremo le persone care che non ci sono più, saremo felici insomma… È tutta la vita che l’aspetto e ora all’improvviso è arrivata».
«Luto Pia?» fece il maresciallo aggiustandosi il berretto. E poi vedendo che non riceveva risposta e constatando con quale impegno la cittadinanza stava lottando per qualcosa che non si vedeva neppure, si unì anche lui imitato ben presto da tutti gli altri abitanti, comprese le donne e i bambini. Ma l’Utopia continuò a tirare e tirò ancora, metro dopo metro, portandosi a spasso il serpentone per le vie del borgo. Un paio di volte sembrò persino che stesse per cedere, ma poi a un certo punto diede uno strattone irresistibile e si portò in cielo tutto il paese.