È stato un attimo

La signora Maria si mise in piedi, trattenne il respiro e cominciò:
«Signor Giudice…» la voce le uscì rauca, la schiarì. «… Signor Giudice sono davanti a lei per spiegarLe ogni cosa… sì, lo devo fare, lo devo proprio fare… deve sapere… che quando quel giorno sono uscita dalla casa della mia amica, mia figlia Helèna era andata avanti. È stato un attimo… si è girata, si è fermata sulla linea che delimita la carreggiata e mi ha chiamata. Io chiudevo il cancello, signor Giudice, avevo entrambe le mani occupate, glielo giuro. Helèna era lì vicino a me, se avessi allungato un braccio l’avrei toccata. Mi chiese se poteva attraversare la strada da sola visto che aveva dieci anni ed era grande. La nostra macchina era parcheggiata sull’altro bordo della statale e io le ho detto sì, ma il camion me l’ha portata via. Sembrava un palazzo che si muovesse. E’ passato come un lampo e la bambina non c’era più. L’hanno ritrovata cento metri più in su, la testa spaccata come un melone. Sembrava un fantoccio, un bambolone rotto. Non sembrava neppure più lei. Glielo giuro, avevo una mano ancora sul cancello e ho detto ‘sì attraversa, tesoro, sì vai, sei grande, vai… ’, e ora grande non lo diventerà più. Ma non è tutta qui la storia, signor Giudice, c’è dell’altro. Ho provato a spiegarlo al signor Pubblico Ministero, ma lui ascoltava solo quello che gli faceva comodo. Vede… avevo il sorriso sulle labbra quando Helèna mi chiese di poter attraversare da sola. Io sorridevo, serena… finalmente. Perché avevo visto… avevo visto arrivare l’autotreno alle sue spalle e l’ho incoraggiata ad andare, loro, cosiddetti inquirenti, non l’avrebbero mai capito se non lo stessi confessando ora qui a Lei: una mamma, cui la sorte ingiusta strappa via una figlia in tenera età, fa sempre pena, e una bambina morta ancora di più. Insomma la colpa non è dell’imputato, dell’autista dell’autotreno, ma mia. vede, Signor Giudice, lei non era la mia bambina, era la figlia che mio marito aveva avuto dalla sua amante. Io la odiavo, non volevo che mi chiamasse mamma. Mio marito ha sempre pensato che io avessi accettata la situazione, così almeno gli avevo fatto credere tutti questi anni. Ma non era così, non era assolutamente così. Mi sono vendicata, signor Giudice, la piccola Helèna assomigliava tutta a quella donnaccia… e così al cancelletto ogni cosa mi è sembrata chiara, un segno del destino: Helèna che voleva attraversare da sola… l’autotreno che stava arrivando, io che mi ero attardata a chiudere la porticina come vi ha riferito sotto giuramento la mia amica. Un piano perfetto, una semplice banale fatalità. E invece la vera verità è questa qui, la dannata verità. È come se l’avessi uccisa io, signor Giudice… IO! Lo so, sono un mostro.»

La donna si mise a piangere a dirotto e si sedette sul letto. Lo specchio della sua camera  rimandava l’immagine sfatta di una donna che cercava di nascondersi il volto tra le mani. Poi si acquietò. Freddamente si sciolse il foulard che le circondava il collo e cominciò a sbottonarsi il tailleur che aveva appena indossato:
Al diavolo’ disse tra sé e sé buttando da un lato il cappello nuovo comprato per l’occasione ‘non ce la farò mai a confessare. No, non ci andrò al processo questa mattina, mi inventerò qualche scusa, che vadano tutti al diavolo, quella mocciosa, dopotutto, ha avuto quello che si meritava’.

Un povero diavolo

 

Don Mario si stringeva nelle spalle nel vano tentativo di scaldarsi. Da quando gli erano stati tagliati i fondi non era più stato in grado di rendere anche solo tiepida la chiesa nelle ore che non fossero strettamente di celebrazione della messa. Così alcune volute leggere di vapore uscivano dalle sue labbra mentre, alla luce di una piccola torcia, stava leggendo il breviario all’interno del confessionale. Poi la luce si spense. Don Mario la batté più volte sul palmo della mano certo di aver sostituito da poco le pile.
«Mi perdoni padre perché ho peccato.»
Don Mario fece un sobbalzo.
«Sono un povero diavolo e voglio confessarmi» disse qualcuno inginocchiandosi al confessionale. Il suo viso era così a contrasto con la sottile grata di rame che il prete poteva sentire il suo alito caldo riempire il confessionale. Odorava di aceto e di muschio, misto a incenso andato a male.
«E’ da tanto che non ti confessi, figliolo?» gli chiese don Mario riprendendosi.
«Ho molto peccato, padre» rispose l’altro come se non avesse sentito. «Più che altro ho fatto peccare. Ho fatto crescere l’odio in giovani menti, ho radicato in altre la cupidigia, la lussuria, la vanità, e ho dato a tutti disperazione e tormento.»
«Sei il capo di qualche banda?»
«Ho istigato l’incesto, la violenza sessuale, l’omicidio…» seguitava lo sconosciuto a ruota libera. La sua voce era profonda, monotona, vibrante. Sembrava un torrente tracimato nei campi. Il sacerdote ora sentiva caldo e gli mancava l’aria.
«Ho fatto tradire l’amore coniugale, ho distrutto l’orgoglio e la dignità di uomini onesti rendendoli corrotti e malvagi, ho messo figli contro padri, fratelli contro sorelle.»
«Ma tu ora, sei pentito?» sentì di dover dire a quel punto il prete.
La figura che gli era accanto si era fatta immobile. Don Mario avvertì alcuni singhiozzi, dapprima contenuti, poi più chiari, frequenti e liberatori. Il sacerdote si sentiva in imbarazzo. Si asciugò il sudore che gli colava lungo il collo e la schiena, e disse:
«Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine…»
Ma il tipo alla sua sinistra non c’era più. Il gelo si era fatto di nuovo strada nel confessionale come se fosse piombato in una cella frigorifera. E la luce della torcia si accese all’improvviso.