Salutarsi

scaleLo incontrava sempre sulle scale. Aveva anche cercato di anticipare il suo ritorno o di ritardarlo, ma il risultato era sempre lo stesso: lui saliva e l’altro scendeva. Gli si parava davanti all’improvviso, quasi aspettasse di sentire lo scalpiccio sui gradini. Usciva con irruenza dalla porta della sua abitazione con quell’odiosa aria caracollante da nave che presti le fiancate a onde troppo alte per la sua stazza, una barbetta da professore saccente, lo sguardo impenetrabile e fisso come di chi non si cura del mondo intero. Una persona di per sé antipatica se non fosse stato, in modo inammissibile, che non rispondeva al suo saluto. E dire che erano scale tanto strette che per far scendere o salire qualcuno, l’altro doveva mettersi un po’ di lato. Non vedersi era possibile, ignorarsi un affronto.
Possibile mai che non mi debba rispondere?’ pensava Onofrio rientrando ogni volta furibondo in casa sua. ‘Ma come si permette?’ ‘Chi si crede di essere?
E, nonostante ogni sera masticasse amaro e si ripromettesse per l’indomani di non salutare più il cav. Livolsi (così c’era scritto sulla targhetta sopra il suo campanello) qualunque cosa accadesse, fatalmente, appena lo incrociava, il saluto gli usciva spontaneamente dalla bocca, come se avesse avuto vita propria, e altrettanto fatalmente Livolsi atteggiava il volto a una espressione di cera, a quello che sembrava un sorrisino prestampato, continuando a scendere i gradini in un silenzio glaciale.
Un giorno, salendo le scale e rimuginando il suo proposito definitivo di starsene zitto e di ignorare ostentatamente il suo vicino, lo vide uscire con il solito impeto, ma non era solo: c’era una bambina insieme a lui. Onofrio, disobbedendo ancora una volta ai suoi buoni propositi, fece una cosa che non pensava avrebbe mai fatto. Si chinò all’altezza della bambina e la salutò cordialmente; e la bambina, con un largo sorriso, rispose: «Buonasera a lei, Signore…»
Onofrio per un attimo chiuse gli occhi per l’emozione. Ebbe un capogiro. Poi si voltò verso la bambina: «Almeno tu mi rispondi, non sei allora come tuo nonno…» gli scappò di dire.
«Ma cosa dice, Signore!» fece lei assumendo uno sguardo severo mentre il cav. Livolsi proseguiva la sua discesa ignorando la scena. «Mio nonno, poverino, è sordomuto dalla nascita…»
Onofrio rimase senza parole. Non sapeva che dire. Non ci aveva pensato.
Il cavaliere intanto aveva svoltato la rampa, subito seguito dalla bambina che lo raggiunse di corsa.
Onofrio era invece rimasto lì, sul pianerottolo, immobile, senza avere la capacità di riprendere la salita. Sentì in basso lo scatto del portone d’ingresso e il suo chiudersi con un rumore di legno e di metallo.
Arrivati in strada, il nonno prese per mano la nipotina. I due squadrarono il cielo dove la luna si era velata come per una cena elegante. Lui le sorrise teneramente e indicò la strada alla loro destra: iniziarono a passeggiare mentre la bambina gli si strinse dandogli un bacio all’altezza dell’avambraccio. Il via vai sornione del tardo pomeriggio venne loro incontro con dolcezza tra le vetrine illuminate che promettevano mondi favolosi ricolmi di cose buone e preziose.
«Cos’è che ti diceva quel cretino?» chiese a un certo punto lui.
«Non lo so, nonno, non l’ho capito neppure io…»

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Slide

slidesUgo scese le scale di casa lentamente; cercava di ricordarsi se avesse dimenticato qualcosa. Sì, il neon in cucina l’aveva spento e anche il gas sotto la moka. E il computer? Ma sì lo aveva preso.
Era ormai arrivato nell’androne quando vide sui primi gradini due scatole robuste di cartone posizionate in modo sbilenco, una sopra l’altra: erano piccole ma capienti, senza scritte visibili. ‘Chissà di chi sono…’ si disse passando loro accanto; fatti due passi verso il portone tornò indietro. ‘Di questi tempi, non c’è mica da fidarsi’ pensò per giustificare quello che stava per fare. Inserì con finta noncuranza l’unghia appena sotto il coperchio e lo sollevò di scatto.
Si trattava di diapositive, tante, riposte ordinatamente nel rispettive scatole multicolori. Ne stava per prendere una in mano per vedere di cosa si trattava quando sentì che, qualche piano più in su, qualcuno aveva chiuso la porta di casa e stava scendendo. Richiuse la scatola e uscì in fretta.
Qualche giorno dopo rivide altre due scatole, per lo più simili alle prime, e più o meno nella stessa posizione. ‘Ma di chi possono essere tutte queste diapositive?’ si domandò questa volta a voce alta, sempre più curioso. Fece mente locale per ricordarsi chi abitasse nel condominio. Erano tutte persone che conosceva da almeno trent’anni, tranne alcuni brutti figuri ‘colorati’ del primo piano; nessuno comunque, per quel che ricordava, faceva fotografie o faceva uso di diapositive per ragioni di studio o lavoro. ‘Strano, proprio strano…’ Si avvicinò con studiata indifferenza e con una mossa repentina fece saltare nuovamente il coperchio; le scatoline delle diapositive erano questa volte tutte azzurre, diverse dunque da quelle dell’altro giorno: ci saranno state, mal contate, circa cinquecento slide. Afferrò una scatolina per vedere di cosa si trattasse quando sentì scattare l’apriporta del portone d’ingresso. Aveva fatto appena in tempo a rimettere tutto a posto che entrò nell’androne l’anziano ing. Mesticchi, l’unica persona, tra l’altro, cui aveva pensato potessero appartenere le scatole.
«Buongiorno ingegnere» fece Ugo andandogli incontro disinvolto.
«Oh… sig. Bezzi, non l’avevo vista, come sta?»
«Non c’è male, dopotutto…» e mentre Mesticchi si girava con un gesto automatico verso le cassette delle lettere per controllare se c’era posta Ugo gli rivelò: «Sono arrivate le scatole…» usando un tono come se entrambi sapessero di cosa stessero parlando.
«Scatole?»
«Sì, quelle!» e le indicò di sfuggita come se non potessero che essere sui gradini.
«Ah… e di chi sono? Sono sue?»
«No di certo! Non so nemmeno cosa contengano» rispose Ugo osservando in modo interrogativo l’ingegnere.
«Be’ non sono neanche mie» concluse Mesticchi con la sua solita aria svagata. «Buona giornata!» fece subito dopo, tagliando corto.
«Buona giornata» contraccambiò Ugo deluso.
Passarono diverse settimane senza che si notassero nell’androne altre scatole.
Non ci stava pensando più quando una mattina, saranno state le sei, Ugo le vide di nuovo al solito posto, impilate alla stessa maniera, una sopra l’altra, quasi in bilico. Accese la luce dell’androne e le guardò bene. Lo incuriosì in particolare quella posizionata sotto: anche se era della medesima foggia e consistenza di tutte le altre si presentava però di un colore giallo pallido fluorescente. Balzava agli occhi. Scostò la scatola che la imprigionava e la sollevò. Come le altre non aveva scritte, né indicazioni o etichette che suggerissero di cosa si trattasse o da dove provenisse. La scosse un poco. Era piena, ma non di diapositive, ne era sicuro. ‘Interessante’ pensò. Si guardò in giro, stette per un attimo in ascolto nel caso giungessero rumori dalla tromba delle scale. C’era un silenzio da cripta abbandonata. Considerò che era per giunta molto presto e difficilmente qualcuno sarebbe potuto entrare dal portone d’ingresso. Si sedette sul gradino per stare più comodo: era la volta buona per saperne di più. Ebbe un attimo di incertezza. Poi si convinse: doveva sapere. Prese il coperchio per un lembo e lo alzò con delicatezza. Fu quello il momento esatto in cui la luce temporizzata dell’androne si spense. Ugo fece per alzarsi per riaccendere la luce quando qualcosa lo morse violentemente alla guancia destra. Sentì un dolore lancinante come di un ferro rovente che gli trapassasse la faccia. Avvertì la precisa sensazione che il sangue gli si stesse rattrappendo con rapidità nelle vene. Non riusciva più a respirare: una montagna gli era piombata sopra il petto. Perse l’equilibrio e cadde a terra con la bocca piena di schiuma appiccicosa. Un fuoco inestinguibile divampava nella testa. Sentì uno scatto: qualcuno aveva acceso la luce delle scale. Ma oramai era tutto buio intorno a lui.
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