Vele nere

barca - vecchia - intemperieQuando arrivai sulla spiaggia ero più morto che vivo. Due sgherri, dopo avermi selvaggiamente percosso, mi ci avevano trascinato con la testa nella polvere. Mi ero scorticato la faccia lasciando ciocche di capelli sopra un sasso appuntito. Il Signorotto, Ersilio de’ Tanzi, detto il Lupo me l’aveva, del resto, giurata quando lo scorso lunedì, al mercato di Canto delle Erbe, mi ero scagliato per l’ennesima volta contro di lui, criticando aspramente le sue angherie e i suoi soprusi. Non avevo voluto ascoltare la mia Maria, la mia dolce compagna, che mi aveva invitato a tacere, come facevano tutti. Ma io a tacere non ero mai stato buono. E adesso ero lì che cercavo di tenermi l’anima attaccata al corpo e a capire perché mai mi avessero portato sin lì.
C’erano degli uomini che stavano sfacchinando vicino a una grossa barca mezza in rovina. Stavano inchiodando il fasciame di dritta alla bell’e meglio come un maestro d’ascia non avrebbe fatto neppure da ubriaco.
Intanto, dal monte, il cielo andava rabbuiandosi sempre più. Tempo di burrasca, pensai, e anche di quelle brutte. Il vento stava infatti rafforzando ad ogni minuto che passava creando i primi mulinelli di sabbia sulla riva. Sentivo freddo e avrei voluto togliermi il sangue raggrumato dall’occhio tumefatto, ma non riuscivo a sollevare le braccia. Dovevo essermi rotto un polso, forse una caviglia e sicuramente qualche costola.
Uno dei carpentieri, dopo aver finito di chiudere la falla a dritta, andò a poppa e si mise a inchiodare il timone. In quel modo la barca, se anche non fosse affondata subito, non avrebbe mai potuto virare. Cercai di sollevarmi per mettermi in ginocchio e vedere meglio, quando altre guardie con l’insegna dal Duca arrivarono sulla costa spingendo con le loro giusarme acuminate uno stuolo nutrito di gente strana, vestita di stracci. Camminavano svagati, sbeffeggiando tutti e facendo versi scurrili. Poi li misi meglio a fuoco: c’erano Tadone, Cannabiano, Gesaldo e quell’altro di cui non ricordo il nome senza un braccio, e altri tre o quattro. Li riconobbi: erano i matti della città. E allora capii.
Uno dopo l’altro li fecero salire sulla barca spintonandoli e poi mi afferrarono come un sacco di cascami di bue e mi buttarono a bordo. Risero tutti perché atterrai in modo scomposto come un fantoccio. Poi, mentre alcuni a terra spingevano la barca in mare, un altro sgherro salì con noi per inalberare le vele. Erano nere, perché nessuno, che le notasse in mare aperto, si accostasse nonostante le grida di soccorso.
La burrasca stava prendendo sempre più corpo. Il vento immediatamente gonfiò con furia le vele dando uno strattone allo scafo così forte che tutti gli occupanti caddero sul fondo. Lo sgherro si tuffò rapido nell’acqua ribollente di schiuma e raggiunse la riva lasciandoci al nostro destino.
Chiesi agli altri di aiutarmi a mettermi ritto perché dovevo spiegar loro cosa stava accadendo. Ma mi insultarono e mi sputarono addosso. Tadone, il più prepotente e il più ottuso tra loro, mi diede anche un calcio in pancia per farmi star zitto.
Il mare si ingrossava a vista d’occhio facendo rollare con forza lo scafo; gli uomini si tenevano l’un l’altro o al pennone di maestra: ridevano e cantavano, noncuranti dell’acqua che iniziava a trafilare tra il fasciame mal riparato e di quella che entrava con le onde alte. La barca sembrava un tegame bucato senza coperchio e la costa una striscia grigia, lontanissima, che andava scomparendo nella notte incalzante.
Aveva cominciato anche a piovere a dirotto con tale violenza da far male dove picchiava. Il cielo era nero, solcato da lampi che illuminavano a giorno un mare che appariva pieno di spettri; tuoni assordanti scuotevano l’aria satura di elettricità.
Nonostante fossi ancora sdraiato continuai a dire agli uomini di quell’improbabile equipaggio, con la voce che mi era rimasta, che cosa stesse succedendo, che saremmo andati incontro a morte certa se qualcuno di loro non si fosse subito buttato in acqua per sbloccare il timone.
Tadone, per tutta risposta, mi prese per la collottola e i pantaloni e mi gettò tra le onde gelide ridendo sguaiatamente del suo gesto e in ciò imitato da tutti gli altri.
Rimasi a galla a fatica mentre vedevo sfilare davanti a me, a gran velocità, la barca e le sue vele nere; per poi scorgerle perdersi nel buio della tempesta come nell’enorme gola di un mostro affamato.
Li sentii ancora per un po’ gridare e scherzare, come a una festa, sino a quando l’urlo soverchiante del vento non se li portò via.
Un albatro indifferente rigò lento le nubi scure, piene di rancore.
E fu l’ultima cosa che vidi.

Una nuova scoperta

Il tuffo del remo nell’acqua era sincrono, morbido come la voce della voga. Le pale sfioravano veloci la superficie del mare per poi immergersi con la stessa inclinazione e il minimo di schiuma aprendosi nell’acqua per la poderosa vogata. La grossa barca scivolava leggera sulla superficie con l’andatura un po’ spavalda di chi sa di essere assistito dalla buona fortuna. La spiaggia più esclusiva della zona era a quell’ora gremita di gente, ma immersa nel più assoluto silenzio. Alcuni avevano smesso di prendere il sole e si erano tirati a sedere sugli asciugamani colorati, altri erano rimasti immobili in piedi a osservare la scena. La scialuppa sembrava irreale nel riverbero del mare luccicante, così come irriconoscibile era il profilo scuro della nave rimasta alla fonda. Con un colpo sordo, s’incagliò sulla battigia e subito un uomo dagli strani vestiti e dal cappello largo smontò con un salto. Fece solo tre passi nella sabbia molle e quindi s’inginocchiò a baciarla. Piantò con foga lo stendardo. Dietro di lui i sei marinai dalle grosse armature di metallo e dai cimieri finemente lavorati si gettarono anche loro rumorosamente a terra tenendo ben salda l’elsa tornita sulla fronte. Gli occhi erano chiusi, presi dalla solennità del momento.
«Non avendo incontrato opposizione…» recitò a voce alta l’uomo dello stendardo «…Noi, Guillermo Gonzales Montoya y Fuentes, Ammiraglio di tutti gli Oceani, Gran Commodoro delle Isole del Sole, in nome delle Loro Maestà Serenissime Clarabella di Campiglia e Pierarmando da Ramona, prendiamo possesso di questa isola cui daremo il nome di San Redentor». Pronunciate solennemente queste parole, si fece il segno della croce subito imitato dagli uomini della scorta, quindi si alzò in piedi:
«Attendente!»
«Comandi, Ammiraglio!» fece un soldato scattando in avanti. L’Ammiraglio guardò la gente davanti a sé in costume da bagno, osservò gli ombrelloni, i lettini, le cabine.
«Gli indigeni non sembrano avere l’aria bellicosa» disse con un mezzo sorriso «deve essere povera gente a giudicare dai vestiti e dalle loro capanne. Prenda le collanine che abbiamo portato e cerchi di fraternizzare con loro. Ma faccia molta attenzione».