Sonnenstein

shoahGottlieb K. non riusciva a capacitarsi. Tutto era successo nel volgere di un paio di giorni. Dagli agi della sua villa fuori città a quel luogo di senzadio. E adesso era almeno un paio d’ore che si trovava nudo, i piedi nella neve, insieme a un altro centinaio di persone pallide e smagrite, aspettando che il portone delle docce si aprisse. Sonnenstein era tetra in quella mattina di novembre; alcuni fiocchi di neve scendevano lenti su quella scena irreale. Il militare di guardia, immobile nel suo cappotto spesso, il mitra imbracciato, fissava un punto indefinibile davanti a sé. A male pena voltava gli occhi quando qualcuno del gruppo stramazzava a terra mentre nell’aria tersa e tagliente volavano comandi rapidi e funesti, come uccelli scuri del malaugurio partoriti da un cielo livido senza speranza. Il portone alla fine si aprì, con la solennità con cui si dischiude un nuovo mondo agli occhi di un naufrago. Ma era solo un’illusione. Si spalancò invece una sala spoglia e scrostata che puzzava di morte, il pavimento lurido e tante docce grigie che scendevano dal soffitto come frutti maledetti. Al militare con il cappotto si unirono presto molti altri, tutti uguali, che spingevano con le canne dei mitra le costole dei prigionieri. Urlavano come pastori impazziti che spingessero le proprie pecore nell’abbraccio del baratro.
«Lei è Gottlieb K.?» gli chiese un militare che, a giudicare dalle mostrine, doveva essere un sottufficiale delle SS.
Gottlieb era intontito dal freddo, non capiva. Stava ancora osservando l’enorme sala che di lì a poco l’avrebbe ingoiato in un solo sbadiglio.
«Lei è Gottlieb K.?» gli ripeté gentilmente il sottufficiale.
«Sì…» rispose alla fine lui, anche se dal tono suonò come una domanda.
«Mi segua allora, prego» fece il militare allontanandosi a larghe falcate degli stivali lucidi.
Per un attimo Gottlieb non seppe che fare. Gli sembrava di tradire la sorte dei suoi compagni che lo guardavano stralunati mentre procedevano, i corpi arresi, verso la camera a gas. Poi, come un automa, si voltò verso il sottufficiale che, una decina di metri più in là, si era fermato ad aspettarlo.
«Ho saputo che lei è un violinista» gli chiese qualche minuto dopo il lagerkommandant Otto Steiner distendendosi sulla poltrona dell’ufficio. Gottlieb aspettò prima di rispondere. Poi assentì lievemente nella luce polverosa della stanza.
«Sono il primo violino della Filarmonica di Vienna» confermò.
«Molto bene, herr professor» gli disse Steiner soddisfatto «le ho trovato un lavoro, suonerà per me…» e soffiò in alto il fumo del sigaro che non riuscì a farsi strada nell’aria densa. L’attendente, che nel frattempo si era materializzato dal fondo dell’ufficio, gli si era fatto da presso tenendo, in una mano, i vestiti tolti a qualche altro deportato e, nell’altra, un violino di legno biondo e profumato. «Dovrà suonare senza smettere mai, tuttavia… » precisò Steiner facendosi serio «non ho mai una distrazione in questo ufficio… pensa di potercela fare?»
Così da quel momento Gottlieb K. si mise a suonare per aver salva la vita. Suonò Mozart, Schumann, Novacek e tutto il suo ricco repertorio, mentre nella stanza del lagerkommandant si avvicendavano ufficiali e portaordini in un batter di tacchi e saluti urlati.
«Si fermi un attimo, herr professor» gli disse verso le quattro del mattino. «Vada in bagno a darsi una rinfrescata e mangi qualcosa» e spinse verso di lui con il manico di un tagliacarte il piatto con la propria cena neppure assaggiata. Gottlieb dapprima fu titubante, poi prese coraggio e, con la fame di due giorni, si avventò sul cibo senza riuscire a distinguere cosa fosse. Steiner stette a guardarlo con divertimento e, dopo appena qualche attimo, gli tolse il piatto dalle mani. «Va bene, basta così, ora riprenda a suonare.»
Passarono diversi altri giorni. Gottlieb era sfinito. Aveva bisogno di dormire più ancora che mangiare o bere. Era un incubo a occhi aperti. Un pomeriggio, senza smettere di suonare, si mise in ginocchio con la testa appoggiata al muro per avere un poco di sollievo. A un certo momento dovette essere svenuto perché quando riaprì gli occhi si accorse di essere solo nella stanza, il violino per terra. Preso dal panico cercò di imbracciarlo nuovamente, ma non ci riusciva: era diventato pesantissimo. Si riaddormentò quasi subito senza volerlo finché si sentì picchiettare sulla testa. Ora c’era un militare davanti a lui, con un fucile in mano.
«No» gli disse Gottlieb, «non ce la faccio più. Mi arrendo, mi arrendo…» implorò mettendosi a piangere.
«Com’on, man» gli fece il soldato americano sorridendogli. «Tutto finito. Go home
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