L’ultimo capolavoro


Nakajima era un grande regista. Avevano segnato un’epoca nel film di animazione per il suo stile unico, innovativo e originale. Diversi suoi film erano stati pluripremiati e avevano fatto la storia sia del cinema giapponese che di quello internazionale.
Da alcuni anni però, benché fosse ancora negli anni della sua maturità, si era ritirato a vita privata nella villa di Constance, Virginia, ed era raro ormai incontrarlo a qualche ricevimento o evento mondano. Si diceva che fosse gravemente malato o che, in perfetta solitudine, passasse il tempo tra una stanza e l’altra della sua grande casa con ogni sorta di bottiglia di liquore in mano; altri ancora sostenevano invece che soffrisse di una forma grave di depressione dopo che la moglie, tanto amata, era morta improvvisamente in un incidente stradale. Sta di fatto che si era spento in lui ogni interesse per il lavoro e ancora più per la vita sociale. Anche se voci sempre molto ben informate riferivano che stava lavorando a un progetto segreto, l’ultimo suo grande capolavoro. Nakajima era insomma già entrato nella leggenda.
Così quando Izuko, sua nipote, si presentò una sera in villa, Nakajima si era completamente dimenticato di lei, assorto com’era nel suo mondo sottovuoto; si era dimenticato di averla fatta chiamare per farle la “predica” dopo quello che aveva combinato, giù a Napatown, la scorsa settimana. Secondo Hiro, il fratello maggiore di Nakajima, lui era l’unico in famiglia che lei ascoltava e rispettava. Sicché si era fatto convincere a malincuore a “dirle qualcosa”.
Izuko, dal suo canto, non era affatto contenta di parlare con lo zio. Negli ultimi tempi era diventato noioso e malinconico e decisamente troppo strano, persino per lei. Ma non aveva saputo a sua volta dire no, né al padre, né tantomeno a lui. Così ora era lì davanti al cancello principale, incerta sul da farsi. Poi si ricordò che le era stato detto di passare da una porticina laterale, seminascosta tra i glicini. La chiave l’avrebbe trovata tra i rami, dentro al nido di uno storno. Così fece, ed entrò.
Attraversò il vasto giardino alla giapponese e il viale di alti bambù colorati; superata la fontana con la scultura di Kengiro Azuma, arrivò alla porta di ingresso dove suonò. Spentosi l’eco del campanello melodioso riemerse dall’interno della casa un silenzio inquietante.
«Maestro? Maestro Nakajima, sei in casa?» disse titubante lei aprendo un poco la porta.
Izuko sospirando prese coraggio e scivolò dentro. Anche se era stata tante altre volte in quella  casa e sapeva orientarsi non era tranquilla. Poi vide che qua e là erano accesi diversi punti luce, il che era un segno tangibile della presenza probabile dello zio. Ne fu rincuorata.
«Maestro, posso entrare? Sono Izuko, avevamo un appuntamento» insistette lei sempre meno convinta di quello che stava facendo.
Dopo l’ampio atrio si trovò in una sala con divani, tappeti e specchi oltre a grandi quadri alle pareti. Pareva un museo, pensò. Chiamò ancora ad alta voce. Stava ormai per andarsene quando le parve di sentire delle voci in lontananza. Prese per un corridoio in ombra a destra e poi un altro in fondo a sinistra. C’era una porta imbottita e leggermente socchiusa attraverso cui filtrava una luce e suoni indistinti. La scostò appena. Era una sala cinematografica deserta con una cinquantina di posti a sedere. Sullo schermo stava andando un film di animazione che non aveva mai visto, anche se riconobbe subito lo stile dello zio. Le immagini erano molto precise e accurate, la colonna sonora avvincente. Era la storia di una donna molto bella che raccontava la sua vita. La donna assomigliava tantissimo alla zia scomparsa, quando era giovane. Ma quel che c’era di inusuale era che la protagonista guardava spesso in camera sicché sembrava parlare a chi era in sala. Era una tecnica di animazione avveniristica, impressionante per il suo realismo, ma anche onirica, piena di passione, romantica.
Poi Izuko, pian piano fece l’abitudine al buio, e scorse tra le prime file delle poltrone, una persona che pareva rispondere alle domande che la protagonista del film gli rivolgeva.
Si avvicinò di più allo schermo badando di non far rumore e per ascoltare meglio. Ma sì, non c’erano dubbi, quello laggiù avvolto nella penombra era proprio suo zio e il film che stava andando doveva essere il suo ultimo lavoro di cui tanto si favoleggiava.
«Tesoro, mi manchi tanto…» disse ad un certo punto la donna protagonista del film guardando verso Nakajima.
«Anche tu Amore mio, non sai quanto.»
«Quand’è che verrai da me? Me lo avevi promesso.»
«Molto presto Asami, molto presto; sto preparando ogni cosa… non vedo l’ora.»
«Allora ti aspetto caro, ti aspetto.»
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Nel gorgo vuoto

Era una delle peggiori tempeste che si fossero mai abbattute in quel tratto di mare. Il capitano Kamamura, anziché tornare al porto più vicino, stava proseguendo imperterrito lungo la sua rotta. Non sarebbe mai tornato se non con la stiva piena del quantitativo di pescato pattuito.
Da tempo vi era grande rivalità con Sukato, l’altro comandante di punta della flotta Mutziko, e Sukato aveva fatto sapere a tutti che era seduto già da qualche ora al bar del porto di Shiogama a sfondarsi di sakè visto che aveva appena consegnato una partita eccezionale di merluzzi e tonni.
Kamamura si era chiuso in un mutismo impenetrabile, spezzato unicamente da comandi secchi e precisi. Il suo secondo, Ishikawa, che ben lo conosceva, aveva capito che si preparavano per tutti giorni difficili.
Alle 14.06 dell’ottavo giorno di navigazione il vento rafforzò da est. Una gabbia per granchi reali si frantumò contro la scialuppa numero due lanciando ovunque schegge di bambù e fasciame di barca.
«Perché non l’avete assicurata con una doppia volta di cima…?» gridò rabbioso contro il vento Kamamura. Nessuno l’aveva visto arrivare sul ponte e ora, sotto gli scrosci potenti del maestrale, sembrava un fantasma sorto dal profondo dell’oceano. Formulando quella domanda si era fatto così vicino al suo secondo che sembrava volesse prenderlo a schiaffi. Si limitò però a sputargli addosso tutto il suo disprezzo facendolo vergognare di essere al mondo.
Poi l’imprevedibile.
La gloriosa e rispettata bandiera della flotta Mutziko, dimenticata anch’essa sul pennone, con lo schiocco di una frustata, udibile finanche nel fragore della tempesta, si era liberata del suo sostegno finendo in mare. Il capitano avrebbe potuto sopportare anche l’umiliazione di tornare con la stiva mezza vuota, ma mai di fare rientro senza bandiera. Sarebbe stato per lui un disonore intollerabile e tutti si sarebbero sicuramente presi gioco di lui. Rimase così, immobile, per un tempo sospeso, a fissare quella striscia di stoffa volare nel cielo come un’uria ferita e infilarsi dentro un’onda di diversi metri che subito la avvolse spingendola nel profondo. Poi, come lanciato da una balestra, Kamamura si mise a correre all’impazzata verso la poppa del peschereccio lanciandosi in mare in modo scomposto e senza nemmeno tuffarsi. L’equipaggio a quella scena rimase impietrito. Ishikawa salì subito in cabina per fermare il motore. Occorreva mettere immediatamente in mare una scialuppa, quella rimasta integra, per cercare di salvare il capitano o quantomeno per riportare a bordo il suo corpo.
In pochi secondi, i tre marinai più coraggiosi già si stavano calando tra le onde immense rischiando ad ogni istante di venire spinti contro la fiancata del peschereccio; si portarono a colpi di remi là dove avevano visto sparire l’ultima volta il capitano. Tutto intorno c’erano muri d’acqua, improvvisi crateri e subito dopo montagne inaccessibili. I tre fermarono la scialuppa legandosi agli scalmi per rimanere dentro la barca e guardarsi attorno.
«Ecco lì, eccolo lì» gridò Fukuda all’improvviso mettendosi pericolosamente in piedi. Ora che tutti e tre lo vedevano si diressero in quella direzione a forti colpi di remi. Il capitano agitava trionfante sopra la sua testa la bandiera. Ai marinai parve addirittura che lui stesse sorridendo. E sembrava impossibile perché nessuno, neppure Ishikawa, lo aveva mai visto mutare in qualche modo il suo viso di pietra. Mancavano ormai poche bracciate per raggiungerlo, quando un’ombra scura di proporzioni indefinibili guizzò rapidissima dal fianco di un’onda gigantesca. Tutto si consumò nello spazio di un lampo che squarciò in quel momento il cielo. La massa scura e irreale si abbatté sul capitano prendendo il suo posto nell’acqua nera, lasciando subito dopo solo un gorgo largo e vuoto.
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