Ritardi al Quadrante Nord

 

Aveva fatto più tardi del solito: il controllo al Quadrante Nord era stato più impegnativo di quello che aveva preventivato. Sembrava la giornata dei contrattempi o dei ritardi o delle inefficienze. «Il badge, prego…» La Guardia, al Varco, aveva una faccia impassibile: non era quella che conosceva lui. «Eccolo» disse Jack allungando il polso attraverso la feritoria. Il lettore fece un strano rumore mentre pennellava di luce la sua pelle: il raggio da azzurro si fece all’improvviso rosso. «Mi spiace, Lei non è abilitato» decretò la Guardia.
«Ma scherza? Sono Jack Chapmann, funzionario di settimo livello. Controlli meglio!» Alla Guardia non dovette piacere quel tono perché si irrigidì; per un po’, con ostentazione, fece dell’altro davanti a sé per ignorare volutamente il suo interlocutore che se ne stava ancora lì con il braccio disteso all’interno della guardiola. «Controlli, ancora, per favore» ribadì Jack alzando la voce. Il corridoio dietro di lui era vuoto e le sue parole rimbalzarono per perdersi nei sotterranei.
«Il suo chip sottocutaneo, non prende. Lei non è abilitato, gliel’ho già detto. Non c’è nessun altro controllo che possa fare. Torni domani, controlleremo meglio al monitor che ora non va» ripeté meccanicamente la Guardia.
«Io ho l’alloggio nella Zona protetta, con moglie e figli che mi aspettano… Mi deve far passare se non vuole dei guai. Esegua il controllo subito, non domani, glielo ordino!»
La Guardia approfittò del fatto che Jack avesse ritirato il braccio e chiuse il Varco. Il vetro insonorizzato si inspessì e si oscurò.
«Non può farmi questo, non può! Controlli adesso!!!» gridò Jack accorgendosi che stava parlando da solo. La superficie lucida del vetro rifletteva la sua faccia stravolta, stanca, incredula. Dove sarebbe andato adesso? Tirò fuori la trasmittente: non c’era campo. Nel frattempo le luci sulla volta si accesero e si spensero. Era il segnale che di lì a poco avrebbero sospeso l’emissione nel corridoio del disinfettante Q9 e i topi, come ogni notte, avrebbero preso il sopravvento. Non sarebbe sopravvissuto, lo sapeva bene. Mollò per terra la borsa e cominciò a correre, forse ce l’avrebbe fatta a raggiungere l’altro Varco con una Guardia magari più comprensiva. Si trovava a circa metà del percorso quando le luci si abbassarono nuovamente. L’aria era diventata pesante, rarefatta, ed era persino sparito il sibilo che accompagnava l’emissione del Q9, tanto che i primi topi già facevano capolino dalle grate di aerazione. Giunto alla porta inciampò e cadde a terra. Si rialzò aggrappandosi alla maniglia che subito tirò a sé con tutte le sue forze per aprirla: la porta era semichiusa, ma bloccata. Infilò la bocca nello spiraglio per urlare la sua rabbia. Non rispose nessuno, com’era prevedibile, solo lo squittio dei topi che continuavano a entrare a frotte dai tubi di aerazione.

9 pensieri su “Ritardi al Quadrante Nord

  1. Bene. Aprire una discussione mi pare un effetto secondario bellissimo della semina (la pubblicazione di un post) e della sua fioritura e ramificazione (l’allungarsi, nell’apposito vaso sottostante, della fila di commenti). Riferisco una cosa assolutamente personale; ma questi luoghi pubblici sono, vivadio, anche luoghi di incontro aperti e pubblicamente privatissimi come i bar dove si scambiano chiacchiere al mattino o lievitano idee e progetti nell’aroma di un caffè. Il fatto personale è che quando, nel 2003, sentii definire un blog “un diario personale online”, ebbi un sussulto. Mi parve il massimo della masturbazione digitale; un autoreferenziale rigirarsi la penna nel proprio ombelico, stando affacciati al balcone. Poi appresi che blog era un’abbreviazione di weblog, e che weblog derivava, a sua volta, da webdialog. Lo trovai fantastico. Il dialogo, intendo. la possibilità che ci venisse messo in mano uno strumento (ulteriore) per aprire nientedimenoche un dialogo.Oggi, dopo cinque anni di blog (siamo coetanei; come blogger, intendo), resto convinta che la più bella esperienza di tutta questa avventura – che a volte mi sembra un’ossessione, altre uno stimolo, altre una consolazione, altre persino un incubo – sia riassunta proprio nella potenzialità dialogica contenuta nell’atto di pubblicare parole che altrimenti sarebbero ammuffite nel cassetto, o nelle nostre teste, e trovare per loro lo spazio vivificatore di un “dialogo”. Mi ritengo fortunata nell’aver trovato, negli anni, commentatori attenti e capaci di “moltiplicare” sensi e potenzialità espressive di quello che scrivo. La loro lettura mi pare che qualche volta dia, per così dire, arti al tronco del testo che pubblico. Mi fornisce, talvolta, una prospettiva che non potevo guardare stando dall’altra parte del foglio. Parte della letteratura è negli occhi di chi la legge. Esiste un’interattività connaturata al mezzo; il solo gesto di cliccare su ”pubblica post” conferisce, retroattivamente in qualche caso, all’atto della scrittura un carattere di “collettivizzazione”, condivisione dell’emozione, della sensazione o anche solo di nudi fatti che riscatta il gesto qualche volta e solipsistico ed autoreferenziale dello scrivere. E’ per questo che profondo molta attenzione ai post che leggo (e non sono una blogtalereader compulsiva); mi sembra una questione dirispetto fornire, in qualche modo un contributo al testo che è stato pubblicato anche per me.In quest’ottica, concepisco il box commenti come uno spazio aperto anche ai contro-commenti. Il dialogo, appunto. Non condivido quanto dici in una tua intervista affermando che la finestra dei commenti serve per commentare i post e non i commenti. Mi sembra che un tale uso di questa finestra la renda… bidimensionale, come quella dipinta su un fondale teatrale; come la parete di un museo dove sono appesi i post e i commenti lì sotto appaiono come targhette senza replica. E’ per questo che mi sono permessa di gettare un sasso in questa finestra (spero senza infrangere vetri): per aprire una discussione. E’ un atto di omaggio alla scrittura (alla scrittura pubblica(ta). Lo faccio qui e non altrove, perché trovo questo post particolarmente ben scritto. E questo a prescindere dal “prima” dal “dopo”, dal se è o non è un incipit.Mi piace pensare che ogni storia sia un incipit. Come è anche il finale di un’altra storia, d’altra parte. E questa dinamica circolare si accentua nell’allungarsi ed ispessirsi della fila di commenti; nella fioritura, appunto.

  2. Quanto viene espresso nel Corso non è un’indicazione di necessarietà di contenutezza della storia. Se le pagine del Blogwriting vengono comprese in questi termini, sicuramente mi sono espresso male. L’indicazione di brevità è piuttosto un’indicazione di ottimizzazione del componimento rispetto al medium impiegato (internet). Tra le tanti possibili confezioni di racconto pubblicato su web, quello brevissimo ha, secondo la mia modestissima opinione, la fisionomia ‘aerodinamica’ migliore per avere la maggior penetrazione di lettura. Che poi io non riesca nell’intento, benché ne sia un convinto teorizzatore, è un altro conto.
    Il fatto poi che questo post (diversamente da tanti altri) sembri un incipit piuttosto che un racconto è dovuto al fatto che il post è un incipit e non un racconto nel senso compiuto del termine. A parte la circostanza che sono tanti gli autori che si cimentano in racconti che ‘non finiscono’ nel senso che sono volutamente aperti (tracciando piuttosto una serie di fotogrammi di una storia tralasciando la parte iniziale e quella finale), la duttilità del blogtale, cioè del racconto da blog, è proprio questo, vale dire di essere svincolato dall’obbligo di compiutezza che fa parte di generi completamente diversi (e a volte in parte superati). È come se si rimproverasse a una fotografia di non rappresentare l’antefatto o la conclusione della situazione cristallizzata nell’unica immagine catturata. O si censurasse un haiku per la pochezza delle parole impiegate rispetto a un sonetto o a una poetica di più vario respiro. Nel blogtale si armonizzano, o dovrebbero armonizzarsi, le cose dette e quelle non dette, che fanno parte del continuum narrativo tanto da creare un’unità a se stante, a prescindere dalla storia. Ma può essere (anche se non lo deve per forza essere) una mera espressione di letteratura, un frammento, una parte di tutto. Un blogtale non deve essere obbligatoriamente un miniracconto, la miniaturizzazione di una storia, un bonsai di frasi: è semplicemente un genere a parte.
    Il semplice e naturale gesto di indicare un oggetto, nella sua compattezza e immediatezza, è un atto referenziale, dialogico e deittico (nel senso che si riferisce a un oggetto, è espressione tipica di un linguaggio ancorché non verbale ed è capace di mostrare l’oggetto) ma non può essere compreso se oltre a ‘guardare’ il gesto non si guarda anche l’oggetto indicato. E così è, con le debite proporzioni, il blogtale che è un’espressione in movimento che cattura nella sua brevità sensazioni, barlumi di storia, congetture, ipotesi senza la pretesa di far parte di un prodotto a fruizione immediata; sono parole che si espandono nella realtà che evocano senza dover dare spiegazioni di un intreccio (questo sì non necessario) o dell’esistenza di una sottostante morale o di dover dettare una conclusione per far capire che è finito, soprattutto quando una conclusione non c’è neppure nella realtà.

  3. In generale, sottoscriverei dieci volte su undici il giudizio di GiuppetheCat. Leggo volentieri anche post molto lunghi, se la qualità li sostiene. Altre volte, sì, abbandono la lettura dopo poche righe, ma sono abbastanza sicura che questo non sia generato dalla lunghezza, ma dalla sostanza, dalla forma, dal modo, dall’atmosfera. Si può troncare una lettura noiosa o poco accattivante anche solo alla fine del primo rigo di un post di due.Non condivido molto l’assunto di base del tuo BW che un blogtesto debba sempre, necessariamente essere breve. Il discorso è lungo e non vale, qui, la pena di affrontarlo. Come non è il caso di osservare più diffusamente che in un accenno, che bisognerebbe fissare anche una “commentiquette”; nel senso che sarebbe meglio una onesta regolamentazione del proprio silenzio per rispetto alla qualità di quello che si è appena letto, piuttosto che una traccia lasciata in uno stitico mezzo rigo che nulla aggiunge, nulla toglie al post, limitandosi a segnalare un “ci sono stata/o” (su questa pagina prevale l’alternativa prima dello /, in verità).Solo aggiungo che nel caso di questo specifico post, mi pare che si tratti di un testo molto denso, drammatico, magari non originalissimo (visto che attinge ad alcuni topoi del racconto di fantascienza), ma caèpace di generare comunque un inquietudine sottocutanea, e un rizzarsi dei peli in superfice. Un “racconto”in sé compiuto, autonomo, senza necessità alcuna di essere inserito in una più ampia cornice narrativa. Un’atmosfera vagamente orwelliana che trova proprio nella sospensione tragica del finale e nelle nebbie dell’inconosciuta, inconoscibile premessa un’ulteriore claustrofobica validazione.

  4. SUPERBO… però un appunto devo fartelo: so bene, avendo anche letto e studiato il tuo eccellente Corso di Blog Writing, che tu ritieni importante la durata breve dei racconti, diciamo una paginetta, eppure molto spesso i tuoi racconti, come questa volta, sembrano davvero un incipit. O comunque hammo un potenziale che potrebbe andare ben oltre! Si resta un pò a bocca asciutta. Io teorizzo (e anche pratico!) che anche sul web si possano scrivere e leggere racconti si brevi ma che possono arrivare a cinque, sette o persino dieci pagine. La brevità a volte mi sembra ti stia un pò stretta. Ecco.

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