Divinazioni

uovo - apertoErano tutti seduti, in silenzio, attorno alla grande tavola. Avevano appena finito il lauto cenone e il momento era finalmente arrivato. In attesa della mezzanotte avrebbero consumato il rito delle uova.
Come da tradizione, il giorno prima, ciascuno aveva scelto nel pollaio il proprio uovo prediligendo questa piuttosto che quella gallina e scegliendo il momento e il modo ritenuti più opportuni; anche se era altrettanto certo che tutto ciò non avrebbe influenzato in alcun modo la divinazione. Perché quello che doveva essere detto sarebbe stato detto e il Vecchio non avrebbe sbagliato, come sempre. ‘Perché le uova non mentono mai”, diceva. E questo faceva davvero paura.
La tensione si tagliava ora con l’accetta e ogni parente stava interrogando con preoccupazione l’uovo davanti a sé.
Poi, con un cenno impercettibile, il capofamiglia diede l’assenso. A turno i presenti dovevano limitarsi a rompere il guscio e a rovesciarne il contenuto sul proprio piattino per farlo poi pervenire, con un passamano concitato, a nonno Rocco che sedeva a capotavola. Lui avrebbe osservato la posizione del tuorlo rispetto all’albume, il suo colore, la grandezza, la consistenza delle membrane, l’attorcigliarsi del filamento della calaza e tanti altri minimi particolari che solo lui avrebbe visto per poi dare il suo responso per l’anno entrante. Qualunque fosse stato.
Il momento tanto sospirato e tanto temuto insomma era qui e ora. E sarebbe cominciato dalla più giovane.
La piccola Ipazia, di tredici anni, emozionata, scocciò l’uovo sul bordo del piattino e lo svuotò. Osservò il risultato per vedere se riusciva a capire come era andata ma poi si arrese sembrandole sempre il solito ‘rosso’; quindi passò ogni cosa alla sua destra, giusto per non dare ‘lo schiaffo alla Madonna’, perché arrivasse al nonno.
Il Vecchio guardò bene la composizione, assorto in mille congetture diverse; sembrò finanche che avesse in bocca delle parole solide da masticare, per poi sciogliersi in un tono pacato e fermo:
«Avrai un anno pieno di soddisfazioni; verso maggio il tuo cane non starà bene e soffrirai; ma, dopo una breve malattia, guarirà; supererai gli esami che stai preparando e…, questa estate, qualcuno  si interesserà molto a te.»
Il padre di Ipazia guardò interrogativamente la figlia che, rossa in viso, si mise a fissare il bicchiere davanti a sé senza respirare. L’uomo le stava per chiedere qualcosa quando si sentì dire dal nonno: «Un altro!».
Toccò quindi al fratellino Mario e poi al cugino Saverio, e poi agli zii Giovanna, Manero e Giulia. Gli stessi gesti, gli stessi sguardi incerti, le stesse inquietudini sommesse. Infine, fu il momento dei genitori di Ipazia e Mario, Carlo e Franca. Le divinazioni del nonno venivano snocciolate una dietro all’altra come se stesse leggendo. C’era una rassegnata monotonia in quella voce, una ineluttabile indifferenza. Così si apprese che Saverio avrebbe fatto quel viaggio di lavoro in Alaska ma lì avrebbe perso un dito, Giovanna sarebbe rimasta finalmente incinta e avrebbe avuto un bellissimo maschietto, Giulia avrebbe cambiato lavoro dopo una furibonda litigata con il principale, Carlo avrebbe avuto l’aumento di stipendio desiderato, ma avrebbe sfasciato la macchina contro un platano subito dopo averla comprata. E sarebbe stato tutto vero.
Nessuno sapeva come il nonno ci riuscisse. La nonna, quando era in vita, diceva spesso che una prozia di lui era una zingara, ma questo in fondo non spiegava alcunché.
Poi, tutti si voltarono verso il Vecchio.
Lui, come sempre, fece finta per qualche secondo di non accorgersi di quelle insistenti attenzioni per poi assumere l’espressione di chi si chiedeva ‘e perché mai ora mi guardate?’
Ma lo sapeva benissimo. Toccava a lui anche se poi si sarebbe limitato solo a guardare l’uovo riverso nella ciotola senza rivelare nulla di sé.
Sorrise compiaciuto e con una certa teatralità prese in mano il guscio e, con un movimento secco del polso, lo aprì in due senza neppure sbatterlo.
Ma subito dopo impallidì.
I sorrisi dei parenti, a uno a uno, si spensero sulle loro labbra.
L’uovo era vuoto. Non c’era né tuorlo né albume. E nessuno ebbe dubbi su quello che poteva significare.

Uova fresche

Di prima mattina ero andato da Nello a tagliare la siepe. Nonostante gli ottant’anni e un braccio al collo per una distorsione avevo fatto fatica a convincerlo a farsi aiutare. Entrai nella cucina spoglia, essenziale, dove una stufa antica macinava calore e profumo di legna bruciata: ‘Svaldi, da un lato, era seduto sul tavolaccio, con i gomiti inchiodati sul pianale e le mani a nascondere il viso, quasi non mi saluta.
«Ehi, che fai?» gli domandai per smuovere il tempo che sembrava incespicare. Non mi rispose: era arrabbiato, aveva voglia di piangere, ma si tratteneva.
«Ogni mattina la stessa storia» mi fece Nello alzando gli occhi al cielo. «La Mariolina mi fa delle uova grosse così, con due tuorli enormi e lui fa tutte quelle scene». Mentre parlava indossò con pochi gesti bruschi gli stivali consunti: la pioggia della notte aveva lasciato fango dappertutto e sembrava voler ricominciare a scrosciare. In verità speravo in una buona tazza di caffè, magari con qualche biscotto alle castagne di quelli che fa lui, ma non disse altro e uscì brandendo il forbicione da siepe, lasciandomi lì come se non fossi venuto apposta. Stavo per seguirlo quando nel vedere ‘Svaldi, così imbronciato e scontroso, mi si strinse il cuore. Mi avvicinai:
«Guarda che tuo nonno ha ragione! Sono uova freschissime, ti fanno bene, ti fanno crescere…» ‘Svaldi fece con forza di no con la testa come un cagnolino avrebbe potuto fare per scrollarsi l’acqua dal pelo. Stetti a guardarlo. «È forse che non ti piace l’uovo sbattuto?» insistetti. Poi scorgendo dalla finestra Nello che aveva preso a sforbiciare con una mano sola aiutandosi con il mento, decisi di andare da lui. Anche perché la conversazione con il bambino era a un punto morto. Ero sulla porta finestra quando ‘Svaldi mugugnò:
«Mi fa schifo!»
«Come dici?» gli chiesi girandomi.
«A te piacerebbe mangiare qualcosa che esce dal sedere di un animale?»