Alla signora Pina, a guardarlo vestito in quel modo strambo, già le veniva il nervoso.
«Buongiorno a lei» rispose l’impiegata tra i denti, come se gli avesse voluto masticare un orecchio.
«Senta, tra gli oggetti smarriti dell’Ufficio, avete anche animali?»
La signora Pina assunse uno sguardo torvo e ostile. Continuò a masticare a vuoto l’invisibile orecchio e chiese: «Dal momento che questo ufficio è denominato, appunto, Ufficio Oggetti Smarriti una ragione ci sarà, non crede? Certo, a volte troviamo una gabbietta con un uccellino striminzito dentro o, che so, una boccia con un beneamato piranha bisognoso di affetto… ma noi tratteniamo sempre e solo l’oggetto mentre per l’animale, qualunque esso sia, viene interessato il veterinario provinciale. Capisce bene che non posso mettermi qui a preoccuparmi di fare anche il gratti gratti al suo criceto!»
«Sì, certamente» fece l’uomo aggrottando per un attimo la fronte «e quindi immagino allora che un cavallo non l’abbiate trovato. Perché si tratta di un cavallo, non di un criceto.»
«Un cavallo? Santo cielo, no! E poi anche se lei se lo fosse dimenticato per strada, se ne sarebbe occupato allora la Polizia Municipale o i Carabinieri.»
L’uomo ora aveva un’aria delusa e pensierosa. Poi, rimirandosi le unghie fresche di manicure: «Sa, è un bellissimo cavallo bianco, ci tengo molto…» precisò come se quello fosse stato un particolare decisivo.
«Ma lei, scusi, se ne va in giro con un cavallo?» domandò la donna che stava perdendo la pazienza. Lui stava per rispondere, illuminato da un sorriso radioso, quando l’impiegata afferrò in malo modo un modulo giallo da una scatola ricolma di moduli gialli e cominciò a scarabocchiarlo. Aveva compreso che quello era probabilmente l’unico modo per toglierselo di torno.
«Lei si chiama?»
«Principe.»
«Principe?»
«Esatto!» e l’uomo prese l’espressione di chi ci teneva a sottolineare che sì, lo sapeva, il cognome era stupendo.
«Nome?»
«Azzurro»
La signora Pina lo guardò basita. «Lei si chiama Principe Azzurro e cerca un cavallo bianco?»
L’uomo annuì.
L’impiegata diventò all’istante paonazza dalla rabbia iniziando a sbattere le palpebre in modo asincrono come fosse andata in tilt. Ma fu quando, abbassando la testa, mostrò i pugni al cielo che l’uomo si spaventò davvero infilando immediatamente la porta e uscendo di corsa. Un insistente mormorio di dissenso serpeggiò tra gli astanti che, in paziente fila indiana, erano in attesa del proprio turno. La donna cercò di ricomporsi tenendosi per un attimo le tempie tra le dita. Quindi, con voce roca e le lacrime agli occhi, disse: «Avanti un altro!»
«Buongiorno» fece un uomo corpulento, con barba bianca e lunga, avanzando timidamente verso di lei. «Sono Natale, Natale Babbo: avete per caso in magazzino una slitta con otto renne?»
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L’ultimo autobus
«Una bella corsa…» gli disse l’impiegato al di là del vetro vedendolo arrivare con la coda dell’occhio.
«Sì» disse l’uomo ansimando. «Ho avuto un contrattempo dietro l’altro: per poco non riuscivo ad arrivare prima della vostra chiusura per il fine settimana…» Fece lo sforzo di inghiottire un po’ di saliva ma non ci riuscì. «Sa, domenica mi sposo nuovamente e devo avere assolutamente il suo nulla osta. Non so perché ma non ci è pervenuto.»
Lo stanzone dell’ufficio era vuoto. Un’addetta alle pulizie, in un’improbabile divisa color amaranto, aveva iniziato a lavare per terra.
«Certo che ha fatto un bel viaggio da Alvona…» fece l’impiegato concentrato a sciogliere due grossi elastici verdi legati strettamente l’uno all’altro.
«Eh sì, ha proprio ragione… ehi, ma come fa a sapere che vengo da Alvona?» chiese aprendo il viso a un sorriso pensando di aver incontrato un conterraneo. «Io non gliel’ho mica detto!»
«Lo sa cosa mi rende speciale qui dentro?» chiese l’impiegato gettando da un lato il groviglio inestricabile dei due elastici che andavano ad aggiungersi a una montagnola che fuoriusciva da una scatola di scarpe.
«Non ne ho idea» fece l’uomo mostrandosi il più possibile interessato.
«È che ho una memoria fotografica portentosa. Non dimentico mai nulla di quello che vedo, soprattutto le facce.» Aveva pronunciato quelle parole sorridendo, senza mai alzare lo sguardo dagli elastici annodati ora confusi con altri tutti uguali, come se il prestar loro la massima attenzione ne andasse della sua vita. «Non so che lavoro lei faccia oggi» disse ancora l’impiegato alzando finalmente uno sguardo assente, quasi vuoto «ma otto anni fa lei guidava un autobus di linea.»
«Sì, è vero, ma io…»
«Il 12 luglio 2004, a mezzogiorno circa, arrivai alla stazione ferroviaria di Alvona. Dovevo andare a trovare mio padre che era stato ricoverato d’urgenza in ospedale per un attacco cardiaco. Nonostante mi fossi messo a correre con la valigia in mano, avendo visto l’autobus fermo al capolinea, lei, pur vedendomi arrivare e pur sentendomi gridare di aspettarmi, mi fece il segno con la mano di prendere il bus successivo; mise la freccia e partì.»
«Mi dispiace proprio» fece quello divenendo improvvisamente serio. «Purtroppo non mi ricordo l’episodio.»
«Io sì, perché dopo il suo autobus non ne passò affatto un altro. Come seppi in seguito, era appena iniziato uno sciopero locale di ventiquattr’ore. Quando arrivai in ospedale un’ora e mezza dopo, grazie a un taxi che riuscii fortunosamente a trovare, mio padre era spirato pochi minuti prima.»
«Non è possibile!» fece l’uomo scuotendo la testa.
«È possibilissimo, tant’è vero che è accaduto. Il suo, in altre parole, era l’ultimo bus della giornata su quella linea e lei non poteva ignorarlo. È bastato che lei facesse quel semplice gesto lì con l’indice» fece lui indicando con il mento le mani dell’interlocutore appoggiate sul bancone «e il tempo per me si è fermato.»
A quel punto l’uomo capì che si stava mettendo male e si mise sulla difensiva. «Mi rincresce davvero molto, non ho parole, l’avessi saputo l’avrei attesa: se solo potessi riparare ora, in qualche modo…»
«No, non ci può fare più nulla, purtroppo, proprio nulla» sospirò. «Proprio come non posso farci nulla ora neppure io. Vede, l’ufficio è chiuso da ben cinque minuti e, anche volendo, i terminali sono spenti» disse spegnendo il computer accanto a sé e la stampante. Poi, facendo il gesto dell’indice ruotato nell’aria, disse ancora: «prenda l’impiegato dopo, quello di lunedì.»
E chiuse lo sportello tirando giù una tendina nera.
Sono ormai trent’anni
Arrivato al palazzo, lo squadrò imponente dal basso. Il suo ufficio era all’ultimo piano, pieno di luce, un’oasi di comforts. Ora sapeva cosa fosse la felicità. Come ogni mattina, prese uno dei capienti ascensori che, come al solito, era pieno zeppo di persone. Se qualcuno fosse svenuto, gli altri attorno l’avrebbero involontariamente sostenuto. E come accadeva ogni volta, man mano che l’ascensore saliva la gente scendeva, fino a quando, giunto all’attico, rimaneva solo. L’intero ultimo piano era infatti vuoto, se non fosse stato per il suo ufficio. Da trent’anni faceva le stesse stupende cose. Tirava su le tapparelle, accendeva il computer e la stampante, controllava i livelli degli inchiostri anche se non aveva mai stampato, sistemava l’area di lavoro sulla scrivania, anche se nessuno aveva toccato nulla dal giorno prima. A tre centimetri dal bordo più lontano posizionava il portapenne, a sei centimetri e mezzo il sottomano in cuoio lavorato e poi, a destra, via via, il portacorrispondenza, la rubrica, il calendario, secondo uno sperimentato ordine spaziale. Poi si calzava ben bene, sotto di sé, la seduta della sedia, incrociava le dita posizionando comodamente i gomiti sul pianale e attendeva.
Sei anni prima, verso le ore dieci e ventidue, era in effetti arrivato sin lì un signore, dall’apparente età di quaranta/quarantacinque anni, ma aveva sbagliato piano. Dopo un po’ era pure ritornato per cercare il bagno. Quindi più niente.
Così era l’attesa il suo vero lavoro. Si era comunque accorto che, se lasciava la porta aperta e lasciava vagare lo sguardo lungo l’interminabile corridoio vuoto, le ore dell’ufficio passavano più in fretta. A mezzogiorno precise, come ogni giorni di quei trent’anni, tirava fuori dalla borsa il panino. Il lunedì conteneva la frittata, il martedì il prosciutto cotto, il mercoledì mozzarella e pomodoro, il giovedì l’insalata russa, il venerdì alici e cipolline. Glielo preparava il panettiere sotto casa. Quel giorno era mercoledì. Alla estrema destra della scrivania c’era un telefono, uno di quelli vecchi, neri ancora con la rotella. Non sapeva in verità che trillo avesse perché non aveva mai suonato. Si sarebbe anche telefonato per saperlo, ma nessuno gli aveva detto che numero avesse. Per funzionare funzionava, aveva provato, ma era tutto quello che c’era da sapere. Alla sinistra, sul monitor ingiallito del pc, faceva bella mostra di sé lo spartito del Grande Concerto di Natale, quello suonato ogni anno al Centro Amici della Musica. Il suo compito era proprio quello di stampare una copia di quel solo sparito, sempre lo stesso. Non sapeva neppure come fosse quel concerto, anche perché a lui la musica non piaceva, anzi la odiava. In fondo non era necessario conoscerla o amarla, si era detto: avrebbe dovuto solo stamparne una copia, solo una, se si fosse presentato qualcuno.
Ma oggi era un giorno speciale, pensò, se lo sentiva: qualcosa sarebbe accaduto. Verso le quindici avvertì persino uno scalpiccio nella parte del corridoio che non poteva vedere dalla sua scrivania. Aspettò, ma non successe nulla. Poi alle diciassette il suo turno finì. Abbassò le tapparelle, spense il pc e la stampante, come ogni pomeriggio. Aveva appena finito di chiudere a chiave la porta quando alle sue spalle sentì la voce di una donna:
«Mi scusi, ma vorrei per favore una copia dello spartito del Grande Concerto di Natale…»
Lo sapeva, pensò lui sorridendo: quello sarebbe stato il ‘suo’ giorno. Poi guardò l’ora e, senza voltarsi, disse: «Mi dispiace signora, ma l’ufficio è chiuso, torni domani».