Oggetti smarriti

oggetti smarriti«Buongiorno» disse l’uomo con voce squillante inclinando la testa da un lato. Era sulla quarantina, gli occhi chiari e ben distanziati, un viso aperto e piacevole, baffi molto curati e un cappello strano ben calcato sulla testa, da cui si dipartiva una piuma, forse di pavone.
Alla signora Pina, a guardarlo vestito in quel modo strambo, già le veniva il nervoso.
«Buongiorno a lei» rispose l’impiegata tra i denti, come se gli avesse voluto masticare un orecchio.
«Senta, tra gli oggetti smarriti dell’Ufficio, avete anche animali?»
La signora Pina assunse uno sguardo torvo e ostile. Continuò a masticare a vuoto l’invisibile orecchio e chiese: «Dal momento che questo ufficio è  denominato, appunto, Ufficio Oggetti Smarriti una ragione ci sarà, non crede? Certo, a volte troviamo una gabbietta con un uccellino striminzito dentro o, che so, una boccia con un beneamato piranha bisognoso di affetto… ma noi tratteniamo sempre e solo l’oggetto mentre per l’animale, qualunque esso sia, viene interessato il veterinario provinciale. Capisce bene che non posso mettermi qui a preoccuparmi di fare anche il gratti gratti al suo criceto!»
«Sì, certamente» fece l’uomo aggrottando per un attimo la fronte «e quindi immagino allora che un cavallo non l’abbiate trovato. Perché si tratta di un cavallo, non di un criceto.»
«Un cavallo? Santo cielo, no! E poi anche se lei se lo fosse dimenticato per strada, se ne sarebbe occupato allora la Polizia Municipale o i Carabinieri.»
L’uomo ora aveva un’aria delusa e pensierosa. Poi, rimirandosi le unghie fresche di manicure: «Sa, è un bellissimo cavallo bianco, ci tengo molto…» precisò come se quello fosse stato un particolare decisivo.
«Ma lei, scusi, se ne va in giro con un cavallo?» domandò la donna che stava perdendo la pazienza. Lui stava per rispondere, illuminato da un sorriso radioso, quando l’impiegata afferrò in malo modo un modulo giallo da una scatola ricolma di moduli gialli e cominciò a scarabocchiarlo. Aveva compreso che quello era probabilmente l’unico modo per toglierselo di torno.
«Lei si chiama?»
«Principe.»
«Principe?»
«Esatto!» e l’uomo prese l’espressione di chi ci teneva a sottolineare che sì, lo sapeva, il cognome era stupendo.
«Nome?»
«Azzurro»
La signora Pina lo guardò basita. «Lei si chiama Principe Azzurro e cerca un cavallo bianco?»
L’uomo annuì.
L’impiegata diventò all’istante paonazza dalla rabbia iniziando a sbattere le palpebre in modo asincrono come fosse andata in tilt. Ma fu quando, abbassando la testa, mostrò i pugni al cielo che l’uomo si spaventò davvero infilando immediatamente la porta e uscendo di corsa. Un insistente mormorio di dissenso serpeggiò tra gli astanti che, in paziente fila indiana, erano in attesa del proprio turno. La donna cercò di ricomporsi tenendosi per un attimo le tempie tra le dita. Quindi, con voce roca e le lacrime agli occhi, disse: «Avanti un altro!»
«Buongiorno» fece un uomo corpulento, con barba bianca e lunga, avanzando timidamente verso di lei. «Sono Natale, Natale Babbo: avete per caso in magazzino una slitta con otto renne?»

L’ultimo autobus

L’uomo arrivò nell’ufficio affannato. Aveva un ciuffo di capelli che gli si era arreso sulla fronte e il sudore gli aveva chiazzato sul petto la t-shirt azzurra. Una quarantina d’anni ben portati e un principio di stempiatura tra i capelli scuri.
«Una bella corsa…» gli disse l’impiegato al di là del vetro vedendolo arrivare con la coda dell’occhio.
«Sì» disse l’uomo ansimando. «Ho avuto un contrattempo dietro l’altro: per poco non riuscivo ad arrivare prima della vostra chiusura per il fine settimana…» Fece lo sforzo di inghiottire un po’ di saliva ma non ci riuscì. «Sa, domenica mi sposo nuovamente e devo avere assolutamente il suo nulla osta. Non so perché ma non ci è pervenuto.»
Lo stanzone dell’ufficio era vuoto. Un’addetta alle pulizie, in un’improbabile divisa color amaranto, aveva iniziato a lavare per terra.
«Certo che ha fatto un bel viaggio da Alvona…» fece l’impiegato concentrato a sciogliere due grossi elastici verdi legati strettamente l’uno all’altro.
«Eh sì, ha proprio ragione… ehi, ma come fa a sapere che vengo da Alvona?» chiese aprendo il viso a un sorriso pensando di aver incontrato un conterraneo. «Io non gliel’ho mica detto!»
«Lo sa cosa mi rende speciale qui dentro?» chiese l’impiegato gettando da un lato il groviglio inestricabile dei due elastici che andavano ad aggiungersi a una montagnola che fuoriusciva da una scatola di scarpe.
«Non ne ho idea» fece l’uomo mostrandosi il più possibile interessato.
«È che ho una memoria fotografica portentosa. Non dimentico mai nulla di quello che vedo, soprattutto le facce.» Aveva pronunciato quelle parole sorridendo, senza mai alzare lo sguardo dagli elastici annodati ora confusi con altri tutti uguali, come se il prestar loro la massima attenzione ne andasse della sua vita. «Non so che lavoro lei faccia oggi» disse ancora l’impiegato alzando finalmente uno sguardo assente, quasi vuoto «ma otto anni fa lei guidava un autobus di linea.»
«Sì, è vero, ma io…»
«Il 12 luglio 2004, a mezzogiorno circa, arrivai alla stazione ferroviaria di Alvona. Dovevo andare a trovare mio padre che era stato ricoverato d’urgenza in ospedale per un attacco cardiaco. Nonostante mi fossi messo a correre con la valigia in mano, avendo visto l’autobus fermo al capolinea, lei, pur vedendomi arrivare e pur sentendomi gridare di aspettarmi, mi fece il segno con la mano di prendere il bus successivo; mise la freccia e partì.»
«Mi dispiace proprio» fece quello divenendo improvvisamente serio. «Purtroppo non mi ricordo l’episodio.»
«Io sì, perché dopo il suo autobus non ne passò affatto un altro. Come seppi in seguito, era appena iniziato uno sciopero locale di ventiquattr’ore. Quando arrivai in ospedale un’ora e mezza dopo, grazie a un taxi che riuscii fortunosamente a trovare, mio padre era spirato pochi minuti prima.»
«Non è possibile!» fece l’uomo scuotendo la testa.
«È possibilissimo, tant’è vero che è accaduto. Il suo, in altre parole, era l’ultimo bus della giornata su quella linea e lei non poteva ignorarlo. È bastato che lei facesse quel semplice gesto lì con l’indice» fece lui indicando con il mento le mani dell’interlocutore appoggiate sul bancone «e il tempo per me si è fermato.»
A quel punto l’uomo capì che si stava mettendo male e si mise sulla difensiva. «Mi rincresce davvero molto, non ho parole, l’avessi saputo l’avrei attesa: se solo potessi riparare ora, in qualche modo…»
«No, non ci può fare più nulla, purtroppo, proprio nulla» sospirò. «Proprio come non posso farci nulla ora neppure io. Vede, l’ufficio è chiuso da ben cinque minuti e, anche volendo, i terminali sono spenti» disse spegnendo il computer accanto a sé e la stampante. Poi, facendo il gesto dell’indice ruotato nell’aria, disse ancora: «prenda l’impiegato dopo, quello di lunedì.»
E chiuse lo sportello tirando giù una tendina nera.

Sono ormai trent’anni

Quella mattina, andando a lavorare, si sentiva orgoglioso. Trent’anni di lavoro, un obbiettivo invidiabile, un risultato appagante. Anche se era consapevole che il momento della pensione era ancora lontano, la certezza di aver raggiunto l’ultimo scatto stipendiale della sua carriera lo rendeva euforico.
Arrivato al palazzo, lo squadrò imponente dal basso. Il suo ufficio era all’ultimo piano, pieno di luce, un’oasi di comforts. Ora sapeva cosa fosse la felicità. Come ogni mattina, prese uno dei capienti ascensori che, come al solito, era pieno zeppo di persone. Se qualcuno fosse svenuto, gli altri attorno l’avrebbero involontariamente sostenuto. E come accadeva ogni volta, man mano che l’ascensore saliva la gente scendeva, fino a quando, giunto all’attico, rimaneva solo. L’intero ultimo piano era infatti vuoto, se non fosse stato per il suo ufficio. Da trent’anni faceva le stesse stupende cose. Tirava su le tapparelle, accendeva il computer e la stampante, controllava i livelli degli inchiostri anche se non aveva mai stampato, sistemava l’area di lavoro sulla scrivania, anche se nessuno aveva toccato nulla dal giorno prima. A tre centimetri dal bordo più lontano posizionava il portapenne, a sei centimetri e mezzo il sottomano in cuoio lavorato e poi, a destra, via via, il portacorrispondenza, la rubrica, il calendario, secondo uno sperimentato ordine spaziale. Poi si calzava ben bene, sotto di sé, la seduta della sedia, incrociava le dita posizionando comodamente i gomiti sul pianale e attendeva.
Sei anni prima, verso le ore dieci e ventidue, era in effetti arrivato sin lì un signore, dall’apparente età di quaranta/quarantacinque anni, ma aveva sbagliato piano. Dopo un po’ era pure ritornato per cercare il bagno. Quindi più niente.
Così era l’attesa il suo vero lavoro. Si era comunque accorto che, se lasciava la porta aperta e lasciava vagare lo sguardo lungo l’interminabile corridoio vuoto, le ore dell’ufficio passavano più in fretta. A mezzogiorno precise, come ogni giorni di quei trent’anni, tirava fuori dalla borsa il panino. Il lunedì conteneva la frittata, il martedì il prosciutto cotto, il mercoledì mozzarella e pomodoro, il giovedì l’insalata russa, il venerdì alici e cipolline. Glielo preparava il panettiere sotto casa. Quel giorno era mercoledì. Alla estrema destra della scrivania c’era un telefono, uno di quelli vecchi, neri ancora con la rotella. Non sapeva in verità che trillo avesse perché non aveva mai suonato. Si sarebbe anche telefonato per saperlo, ma nessuno gli aveva detto che numero avesse. Per funzionare funzionava, aveva provato, ma era tutto quello che c’era da sapere. Alla sinistra, sul monitor ingiallito del pc, faceva bella mostra di sé lo spartito del Grande Concerto di Natale, quello suonato ogni anno al Centro Amici della Musica. Il suo compito era proprio quello di stampare una copia di quel solo sparito, sempre lo stesso. Non sapeva neppure come fosse quel concerto, anche perché a lui la musica non piaceva, anzi la odiava. In fondo non era necessario conoscerla o amarla, si era detto: avrebbe dovuto solo stamparne una copia, solo una, se si fosse presentato qualcuno.
Ma oggi era un giorno speciale, pensò, se lo sentiva: qualcosa sarebbe accaduto. Verso le quindici avvertì persino uno scalpiccio nella parte del corridoio che non poteva vedere dalla sua scrivania. Aspettò, ma non successe nulla. Poi alle diciassette il suo turno finì. Abbassò le tapparelle, spense il pc e la stampante, come ogni pomeriggio. Aveva appena finito di chiudere a chiave la porta quando alle sue spalle sentì la voce di una donna:
«Mi scusi, ma vorrei per favore una copia dello spartito del Grande Concerto di Natale…»
Lo sapeva, pensò lui sorridendo: quello sarebbe stato il ‘suo’ giorno. Poi guardò l’ora e, senza voltarsi, disse: «Mi dispiace signora, ma l’ufficio è chiuso, torni domani».

Il Capo

Il Capo
Rare volte gli era accaduto, in passato, di rimanere simpatico al proprio Capo. Ma questa volta Terenzi, così so chiamava il Direttore, lo aveva preso davvero in simpatia. Non che Mino avesse fatto cose egregie sul lavoro, tuttavia era riuscito a far breccia con quel suo modo comunicativo e allegro di comportarsi che riusciva ad abbassare le difese altrui. E il Capo lo ricambiava favorendolo e privilegiandolo, a volte in modo inconsapevole, creando malumori e risentimenti tra i colleghi, a volte in modo sfacciato come quando, durante le riunioni di direttivo si rivolgeva prima a lui che ai capi servizio, saltando così la rigida catena di comando interna. Sfruttando questa situazione Mino aveva cominciato ad avere incarichi di prestigio che si rivelavano essere anche molto remunerativi e la sua scalata ai vertici sembrava imminente tant’è che ora che si era liberato un posto come vicedirettore si faceva con insistenza il suo nome.
«Vorrei che dessi un’occhiata alla mia pubblicazione, appena l’avrò finita» gli disse Terenzi entrando nel suo ufficio. «Ho cose egregie in serbo per te» gli disse tenendogli la mano sulla spalla. «Certo, Capo, la leggerò molto volentieri, anzi per me è un onore, lo sa». E invece per Mino era una gran seccatura e non solo perché quel lavoro riguardava una materia che non gli interessava. Era piuttosto che non stimava affatto quell’uomo, non lo riteneva particolarmente in gamba né all’altezza del suo compito, anche se la sua benevolenza, sempre piuttosto tirata verso altri, lo lusingava sicché aveva deciso di assecondarlo e adularlo in ogni caso per trarne il massimo dei benefici.
Il primo giorno di ferie, quando già aveva raggiunto la casa in montagna, gli arrivò un sms di Terenzi: «Sto per mandarti l’articolo via mail, come d’accordo, fammi sapere cosa ne pensi. È una pubblicazione piuttosto lunga, ma confido in te. Ti richiamerò per sapere cosa ne pensi». Non ci voleva. Quella pubblicazione articolata e noiosa da leggere proprio non ci voleva. Bel modo di iniziare le ferie! Mino chiuse il cellulare, fece spallucce e si tuffò nelle sue vacanze dimentico del tutto di occuparsi della questione, anche perché aveva lasciato il laptop a casa e non aveva nessuna intenzione di brigare per procurarselo.
Ed era appena tornato da una delle sue lunghe passeggiate in montagna, due settimane dopo, quando gli arrivò la telefonata di Terenzi. Appena sentì la sua voce gli venne in mente la pubblicazione non letta. Si sentì mancare.
«Carissimo Terenzi, stavo per telefonarti» fece Mino cercando di riparare in qualche modo. «Ho appena finito di leggere la sua bozza. Non l’ho chiamata prima io stesso perché volevo studiarmela attentamente. Devo dire che è un lavoro pregevole, una pietra miliare nel campo. È puntuale, esaustivo, efficace. Mi è piaciuto in particolare come ha sviluppato la tematica centrale e quei ricchi riferimenti bibliografici che fanno capire non solo come le stia a cuore l’argomento, ma anche come lei riesca facilmente a padroneggiare una materia così complessa e ostica. Davvero grande. Da lei non ci si poteva davvero aspettare nulla di meno.»
«Veramente volevo sapere come stavi» fece Terenzi imbarazzato. «La mia pubblicazione non sono ancora riuscito a inviartela. L’editore mi ha detto che era meglio pubblicare il lavoro dopo l’estate: dice che avrà maggior seguito. Ma tu a cosa ti stavi riferendo?»Il Capo
Poche volte gli era accaduto, in passato, di rimanere simpatico al proprio Capo. Ma questa volta Terenzi, così si chiamava il suo Direttore, lo aveva preso davvero in simpatia. Non che Mino avesse fatto cose egregie sul lavoro, tuttavia era riuscito a far breccia con quel suo modo comunicativo e allegro di comportarsi che riusciva ad abbassare le difese altrui. E il Capo lo ricambiava favorendolo e privilegiandolo, a volte in modo inconsapevole, creando malumori e risentimenti tra i colleghi, a volte in modo sfacciato come quando, durante le riunioni del Consiglio direttivo, si rivolgeva prima a lui che ai capi servizio, saltando la rigida catena di comando interna. Sfruttando questa situazione Mino aveva cominciato ad avere incarichi di prestigio che si rivelavano essere anche molto remunerativi e la sua scalata ai vertici sembrava imminente tant’è che ora, essendosi liberato un posto di Responsabile di Dipartimento, si faceva con insistenza il suo nome.
«Vorrei che dessi un’occhiata alla mia pubblicazione, appena l’avrò finita» gli preannunciò Terenzi entrando nel suo ufficio. «Ho cose egregie in serbo per te» gli disse tenendogli una mano sulla spalla. «Certo, Direttore, la leggerò molto volentieri, anzi per me è un onore, lo sa». E invece per Mino era una gran seccatura e non solo perché quella bozza riguardava una materia che non gli interessava, quanto piuttosto perché non stimava per nulla quell’uomo; non lo riteneva infatti  particolarmente in gamba né all’altezza del suo compito, anche se la sua benevolenza, sempre piuttosto tirata verso altri, lo lusingava parecchio sicché aveva deciso di assecondarlo in ogni caso, adulandolo quanto possibile, giusto per trarne il massimo dei benefici. 
E il primo giorno di ferie, quando Mino già aveva raggiunto la casa in montagna, gli arrivò un sms di Terenzi: «Sto per mandarti la bozza via mail, come d’accordo. È piuttosto lunga, ma confido in te. Ti chiamerò per sapere cosa ne pensi». Non ci voleva. Quella pubblicazione articolata e noiosa da leggere proprio ora che era in vacanza! Bel modo di iniziare le ferie! Mino chiuse il cellulare, fece spallucce e si tuffò nelle sue montagne dimentico del tutto di occuparsi della questione, anche perché aveva lasciato il laptop a casa e non aveva nessuna intenzione di brigare per procurarselo. 
Ed era appena tornato, due settimane dopo, da una delle sue lunghe passeggiate quando gli arrivò la telefonata di Terenzi. Appena sentì la sua voce gli venne in mente la pubblicazione non letta. Si sentì mancare.
«Direttore, stavo per telefonarle» fece Mino anticipando il suo Capo e cercando di riparare in qualche modo. «Ho appena finito di leggere la sua bozza. Non l’ho chiamata prima, io stesso, perché volevo studiarmela attentamente. Devo dire che è un lavoro davvero pregevole, una pietra miliare nel campo. È puntuale, esaustivo, efficace. Mi è piaciuto in particolare come ha sviluppato la tematica centrale e quei ricchi riferimenti bibliografici che fanno capire non solo come le stia a cuore l’argomento, ma anche come lei riesca facilmente a padroneggiare una materia così complessa e ostica. Davvero grande. Da lei non ci si poteva aspettare nulla di meno.»
«Veramente volevo sapere come stavi» fece Terenzi imbarazzato. «La mia pubblicazione non sono ancora riuscito a inviartela. L’editore mi ha detto che era meglio pubblicare il lavoro dopo l’estate: dice che avrà maggior seguito. Ma tu a cosa ti stavi riferendo?»

Irriverenze

Il corridoio era vuoto ,l’intero palazzo era vuoto. Benché fosse il Direttore generale con trent’anni di lavoro sulla fronte era l’unico a rimanere fino a tardi. Del resto se non ci pensava lui all’azienda chi avrebbe dovuto farlo? Inserì la chiave nel quadro per abilitare l’ascensore privato che si aprì morbido davanti a lui come un caldo abraccio materno. Gli era sempre piaciuto il soffuso ‘din-don’ che lo invitava ad accomodarsi e quello specchio enorme in cui ogni mattina quando entrava in ufficio e ogni sera quando ne usciva poteva contemplarsi. Era ancora un bell’uomo. Massiccio, le spalle larghe anche se forse un po’ curve, ma alto, con la barba a nascondere i lineamenti docili e vagamente orientali. Ogni particolare suggeriva volitività, ricchezza, potere. Mentre la cabina andava giù ‘provò’ allo specchio il suo sguardo gelido, quello che riusciva a smontare le agguerrite resistenze degli avversari e dei suoi sottoposti più reattivi. Provò la sua collaudata espressione di sufficienza mista a scherno che umiliava e faceva sentire insignificanti i commessi, i fattorini, la sua minuscola segretaria. Sì, era insopportabile e questo pensiero gli disegnò una linea di sorriso. Si avvicinò allo specchio per vedersi meglio: volle farsi persino la linguaccia, giusto per provare cosa mai lui avrebbe potuto provare se qualcuno avesse osato tanto. Ma subito l’immagine riflessa protese nella sua direzione due robuste mani prendendolo per il collo. Che strinsero e strinsero. Cercò di liberarsi divincolandosi, ma la presa lo attanagliava così soverchiante da alzarlo da terra e farlo sembrare un attaccapanni cui erano stati appesi vestiti vuoti. Sputò il mezzo sigaro che rimbalzò nello specchio mentre le unghie delle dita stavano affondando nella pelle grigia di barba come in una crema. Da paonazzo era diventato pallido, gli occhi stralunati, sbarrati, giganteschi. L’ascensore arrivò al piano e un ‘din-don’ appena soffiato aprì le porte. Le braccia lo mollarono e lui finì pesantemente sul pavimento. Si trascinò sugli avambracci senza fiato e senza sentire più le gambe. L’androne era vuoto, l’intero maledetto palazzo era vuoto. Appoggiò la schiena al muro slacciandosi i primi bottoni della camicia e la cravatta, per respirare. Il vicino campanile batté lentamente le ore.