Catene invisibili

Era già un’ora che si trovava in attesa del suo turno alle poste. Doveva ritirare una raccomandata in giacenza ma distrattamente aveva scelto proprio il giorno di pagamento delle pensioni e delle otto postazioni disponibili solo tre erano occupate da impiegati.
Si accorse però di essere tranquillo e che il ritardo non lo stava innervosendo come normalmente sarebbe accaduto. Quei giorni di ferie che stava trascorrendo avevano operato il miracolo di ridargli la forza di sopportare le contrarietà.
Dalla sedia che era riuscito a guadagnare, tra le pochissime disponibili in quei locali, vide una donna che era appena entrata nella filiale. Era sulla cinquantina, un po’ trasandata, vestita modestamente, ma con un viso franco e schietto. Stava tenendo in mano, un po’ girato, il biglietto dell’eliminacode fresco di stampa mostrando così a tutti che si trattava di un numero molto alto, segno che la coda, anziché smaltirsi, si stava ingrossando. Lo sguardo della donna passava inquieto dal biglietto al tabellone elettronico con i numeri in lavorazione e dal tabellone al biglietto. E non riusciva a capacitarsi dell’enorme divario. Al che l’uomo, come se avesse ubbidito al comando di qualcuno in fondo alla sala, si alzò e le andò vicino.
«Senta, quando sono entrato e ho preso il biglietto, non mi sono accorto che qualcuno prima di me lo aveva già ottenuto dalla macchina erogatrice; l’ha lasciato però lì, forse spaventato dalla lunghezza della fila. In buona sostanza, ho due biglietti con numerazione molto vicina e molto bassa rispetto al suo. Uno dei due è questo…» disse allungandoglielo deciso «è di una trentina di numeri prima. Lo tenga lei.»
La donna prese incerta il biglietto: sembrava non crederci. Prima pronunciò un timido ‘grazie, davvero gentile’ e quindi, quando realizzò che avrebbe risparmiato almeno un’ora di tempo, lo ringraziò vistosamente, più volte. L’uomo si schermì e aggiunse: «Anzi, siccome è un bel po’ che sono seduto, si segga pure al mio posto…»
«Ma lei è un uomo buonissimo…» commentò lei stupita, sedendosi.
Lui sostenne lo sguardo e poi rispose: «mi creda, non è così, ho diverse male azioni da espiare». Lo disse sorridendo, cosicché non si capì se quella fosse davvero una battuta oppure no. Sta di fatto che tanto fu sufficiente perché la giornata di quella donna subisse una svolta positiva. Un perfetto sconosciuto le aveva usato una grande gentilezza senza pretendere nulla in cambio e questo le aveva lasciato dentro una indescrivibile sensazione di benessere emotivo che la faceva sentire in pace con il mondo. Non sapeva quanto sarebbe durata, ma intanto se la godeva.
Così, quando più tardi si ritrovò seduta sul tram diretta fuori città, si alzò spontaneamente per far sedere una suorina anziana rimasta sballottata in piedi alla mercé della guida precipitosa dell’autista.
E la suorina, d’indole burbera e arcigna, si intenerì a sua volta per quella cortesia, segno di rispetto per la sua età e per l’abito che indossava. Così, quando alla visita-parenti del pomeriggio le si presentò la madre di Gerlando, anziché riferirle come di consueto che suo figlio era uno scapestrato e che non avrebbe combinato nulla nella vita, ebbe per la prima volta parole di incoraggiamento e di stimolo.
Cosicché anche la giornata di quella madre mutò, perché, tornando a casa, si sentì orgogliosa di suo figlio che già tanto aveva sofferto per l’abbandono prematuro del padre; e, quando gli venne incontro, lo abbracciò a lungo e lo osservò con occhio diverso, pieno di speranza. Pensò, dopo tanti anni di difficoltà, che, dopotutto, ce l’avrebbe potuta anche fare.
«Mi lasci andare a scuola da solo, mamma?» chiese la mattina dopo Gerlando, sicuro di ricevere l’ennesima risposta negativa.
Ma quella mattina la madre non se la sentì di dirgli ancora di no. Forse meritava più fiducia e di credere in sé stesso e nelle proprie capacità.
E acconsentì.
E il bambino prese la sua cartella, felice di andare a scuola. Si sentiva finalmente grande, perché la madre gli aveva permesso di fare una cosa da grandi. Tutto sommato, considerò, si sarebbe potuto anche impegnare di più a scuola e fare meno il prepotente. La mamma aveva bisogno di un uomo su cui contare. Sì, quel giorno, nell’intervallo, avrebbe potuto anche trovare il coraggio di baciare Carmelinda dietro ai cespugli. Dopo tanto tempo, Gerlando era sereno, forse felice, e la sua mente gli si riempì di sogni ad occhi aperti.
E scendendo distratto dal marciapiede di via F.lli Lumière fu investito in pieno da un autobus.

Alle poste

 

Mi trovavo alle Poste in attesa del mio turno, con il numerino in mano. Mi guardavo in giro nella sala di attesa più simile a quella di un check-in aeroportuale che a un ufficio pubblico. Mancavano solo i carrelli per i bagagli, perché il freeshop pareva già ci fosse. Vicino a me una persona di una certa età cercava vanamente di tenere a bada un ragazzino.
«Ho imparato, sa?» mi dice ad un certo punto giocherellando con il bastone. «Con la scusa che sono in pensione mi mandano a fare i servizi, come venire qui in posta». Il sorriso era sincero, di quelli che fanno simpatia. E visto che le prestavo attenzione proseguì: «Solo che sono anziana e quando viene il mio numero ci metto troppo tempo ad arrivare allo sportello. L’impiegato non aspetta e fa scattare il numero successivo e a volte anche quello dopo. Hanno tutti fretta. Non si capisce più nulla. Così quando finalmente arrivo io, c’è sempre qualcun altro davanti che non mi fa passare perché dice che ho perso il turno e che non devo fare la furba. Ho ottantadue anni, io. Se fossi furba sarei già morta…» mi dice senza un filo di amarezza. «Insomma non riuscivo mai a pagare i bollettini. E allora ho imparato…»
«Cos’ha imparato, signora?» gli faccio curioso.
«Quando viene il mio numero scatta il mio nipotino che in un lampo è davanti all’impiegato e gli dice di aspettarmi che sto arrivando…» e scompiglia i capelli al bambino che cerca di sottrarsi. Poi la nonnina mi guarda ancora: «In fondo mi costa solo un gelato e faccio bella figura con i miei figli»

Minoranze protette

 

‘Gi mi aveva chiesto di accompagnarlo alle poste e io avevo deciso di fargli compagnia. Le poste di Lughi sono poco più di un gabbiotto per i polli con due soli sportelli di cui uno eternamente chiuso. La fila, pertanto, era inevitabile. Non appena fu servito il cliente davanti a noi, l’impiegato si alzò di scatto e con un’espressione imperturbabile piazzò davanti al naso di ‘Gi un cartello che avvisava di essere entrato in pausa. Restammo ad aspettare qualche minuto dopodiché, a un’altra impiegata che stava scrivendo al computer battendo i tasti con un solo dito, ‘Gi chiese cortesemente:
«Sa per caso quando torna il suo collega?»
«È in pausa» rispose secca quella senza neppure alzare lo sguardo dalla tastiera.
«Questo l’ho letto anch’io…» fece il mio amico, la cui voce si stava incrinando per il nervoso. «Le ho chiesto un’altra cosa. Se sa quando torna. È in pausa pranzo?»
«No, quella è fra un’ora. Adesso è in pausa meditazione.»
«Temo di non aver capito…» si schiarì lui la voce. La donna, sbuffando, spiegò:
«È del Buthan, e questa è la sua mezz’ora di meditazione. È nel regolamento interno per il rispetto delle minoranze.»
«Non può allora venire lei allo sportello, per favore?» domandò quasi supplichevole.
«Per carità. Non è il mio turno.»
«Posso sapere il nome dell’impiegato così lo denuncio?» fece ‘Gi con estrema calma.
«Non posso dirglielo» ribatté la donna senza cambiare il tono inespressivo. «È per la legge sulla privacy.»
«Posso almeno parlare con il Direttore?»
«Certamente, dovrà però aspettare una settimana quando sarà di ritorno dal corso obbligatorio di aggiornamento, che è obbligatorio. Ma può dire a me, sono io che lo sostituisco per eventuali lamentele. Vuole inoltrare reclamo? Le sarà inviata risposta scritta presso il suo domicilio fra quindici giorni.»
Vidi distintamente ‘Gi vacillare sulle gambe. L’impiegata lo stava invece guardando con aria interrogativa, come se stesse aspettando il da farsi.
«Lui è musulmano» feci io ad un certo punto mentendo spudoratamente. «Dovrebbe essere in preghiera da almeno dieci minuti. Lei sta violando la libera professione del suo credo religioso con un deliberato atto discriminatorio di una minoranza giuridicamente tutelata.»
L’impiegata mi squadrò nervosa. Quindi aggiunse:
«Perché non me lo ha detto prima? Di cosa ha bisogno?»