Come seme di grano

«Cosa fai, Beppe?»
La voce gli arrivò sulla spalla curva. Ma lui non se ne diede conto e continuò a sparpagliare il sale sul camminamento di ferro come fosse seme di grano.
«Si può sapere perché lo fai?» insistette il suo amico d’infanzia Roldo che non era mai riuscito a capire a fondo le sue stranezze.
«Non voglio che qualcuno scivoli sul mio ponte e si faccia male…» fu, dopo un po’, la semplice riposta.
Il passaggio pedonale in ferro scavalcava il torrente, ma in alcune mattine di inverno l’umidità dell’acqua risaliva silenziosa come una serpe indurendo le traversine con ghiaccio azzurrino e insidioso.
«Sono nato in quella casa, Ro’» disse voltandosi e indicando una casupola appoggiata pigramente al basamento del ponte «e ho quasi ottant’anni… come posso non ritenere un po’ mio questo passaggio? Me ne prendo cura, tutto qui…» fece un mezzo sospiro dispiacendosi che il suo amico non capisse. E poi prese un’altra manciata piena di sale e la fece correre sul ferro che restituì un suono di pietrisco e sabbia.
«Ecco, questa mattina ci mancava solo lei…» fece l’anziana signora Pina venendo su dalle ripide scalette. «Gliel’ho già detto mille volte di non buttare quella robaccia qua sopra, mi rovina le scarpe.» La signora Pina si era piantata all’inizio del camminamento con le mani sui fianchi cercando di incrociare lo sguardo acquoso di Beppe che invece continuava nella sua opera in modo risoluto e testardo. «Perché non fa come tutti i vecchi del paese e non se ne va a giocare a tressette al bar?» incalzò lei con gli occhi sbarrati da spiritata.
Beppe, chiuso nel suo mondo, non ribatté mentre la signora Pina, i capelli color viola pallido, gli scivolava accanto sbuffando un ‘Vecchio rimbambito’.

«Hai sentito, Ro’? Beppe è in terapia intensiva… l’ha presa proprio brutta» fece calando una carta con una certa veemenza e alzando dal tavolo il suo bicchiere con dentro due dita di chiaretto.
«Certo che l’ho sentito, Tito. Ci sono stato ancora questa mattina, in ospedale, ma non me lo hanno fatto vedere… Sembrava stesse meglio nei giorni scorsi, ma poi si è aggravato da un momento all’altro: è conciato proprio male… Sono davvero preoccupato.»
«Mi spiace proprio.»
«E al ponte? Chi ci pensa al ponte?» fece Ro’ interrogando gli amici al tavolo.
«Quale ponte?» chiese Mario guardando fuori dalla finestra le luci dei lampioni appena accesi che non riuscivano a bucare le ombre lunghe della sera.
«Il camminamento sul torrente…»
«Mah… so assai…» fece Mario calando con soddisfazione una carta. «Che vada in malora quel maledetto ponte.»
Tutti al tavolo del tressette assentirono senza dire più nulla. Si sentiva solo il fruscio delle carte consunte che luccicavano sulla tovaglia quadrettata mentre in lontananza Remo sistemava le tazzine sporche nel lavastoviglie. Dovevano ricostruire il ponte più a sud, ampliandolo, giusto per consentire il traffico veicolare; e questo già all’inizio nel nuovo secolo, ma solo quando avessero anche spostato la linea ferroviaria. Poi avevano lasciato la linea lenta dov’era facendo passare l’alta velocità sul lungo lago e ogni cosa, nonostante le promesse del Sindaco, era rimasta come prima.
«Ah… lo sai Ro’ della Pina?» fece Nando bloccandosi per aria con la carta da giocare in mano.
«No, che ha fatto ancora quella vecchia megera…?»
«Passando questa mattina sul ponte… è scivolata sul ghiaccio. E s’è rotta il femore.»

In gurgite vasto

Aveva vissuto i primi mesi di pensione con entusiasmo. Durante gli ultimi giorni di lavoro aveva pensato a quante cose finalmente avrebbe potuto fare quando si fosse finalmente liberato di quella noiosa routine quotidiana. E lui qualche buon proposito era anche riuscito a realizzarlo una volta acquisita quella libertà ma poi, pian piano, si era fatto sorprendere da una strisciante apatia, da una voglia insopprimibile di non far nulla, complice anche qualche acciacco di troppo della sua salute.
Lo sforzo di dare una cadenza alla sua giornata si era fatalmente infranto nella mancanza di prospettive, nella sensazione di trovarsi ai margini del mondo produttivo, di essere fuori dal novero della gente utile, di chi aveva uno scopo sin da quando al mattino si alzava dal letto. Si accorse così di non aver coltivato hobby né amici degni di questo nome, né poteva contare su nipoti da far giocare o da andare a prendere a scuola. E, a poco a poco, gli si spalancarono le porte della depressione.
Di tutte le sue attività che si era imposto di provare gli era rimasta solo la passeggiata del pomeriggio, ma solo quando era bel tempo e non c’era troppa confusione in giro. Passeggiava da solo, lentamente, cercando di scacciare i pensieri più cupi. Si stava rendendo conto che il lavoro, per quanto usurante e deludente, aveva da sempre riempito di senso la sua vita, mentre ora aveva davanti a sé, per ciascuno giorno che il Padreterno mandava in terra, un’intera e lunga giornata da far trascorrere.
Così, lungo il solito percorso passò sul ponte. La vista sul fiume e sulla valle lo tranquillizzava. In quel punto poteva godere anche di gran parte dei monumenti della città, scorgere qualche canoa sfidare la corrente e alcuni pigri pescatori impegnati nei loro gesti lenti e pazienti. Ma quel giorno su fiume non c’era nessuno. Era piovuto con insistenza nei giorni precedenti e l’acqua era limacciosa e molto mossa.
Poi la sua attenzione fu attratta da un punto nero in mezzo alle onde. Sapeva di una famigliola di nutrie che avevano trovato lungo le sponde il loro habitat naturale ma non gli sembrava: si trattava di qualcosa di diverso. Si mise a fissare quel qualcosa che stava procedendo nella sua direzione, nella corrente, a gran velocità. Ma sì, ora lo vedeva bene… era una persona: stava lottando per rimanere a galla e ogni tanto finiva per diversi secondi sott’acqua. Lui d’istinto scavalcò la balaustra di protezione e si spinse sul pilone. Si tolse il giubbotto e le scarpe. Non era sicuro che avrebbe potuto fare qualcosa. Non era granché come nuotatore ma certamente non poteva lasciarlo annegare. Si volse attorno alla ricerca disperata di qualcuno che potesse aiutarlo, ma era proprio solo. Forse era arrivato davvero il momento di dare un senso alla sua giornata e a quel triste periodo che stava vivendo, pensò. E intanto l’uomo tra le onde si stava sempre più avvicinando al ponte. La forza del fiume faceva rotolare il suo corpo vincendo agevolmente i suoi sforzi per rimanere a galla. Quindi, all’improvviso, lo riconobbe. Anzi, si riconobbe. Era lui, era indiscutibilmente lui. Era persino vestito allo stesso modo. Non era possibile! Lui era sul ponte, non poteva essere anche laggiù in balia del fiume. Si paralizzò proprio mentre era sul punto di gettarsi. L’uomo nell’acqua si avvicinò ancora di più, prossimo ormai a superare l’arcata principale del ponte, e gli venne così vicino da poterlo vedere bene in volto. L’uomo tra le onde, per un tempo che parve infinito, lo guardò fisso negli occhi quasi reclamasse una risposta; il suo sguardo era sereno, rassegnato, come quello di un vinto. E poi, avendo capito che non sarebbe stato salvato, chiuse le palpebre, e si lasciò andare nel profondo del fiume limaccioso.

Il ponte

Avevo appena fatto il pieno di gasolio e stavo per ripartire quando sentii bussare al finestrino. Pensavo fosse il benzinaio che avesse qualcosa da dirmi. E invece era un uomo. Poteva aveva la mia età. Era ben vestito, un velo di barba non rasata sulle guance e, indosso, un vestito comodo da viaggio come di chi è ancora in ferie ed è appena sceso dalla macchina per una sosta. Sulle prime non l’avevo riconosciuto: era Massimo. Non lo vedevo da quando trent’anni prima avevo lasciato Alvona per altre città e altri interessi. Era invecchiato, un viso tirato e pensoso, una malinconia infinita nello sguardo.
«Ciao Massimo» gli dissi più spaventato che meravigliato. «Che ci fai qui? Sei molto lontano da casa.»
Lui mi guardò come se non sapesse cosa rispondere. Poi mi fece brusco: «Stai tornando a Poggiobrusco?»
«Sì, certo, abito ancora lì.»
«Allora non passare per il ponte di Maivano… è appena crollato.»
«Il ponte? Crollato? Ma è una tragedia!»
«Sì, infatti» concordò lui voltandosi attorno agitato.
Subito dopo mi batté forte per un paio di volte sul tettuccio della macchina in segno di commiato e allungò alcuni passi per allontanarsi.
«Beh, allora grazie, Massimo» gli dissi con le mani ancora incollate al volante. Lui ritornò indietro con la stessa furia con cui era arrivato. Mi mise di nuovo a disagio.
«E ora siamo pari con quello che ti dovevo…» mi fece lui con un solo respiro.
«Pari? In che senso pari?» domandai.
Ma lui ormai era lontano. Lo vidi sparire tra la gente che affollava a quell’ora la stazione di servizio.
Crollato! Ma com’è possibile che sia crollato?’ pensai guardando avanti a me, quasi dovessi badare alla strada e non fossi fermo. Cercai con l’aiuto del navigatore di capire che strada avrei dovuto fare in alternativa. La deviazione mi avrebbe preso almeno due ore. Era meglio a quel punto che me la prendessi con comodo. Dopotutto, a casa, non mi aspettava nessuno.
Cercai un ristorantino sul fiume. Avevo fame e non avevo nessuna voglia del solito panino-fattoria. Trovai un’osteriola appena cento metri dopo. Mi sembrava un bel posticino e si doveva anche mangiar bene a giudicare dal numero di camion in sosta.
«Si sa nulla del ponte crollato? Ci sono vittime?» domandai al signore di una certa età che era venuto a prendere l’ordinazione.
«Ponte, quale ponte?» mi chiese lui distratto mentre segnava sul taccuino il numero del tavolo e chissà cos’altro.
«Come quale ponte? Il ponte sul Maivano, è appena successo. Come fa a non saperlo? È qui vicino.»
«Ma cosa sta dicendo?» e senza aspettare che io replicassi mollò sul tavolo il taccuino e il menu e si portò correndo sulla spianata del fiume per vedere meglio. Non me ne ero accorto, ma di lì il ponte lo si vedeva bene perché poco distante. Era alto, argenteo, brillava leggero sulle acque del fiume con le sue linee ancora moderne. Era tutt’altro che crollato. Ma in quel preciso momento si levò dapprima uno sbuffo di fumo dal pilone centrale e poi, come se fossero stati tanti pezzi solo appoggiati l’uno sull’altro, la parte centrale del ponte venne giù con un boato assordante. La scena fu tanto repentina quanto apocalittica. Le auto e i camion che lo percorrevano caddero assieme all’impalcato di cemento armato mentre altri mezzi scivolarono uno dopo l’altro nel vuoto come in un gioco impazzito. Al ristorante c’è chi gridò, chi si mise a piangere disperato e chi come me che si limitò a rimanere impietrito, incredulo a quello che stava assistendo.
Squillò in quell’attimo il mio cellulare.
«Ehi, come stai?» sentii dire dall’altra parte. «Pronto? Sono Paolo, mi senti?»
«È… è appena caduto un ponte, Paolo»… balbettai meccanicamente non riuscendo a togliere gli occhi dalla nube di polvere che si stava allargando sul fiume.
«Ponte? Quale ponte?»
«E ho pure incontrato poco fa Massimo che mi aveva avvertito…» seguitai senza un filo logico «te lo ricordi, Massimo, quello della palestra cui avevo fatto quel prestito cospicuo trent’anni fa e che non mi ha però più restituito i soldi…»
«Massimo? Massimo Dellicampi? Non è possibile che tu lo abbia visto. È morto più di quattro anni fa…»
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Paco

Sempre più spesso Hiro Mitzuri si sorprendeva a guardare fuori della grande finestra del suo ufficio all’ultimo piano del palazzotto che portava il suo nome. Un panorama superbo come solo i dirigenti potevano avere. Le mani in tasca, però, strette a pugno, la cravatta slacciata e una smorfia triste che da un po’ di tempo aveva preso possesso del suo viso. Lo sguardo accarezzava le colline lilla a velare più lontano un bottone blu di mare per poi accompagnare il corso del fiume che prendeva i colori più diversi a seconda della stagione e del taglio di luce. Più sotto, l’andirivieni costante dei turisti dal passo incuriosito e lo sguardo svagato come se ogni cosa dovesse essere per forza bella e indimenticabile. La balaustra bianca del ponte luccicava arrogante tanto che le persone, che si fermavano per una foto ricordo, stringevano le palpebre per il riverbero. Più in là, nella parte dove l’arcata discendente si aggrappava alla riva, già nel quartiere ebraico, il solito barbone suonava con impegno una concertina scura le cui note si infrangevano sul vetro spesso. Tutti i giorni quell’artista di strada era lì, con il suo vestito frusto che lo copriva d’estate e d’inverno; una piccola cagnetta pezzata ai piedi, perennemente addormentata, a fargli da contorno.
Forse, pensò, se insisteva così tanto a lasciar libero lo sguardo fuori dalle angustie di quell’ufficio voleva poter dire che aveva bisogno di cambiare aria, di andar via per qualche tempo o addirittura di cambiar vita. Ma non lo fece. Le giornate continuarono nel tempo a snocciolarsi sempre uguali come gocce di pioggia da una grondaia bucata. Si accontentava di guardare dal finestrone, quasi fosse un prigioniero; osservava tutti quei turisti così simili tra loro da sembrare la stessa persona o quelle stesse onde del fiume che scorrevano appena qualche metro sotto, con il medesimo movimento pigro e l’andatura meccanica.
Eppure quel giorno mancava qualcosa al paesaggio.
‘Ma certo!’. Si disse, mancava il ‘suo’ barbone. Verso mezzogiorno, quando dopo una estenuante riunione con i capi distrettuali ritornò al finestrone, lui non c’era ancora. Senza pensarci su, scese celermente. Ripercorse il ponte e, arrivato alla rientranza dove il clochard stava di solito, lo cercò. Si avvicinò al negozio di fronte e chiese se avevano visto quell’uomo. Il titolare lo squadrò con sussiego dicendogli che lì non c’era mai stato nessun senzatetto. La sua era una gioielleria rispettabile e di classe e non l’avrebbe mai permesso. Sulle prime, Hiro si indispettì, ma poi decise di chiedere anche al concierge dell’albergo vicino. Anche lui giurò tuttavia di non aver mai visto, lì davanti, un tipo simile. L’avrebbe notato, del resto, precisò, perché per lavoro sostava spesso sull’uscio per accogliere i clienti o chiamare i taxi. Hiro era sconcertato, perché mentivano? Ritornò alla postazione del clochard e vide che, in una voluta di marmo del ponte c’era il suo berretto di lana. Lo prese e lo esaminò. Sì, lo riconobbe. In quel mentre una signora si fermò e gli chiese, indicando proprio il berretto:
«Dov’è Paco?»
«Lo cercavo anch’io» fece Hiro rinfrancato che qualcun altro avesse notato il musicista.
«Tenga» disse la donna dandogli senza indugi dei soldi. «Quando passo di qui gli do sempre qualcosa per comprarsi un panino. Appena lo vede glieli dia, mi raccomando.» Hiro prese il denaro e ringraziò. Di li a poco, la scena si ripeté con un signore di mezz’età, con due donne in vena di chiacchiere e via via con un numero insospettabile di altre persone. La gente aveva evidentemente adottato quel senzatetto e gli voleva bene. Hiro avrebbe voluto a quel punto andarsene ma, pensò, se non li avesse presi lui quei soldi per Paco sarebbero andati perduti. L’uomo si levò allora la giacca per il caldo e si mise in maniche di camicia. E, prima ancora di rendersene conto, aveva il berretto aperto davanti a sé come per chiedere la questua. No, non gli importava nulla di quello che avrebbe pensato la gente, si sentiva felice e utile, dopotutto. Persino la smorfia triste sul viso se ne doveva essere andata via.
Ancora sorrideva quando alzò per un attimo gli occhi verso il finestrone del suo ufficio. Paco era lì, in camicia e cravatta e i capelli tagliati: lo stava guardando.

La pashmina rossa

Si era alzata una nebbia leggera. Veniva dal torrente che s’infilava furibondo, per le piogge dell’ultima settimana, sotto la massiccia arcata del ponte romano. Un ponte a schiena d’asino, carico di storia, che sembrava innarcarsi il più possibile per far passare tutta quell’acqua.
Una ragazza bruna, con una pashmina rossa al collo e un giubbotto leggero, aspettava accanto al parapetto. Guardava l’ora e poi la strada e poi l’acqua furibonda. Ogni tanto qualche rara macchina usciva dalla provinciale per immettersi sulla stradina, ma svoltava subito per l’abbazia senza degnare neppure d’uno sguardo la severità austera del ponte.
«Anche tu aspetti qualcuno?» chiese un ragazzo, dietro di lei. I suoi occhi chiari da sotto il cappello di lana blu, apparivano curiosi e profondi. «È da più di mezz’ora che ti osservo» e voltandosi attorno come per avere una conferma: «anche la persona che dovevo incontrare io… pare proprio mi abbia dato buca.»
La ragazza si girò quasi non ritenesse reale, in quell’atmosfera sospesa, che qualcuno fosse davvero lì vicino a lei. Squadrò quel ragazzo più alto di lei e dall’aria rilassata, per poi distogliere subito lo sguardo e fissare nuovamente il torrente e non perdere neppure una piega di quell’acqua scura.
«Sì, forse ho sbagliato io…» disse lei sorridendo, ma parlando più all’acqua che al ragazzo. «Mi hanno indicato questo ponte qui. Non è quello romano?»
«Sì, ma credo ce ne siano due da queste parti… questo dovrebbe essere il ponte Garenna mentre l’altro si chiama, si chiama…»
«Allora forse è l’altro» concluse la ragazza alzando le spalle e scuotendo la testa rassegnata. «È lontano da qui?»
«Dipende… se sei a piedi, sì.»
«Sono arrivata con il bus.»
«Ti accompagnerei io, ma non vorrei andarmene… per via del mio appuntamento…»
«Sì, sì capisco.»
I due ragazzi parlarono a lungo. E due ore più tardi lui la stava lasciando nella piazzetta di Lughi, perché era di strada. «Grazie per avermi fatto compagnia…» fece il ragazzo facendola scendere.
«Grazie a te» disse lei. «Questo giorno, credo, ce lo ricorderemo per un bel pezzo.»
«Facciamo così» propose il ragazzo. «Se ti va, fra un anno esatto, ci potremmo ritrovare su quello stesso ponte. Così ci rideremo su.»
«Va bene, perché no?» disse stringendogli la mano in un modo che non era da lei.
Trascorse un anno e lui si ripresentò puntualmente nello stesso posto e alla stessa ora per rivederla. Il torrente era calmo, perdendo così tutta la sua carica ipnotica, e il sole, che non aveva nessuna voglia di tramontare, lo faceva a tratti brillare. Attese un paio d’ore, ma lei non venne.
Ma sì, certo‘, pensò il ragazzo. ‘Era proprio una sciocchezza questa storia del rivedersi per riderci sopra: non mi avrà preso sul serio o più facilmente se ne sarà dimenticata‘. E, convinto che quello fosse un posto che proprio non gli portava fortuna, se ne tornò alla macchina.
Nel frattempo, dall’altra parte del ponte, una ragazza con la pashmina rossa allungava il collo per vedere se questa volta il suo appuntamento ci sarebbe stato. Al centro dell’arcata respirò a pieni polmoni l’aria pulita della valle, mentre il cielo si striava di giallo e di rosso incupendo il verde dei pioppi tremuli.
Il ragazzo, una cinquantina di metri più in là, dietro a un’edicola votiva, stava per mettere in moto. Si batté la mano sulla fronte:
«Ma che testa che ho. Ho lasciato il cellulare sulla spalliera del ponte.» E tornò indietro.