Punch

La giornata era radiosa. Era uno di quei pomeriggi di sole caldo con una brezza che mitigava la temperatura tanto da farla sembrare tiepida, finanche carezzevole alla pelle e all’animo.
La piazza, carica di storia, era pressoché tutta per lui. Per lui, il figlioletto di dieci anni B. e Punch il suo Weimaraner, pazzo di gioia per poter finalmente fare in libertà la sua sgambettata. Il cane correva da una parte all’altra, un po’ dietro alla palla calciata con tanto impegno, ma con scarso successo, dal bambino, un po’ dietro alle ombre grigie dei rondoni che saettavano nell’aria facendo la solita confusione.
Per un attimo l’uomo si fermò a contemplare quel momento perfetto, dove tutto sembrava in equilibrio, eterno, immutabile. Le ansie del lavoro erano lontane, e anche quel dolore alla spalla che, dopo tanto tempo, gli stava dando finalmente una tregua; persino il rapporto con la madre di B. si stava rasserenando. Il risentimento, l’astio, l’amarezza di tutti quegli anni si erano stemperati nella sopportazione, nel distacco, nella reciproca comprensione e, giorno dopo giorno, sentiva che stava rinascendo, non a una vita nuova perché quella che aveva gli bastava e avanzava, ma alla sua solita, come se riuscisse a vederla ora con occhi diversi, più aperti e curiosi.
«La palla…»
Sentì protestare il figlio.
«Come dici, tesoro?»
«La palla, pa’» disse indicando con il suo ditino la palla rotolata fin sui piedi del padre, gli occhi strizzati alla luce del sole.
«Non l’avevo vista…»
«Ti distrai sempre, concentrati però, sennò poi trovi le scuse se perdi…»
«Hai proprio ragione» fece lui di rimando, cercando di rimanere serio. Era impressionante come il bambino assumesse le sue espressioni quando era con lui e quelle della madre quando era con lei. Che fosse solo inconscio opportunismo o piuttosto l’innata capacità imitativa dei bambini?
Con questo pensiero stava per raccogliere la palla quando Punch gliela rubò con uno scarto improvviso cercando di afferrarla con la bocca con il solo risultato di farla sgusciare lontano.
«Ma no, Punch…» fece B. battendo entrambe le mani sui fianchi «così me la buchi…»
Il padre sorrise per quella scena e tirò fuori il cellulare per fermare nel tempo l’espressione buffa del figlio. Ci mise troppo tempo però per ingrandire l’immagine e l’espressione passò fugace, inghiottita dalla mimica vivace del bimbo; ma la foto la fece ugualmente. L’avrebbe vista e rivista quando il figlio sarebbe stato lontano da lui.
Nel frattempo, B. aveva recuperato la palla e l’aveva gettata di nuovo fiducioso verso il padre.
«Dobbiamo andare, lo sai, vero?» gli disse lui, dispiaciuto. toccando l’orologio da polso.
Il bambino lo guardò deluso.
«La mamma ti aspetta…»
Il calore del sole sulle spalle lo accompagnò fino al figlio. Gli stropicciò i capelli.
«Vedrai, campione, staremo di nuovo presto insieme.»
Il bambino si era intristito mettendosi a stingere forte la palla al petto che il padre gli aveva appena consegnato. Voleva dire qualcosa ma le parole non sembravano volergli uscire di bocca. Punch si era accostato a loro, non capendo perché non si giocava più.
Il padre gli cinse il braccio sulle spalle per consolarlo e trarlo a sé.
«Vieni» gli disse e, a quel contatto, capì quanto presto sarebbe diventato grande.
Era triste anche lui, ma in fondo si sentiva soddisfatto. Per quella giornata. Per quella giornata davvero perfetta.
Uscirono in silenzio dalla piazza.
Guardò ancora la foto sul cellulare che aveva fatto poco prima. Suo figlio era venuto proprio bene. Non sapeva ancora che quella sarebbe stata la stessa foto che avrebbe messo sulla sua lapide.


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