Il Pozzo Bono

Lisandra era una signora non più giovane che abitava nel villaggio di Argali. Secondo necessità copriva a piedi i cinque chilometri che la separavano dal Pozzo Bono perché, oltre al marito e alla sorella malata, non c’erano figli che avessero benedetto il suo matrimonio e l’aiutassero in casa.
Un giorno si sparse la voce che, in una nicchia della camera di pietra del Pozzo, era andato ad abitare un eremita in odor di santità. Si diceva che l’uomo anziano avesse sentito il vecchio Berto lamentarsi di aver perduto il suo montone fuggito dallo stabbio durante un forte temporale e l’avesse fatto tornare a casa lo stesso giorno. Si mormorava anche che l’eremita avesse ascoltato quanto Maria, del villaggio di Dìpari, raccontava a comare Petra di suo figlio Tobia affetto da una strana e grave malattia agli occhi, e il piccolo si era prontamente ristabilito mentre i medici avevano sentenziato che avrebbe perso la vista entro la luna successiva.
Così Lisandra, un giorno, dopo aver riempito come al solito le otri d’acqua fresca, con molta titubanza, si era messa a domandare sommessamente all’eremita di rimanere incinta. Era la cosa che più voleva dalla vita e le sgorgò spontanea dal cuore come una fonte pura. Ma le settimane che seguirono furono vane e il suo desiderio rimase inesaudito.
All’approssimarsi della Festa dei Mille Rovi, prima di andare al Pozzo, si trattenne nella campagna circostante per raccogliere quanti più fiori poté: voleva abbellire l’entrata della casa e renderla più accogliente. Posati i fiori sul muretto del Pozzo, nel prendere il secchio, inavvertitamente urtò il bel mazzo colorato facendolo cadere giù nell’acqua.
Quella stessa notte Lisandra, dopo aver giaciuto tra le braccia del marito, rimase incinta; lo capì subito non appena lui le si scostò di lato. Poco dopo la donna si addormentò profondamente sognando di una pietra preziosa rinvenuta tra l’erba del pascolo. Nove mesi dopo nacque una bellissima bambina.
La voce del lieto e prodigioso evento si sparse rapidamente per tutta la regione e frotte di questuanti di ogni tipo cominciarono a recarsi abitualmente al Pozzo. C’è chi chiedeva danaro, chi lavoro, chi si accontentava che piovesse per il futuro raccolto, chi faceva le richieste più strane. Era diventato un problema persino avvicinarsi per attingere l’acqua. La fila di persone in attesa era interminabile e si snodava fino all’ingresso della valle. Nessuno mai era riuscito a parlare con il sant’uomo, ma nei giorni di sole e di cielo limpido era possibile intravedere, riflessi sul fondo del Pozzo, la sua lunga barba e lo sguardo pensoso.
Dopo alcuni mesi, si scoprì che, in prossimità di una nicchia della camera del Pozzo, sbucava una galleria bassa e stretta da cui i minatori di rame di Aseman, a diversi chilometri di distanza da lì, prelevavano l’acqua per il proprio sostentamento. Sebbene la miniera fosse stata abbandonata da anni per esaurimento della vena, era diventata il rifugio di NT, uno stupratore assassino ricercato dalla guardia civile per tutto il Paese. Una volta arrestato, NT finì a sua volta ucciso in carcere durante una sommossa tra detenuti.
Anche se la notizia della cattura si riseppe, nessuno volle credere alla storia che l’eremita altro non era se non un vecchio omicida latitante; si narrava piuttosto che i carcerieri, riconosciuta ben presto la santità dell’uomo, risultato innocente da ogni ingiusta accusa, lo avessero aiutato a fuggire e lui fosse ritornato al Pozzo. E questo sebbene la galleria comunicante con la miniera fosse stata da subito murata e l’acqua dell’artesiano prosciugata.
La fama di Pozzo Bono non conobbe dunque mai flessione nel tempo a venire, anzi; anche perché ogni tanto si aveva notizia di qualche prodigio altrimenti inspiegabile.
E così, dopo qualche anno, intorno a quel Pozzo, fu costruito dalle persone riconoscenti dapprima un tempietto e poi una pieve e infine una grande chiesa a tre navate con diversi negozi di reliquie e souvenir.

La goccia del Santo

Ferruccio decise di perdersi tra le vie del centro città. La riunione si sarebbe protratta fino alle 18, ma aveva trovato il modo di uscire prima dalla sala senza dare nell’occhio. Il tema del seminario era risultato piuttosto noioso e i colleghi, con cui per un po’ aveva diviso i lavori della mattinata e il pranzo, ancora di più.
Così ne approfittò per distrarsi e visitare un posto in cui non era mai stato. Forse l’aria della sera avrebbe giovato anche al suo doloroso mal di testa dandogli un po’ di sollievo. Gli avevano diagnosticato tempo addietro una cefalea atipica che con il tempo si sarebbe forse spontaneamente rimessa; a meno di non rientrare in quello 0,001% della popolazione per il quale si sarebbe invece cronicizzata aumentando di intensità; e Ferruccio non si era mai reputato una persona fortunata.
Passando davanti a una farmacia decise allora di comprare un analgesico. Il farmacista, un tipo gioviale e dal piglio disinvolto, grazie anche a un’assenza momentanea di clientela, lo accompagnò sino alla porta del negozio senza smettere di chiacchierare.
«E questa pianta? Cos’è?» chiese Ferruccio, curioso, toccandola. Era un bell’albero proporzionato, di un paio di metri di altezza, che sbucava all’improvviso da un’aiuola a ridosso dell’entrata e il cui tronco, grigio e stropicciato, impediva parzialmente l’ingresso.
«Ora che l’ha toccata le rimarrà sui polpastrelli una sorta di vernice rossa» fece il farmacista ridendo. «Ci vorrà qualche settimana prima che vada via. È per questo che c’è il cartello: ‘NON TOCCARE!’» precisò indicandolo.
«Oh, mi scusi, non l’avevo visto.»
«Non si preoccupi, i turisti che non conoscono la storia, non lo leggono mai… È una delle tante stranezze di questa pianta.»
«Storia? Che storia?»
Il farmacista si guardò in giro come per accertarsi che non fossero entrati nel frattempo clienti e poi raccontò:
«Si narra che, alcuni secoli fa, sia passato in questa via il Santo mentre rientrava al suo romitorio, sorretto da due discepoli. Era stato appena accoltellato a morte da due briganti di strada ed era in fin di vita. Una goccia del suo sangue cadde proprio qui, in questo punto, dove ora c’è l’albero, rimanendovi anche nei mesi successivi tanto che non ci fu né pioggia né sole né vento che fu in grado di cancellarla. Poi, un giorno, su quella minuscola goccia, si è posato un seme e ben presto è germogliata questa pianta, che è risultata peraltro, da studi approfonditi, di specie del tutto sconosciuta. Il giorno in cui il Santo è morto, benché cada di pieno inverno, l’albero fiorisce completamente e il profumo intenso dei suoi fiori si sente a distanza di chilometri. I biologi hanno anche cercato di moltiplicarla o di riprodurre chimicamente il profumo, ma nessuno c’è mai riuscito. Questo è e sarà l’unico esemplare esistente sulla terra.»
«È una bella storia, non c’è che dire…»
«E non è tutto… il giorno in cui fiorisce si dice che a coloro che vengono qui e recitano una preghiera sono rimessi tutti i peccati… e non sono rari pure i miracoli.»

Gli venne in mente proprio questo racconto a Ferruccio quando l’anno successivo tornò per lo stesso seminario in quella stessa città. La data era slittata di qualche settimana sino a quasi combaciare con quella della commemorazione del Santo del giorno successivo. Decise allora di trattenersi.
La mattina dopo, nonostante si fosse alzato abbastanza presto, si accorse che la città era stata invasa da pellegrini. Non c’era modo di muoversi già subito all’uscita dell’albergo. Tutte le strade del centro e soprattutto quella che portava all’Albero del Santo erano gremite di persone che, in ginocchio, pregavano assorte in mezzo alla strada. Avrebbe voluto avvicinarsi di più per vedere la pianta in fiore di cui sentiva peraltro il profumo intenso, ma gli astanti lo avevano squadrato tutti molto male sicché dovette rinunciare. Si appoggiò a un muro e provò a pregare. Ma non era mai stato capace di farlo. Pregava infatti meccanicamente, senza convinzione, distraendosi di continuo. E poi quel mal di testa terribile non lo lasciava in pace.
«E tu ci credi davvero?» si sentì dire d’un tratto, dietro le spalle, con tono canzonatorio.
Ferruccio si voltò. Era un giovane, sui vent’anni, con piercing a una narice e un tatuaggio tribale che si inerpicava su per il collo prendendo parte del mento. Aveva un sguardo duro come di chi è abituato a sfidare tutti i giorni il mondo. Gli occhi erano intensi, penetranti e reclamavano una risposta. Ferruccio ci pensò su. La domanda era davvero importante se ne rese conto in quel momento. Se la ripeté in cuor suo alla ricerca di una risposta sincera. Trascorsero probabilmente alcuni minuti durante i quali non smise mai di fissare gli occhi del suo interlocutore.
«Sì» gli disse infine lui, deciso. «Assolutamente sì.»
Il ragazzo allora gli si avvicinò. Gli mise una mano sul capo. E il mal di testa sparì.
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Ex voto

Il dolore all’anca si stava riacutizzando. Ogni tanto una fitta lancinante lo scuoteva violentemente tanto da dover decelerare per non correre il rischio di perdere il controllo del mezzo. Arturo si rimproverò di aver dimenticato gli antidolorifici a casa: ma come poteva immaginare che il disturbo, dopo tanti giorni, sarebbe tornato? No, non avrebbe resistito a lungo. E dire che quella sarebbe stata anche una giornata di lavoro molto impegnativa… un bel guaio, pensò.
Al primo casello autostradale, uscì. Aveva bisogno di una farmacia. E la strada subito precipitò giù tra i fianchi stretti di una collina che pareva aprirsi all’ultimo momento al suo passaggio. Dopo una curva a gomito fu abbagliato dalla lucentezza del mare che dal verde azzurro della costa prendeva il blu cupo del cielo man mano che cercava di raggiungere vanamente l’orizzonte. Fece ancora alcune curve, da ottovolante, per poi ritrovarsi lungo un viale alberato che, senza altre deviazioni, lo condusse dritto dritto nella piazza del paese quasi fosse stato la pallina di un flipper. E lì c’era la farmacia. Sono fortunato, si disse.
Appena sceso dalla macchina vide sulla destra una costruzione molto particolare. Era avveniristica, colorata, avrebbe detto persino invitante. Si avvicinò incuriosito. Appena fu dentro capì che era una chiesa, anche se dell’edificio religioso aveva ben poco se non fosse stato per l’altare in legno massiccio al centro della sala circolare. L’atmosfera era intima, irreale, quasi magica. L’architetto aveva dato sfogo più alle sue fantasie che alle esigenze di praticità del luogo: le panche dei fedeli erano sistemate ad anfiteatro e vi erano pulpiti dalle linee stilistiche sorprendenti abbarbicati alle colonne a mo’ di nidi d’aquila, raggiungibili con scale a chiocciola incastonate nelle colonne collegate tra loro da ponti sospesi nel vuoto: un enorme presepio faceva bella mostra di sé pendendo a stalattite dal soffitto mentre le pareti erano formate da variopinte vetrate istoriate che cambiavano colore e forma ad ogni istante.
«Bello, vero?» si sentì chiedere alle spalle. Era un prete, con tanto di tonaca e un largo sorriso sul volto.
«Diciamo di sì, padre, diciamo che è molto suggestivo e anche piuttosto inusuale. Non ho mai visto nulla di simile. Sembra una chiesa del futuro.»
«È proprio così, sa? Ha indovinato.»
I due si guardarono ancora in giro, come per cogliere ulteriori particolari che confermassero quel giudizio.
«A chi è dedicata?» domandò Arturo.
«A San Teofrasio da Capaglossa.»
«Mai sentito…» ribatté lui senza pensarci; ma, accorgendosi della faccia del prete, aggiunse: «oh, mi scusi e che, dopo tutto, non sono granché come credente e…»
«Non si preoccupi, non c’è nulla di male… e poi… e poi non l’ha mai sentito nominare perché ancora non è nato!»
«Non ho capito» disse Arturo sbalordito.
«Invece ha capito benissimo. San Teofrasio da Capaglossa nascerà tra una trentina d’anni. Trentadue anni, tre mesi, ventiquattro giorni, nove ore e una manciata di minuti, per l’esattezza, com’è riportato, del resto, sul quel display». Siccome Arturo non accennava a chiudere la bocca il prete proseguì: «i Guglielmini Malpighi, una famiglia molto abbiente del posto, avevano fatto un voto: se la loro figliola fosse guarita dalla grave malattia che l’aveva colpita avrebbero fatto edificare una chiesa. La bambina poi guarì e al papà apparve in sogno Teofrasio che gli spiegò come doveva essere la chiesa, raccontandogli anche quella che sarebbe stata la sua prossima vita terrena e, soprattutto, i suoi miracoli, quelli già anticipati e quelli futuri. Che poi sono tutti quelli raffigurati sulle vetrate che può notare qui intorno.»
Arturo non riusciva a dir nulla.
«Non ci crede, vero?» lo incalzò il prete. «Lo posso capire… eppure quando è entrato qui aveva un’anca che le doleva molto e stava vistosamente zoppicando…»
Arturo si ricordò solo in quel momento la ragione per la quale aveva fatto sosta in quel paese; si guardò addosso come se l’assenza totale di quel dolore fosse un qualcosa di materiale che avesse realmente perso. Era vero: stava molto meglio e, per la verità, erano anche anni che non si sentiva così bene.
«Guardi, guardi bene su quella vetrata» fece il prete mostrandola alla sua destra: «c’è anche lei lassù…»

Contatto

Alfredo, il farmacista, me lo aveva chiesto per favore. E poi era di strada. No, non mi sarebbe dispiaciuto passare dalla signora Teresa per portarle la medicina. E inoltre non la vedevo da tempo. E così ci andai e quando mi aprì la porta, lo fece con sospetto, perché non mi aveva riconosciuto. Le ricordai chi ero e allora si allargò in un sorriso gioviale tanto da non finire più di abbracciarmi.
«Vieni, entra, che fai lì impalato?»
«Veramente devo scappare, si è fatto tardi…»
«Entra entra e falla finita che ti devo raccontare una cosa…» In pochi minuti mi fece sedere in poltrona, con una tisana al lampone in una mano e i suoi famosi biscotti frollati al cioccolato e cannella nell’altra. Stavo gustando quelle prelibatezze quando si avvicinò con la sedia e mi sussurrò: «Sai, io sono in contatto con Nostro Signore.» Io rimasi con il boccone incastrato tra i molari e la guancia cercando di capire se fosse stata una battuta. «Non fare così. E’ vero, ho novantadue anni, ma non sono rincitrullita come puoi pensare. Dico sul serio. Sono in contatto con Lui da almeno cinquant’anni. Non l’ho mai detto prima perché mi avrebbero fatto un mucchio di storie. Sai com’è la gente di paese. Non mi avrebbero più lasciato in pace. Avrebbero gridato al miracolo e avrei finito per avere la casa piena di preti, suore e pellegrini questuanti.» Mi squadrò per leggere sul volto quello che ne pensavo. Quindi continuò. «Lui comunica con me con quello stipetto…» e indicò un mobile basso con sopra due statuine di Lladrò.
«Comunica?» chiesi.
«Sì, fa apparire degli oggetti, delle cose. Una volta ci ho trovato un rospo che era il suo modo di annunciarmi che la grave siccità sarebbe presto finita e che dovevo quindi preparare le sementi. Un’altra volta ho trovato un guinzaglio per cani e infatti il mattino seguente c’era un bassottino sull’uscio; un’altra ancora c’era una fede nuziale, al che ho capito che avrei incontrato l’uomo della mia vita. Infatti ho conosciuto e sposato Orazio.»
«Beh, gentile…» fu tutto quello che di intelligente mi venne da osservare in quel momento.
«Però a esser sinceri dovrei dire ‘comunicava’, perché sono dodici anni che non mi dice più nulla» disse crucciandosi. «Vale a dire da quando mi sono separata da Orazio. Non sopportavo più quell’uomo. Era diventato geloso in modo insopportabile e ultimamente mi picchiava pure… Ma vieni che ti faccio vedere.» E, alzatasi dalla sedia, si diresse rapida verso il mobiletto. La seguii curioso. Da una catenina che le spariva nel vestito tirò fuori una chiave, la infilò nella serratura e aprì. «Vedi… ora è vuota» disse. E invece dentro c’era una falce. Io mi misi a guardare lei che guardava attonita la falce. Era diventata pallida, forse aveva smesso persino di respirare. «Questo è un pessimo segno» mi disse finalmente dopo un po’ girandosi verso di me. Chiuse le due antine con la chiave a doppia mandata e scrollò la testa agitando la bianca nuvola di capelli. «Vuol dire che il ‘mio’ momento è arrivato e che mi devo preparare…» Divenne seria e cominciò a spingermi verso l’uscita. «Scusami sai, non voglio essere scortese. Ma a questo punto ho un mucchio di cose da fare… e probabilmente non ho neppure tanto tempo.»
Prima di serrare la porta alle mie spalle sentii ancora che borbottava: «per prima cosa devo chiamare padre Terenzio, poi devo lasciare due righe a mia nipote…» Mi trovavo ancora sullo zerbino, frastornato da quanto era appena accaduto, quando Teresa riaprì. Mi prese delicatamente dalle mani la tazzina della tisana che mi ero dimenticato di posare, mi sorrise, e poi disse:
«Ora voglio che la tieni tu»  e mi diede la chiave dello stipetto.