Transizioni

«Da quanto tempo?»
L’uomo dapprima guardò il dottore incredulo e poi sbottò: «Ma non è possibile che mi si faccia sempre questa domanda. Io non lo so da quanto tempo; io queste cose me le dimentico, non me le segno, non ci bado. Come ieri quando il giornalaio, prima di vendermi la mia rivista preferita, mi ha chiesto con faccia seria da quanto tempo ero abbonato; ma che ne so? Dieci, vent’anni, che differenza fa? Sempre la rivista mi doveva vendere. E il negoziante da cui sabato ho comprato il fertilizzante per l’erba? La prima cosa che mi ha domandato è da quanto tempo ho quel tipo di prato erboso. L’erba sarà sempre quella, o no? Insomma: non lo so, va bene?, NON LO SO.»
«Si è sfogato?» gli chiese il medico armeggiando in una vetrinetta da dove prelevò lo sfigmomanometro.
«Sì… credo di sì…» fece Carlo guardando dalla finestra, già pentitosi per quella sfuriata. Nel parco della clinica l’estate era esplosa all’improvviso e le foglie sui rami degli alberi avevano preso una tonalità più scura perdendo il verde delicato dei primi giorni. Cominciava a fare caldo.
«Devo fare l’anamnesi e la sua risposta è importante. Perché mi può aiutare a capire che cos’ha…» gli disse calmo il medico traguardando il paziente da sopra gli occhiali da miope.
«Sì, scusi, ha ragione… è che sono molto nervoso in questi giorni: saranno sei mesi… non più di un anno.»
«È un po’ vago» concluse il dottore spingendosi bene sul naso gli occhiali «ma è meglio di niente» e si mise a scrivere.

Carlo poi risultò ammalato di un’affezione rara, fulminante. In pochi mesi passò a miglior vita, per fortuna senza soffrire troppo.

«Mi dica…» fece il tipo dietro a quella che sembrava una scrivania senza esserlo davvero.
«Non so, non saprei…» rispose Carlo standosene in piedi e volgendosi attorno imbarazzato. Aveva infatti la sensazione di essere completamente nudo.
«Desidera forse vedere qualcuno?»
«No, non penso di essere qui per questo motivo. Immagino piuttosto di essere morto e la prima persona che incontro è lei… perché lei è una persona, vero?»
«Morto?» fece sorpreso il tipo che ora si vedeva meglio sotto una luce che non si capiva da dove venisse: aveva una faccia strana che pareva cambiare forma a seconda della prospettiva. «Qui preferiamo usare la parola “pervenuto in transizione”.»
«E fa differenza? Sempre morto sono…»
«Fa molta differenza! Ci teniamo alla forma, qui, mica come ai piani bassi… Ma mi faccia controllare. Lei si chiama?»
«Carlo V.»
«Carlo G., Carlo L., Carlo T… ha detto Carlo V., vero?» disse compulsando un libro senza che lo fosse davvero.
«Sì…»
«Ed è morto… volevo dire “pervenuto in transizione”?»
«Già!»
«E da quanto tempo?»
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Codice giallo

Da qualche giorno il servizio era peggiorato. Per colpa dei lavori alla tranvia, il bus passava in modo discontinuo, senza rispettare gli orari. A volta si aspettava mezz’ora e anche più e poi si vedevano arrivare tre autobus, tutte assieme, della stessa linea.
Andrea stava passeggiando nervoso avanti e indietro nella piazzola oramai gremita di gente. Guardò l’orologio. Se avesse potuto immaginare quell’ennesimo ritardo avrebbe potuto trattenersi in ufficio: con quello che aveva da fare! Eppure, dando un’occhiata alla tangenziale, sembrava che la strada fosse libera. Un’ambulanza stava infatti procedendo spedita verso nord senza fare slalom o avere rallentamenti. Diede un calcio a un sassolino innocente. Si era ripromesso mille volte di usare, in alternativa, l’auto o la bicicletta o comprarsi addirittura un motorino, ma poi finiva sempre, per pigrizia, per riprendere l’autobus.
Intanto l’ambulanza, anziché procedere per lo svincolo, dopo aver percorso la rotonda dell’aeroporto, sbucò all’improvviso sul rettilineo. Il suono della sirena, amplificato dalla via stretta e dalle case addossate le une all’altra per farsi coraggio, arrivò come una sciabolata sulle orecchie degli astanti; le macchine si accostarono per l’imperiosità di quell’incedere che non ammetteva tentennamenti. Arrivata all’altezza della fermata, l’ambulanza sembrò voler accelerare quando all’improvviso si arrestò con uno stridio sgradevole di freni. Le portiere a scorrimento si aprirono di scatto e due infermieri, uno tozzo e nerboruto e l’altro allampanato e gli occhiali spessi, ne scesero con la rapidità di un commando. Fecero slittare la barella che rimbalzò sull’asfalto più volte; si misero a correre tirandosela dietro.
«Venga, si sdrai» ordinò l’uomo muscoloso fermandosi proprio davanti ad Andrea.
«Come dice?» fece lui sporgendosi un poco in avanti come se gli avessero chiesto un’indicazione assurda.
«Le ho detto, per cortesia, di sdraiarsi sulla lettiga, così possiamo ripartire…» ribadì l’uomo, con piglio gelido e risoluto, indicando l’evidenza del lettino davanti a lui. Il barelliere allampanato si guardava invece attorno, come si trovasse lì per caso e non volesse immischiarsi; la scena, quasi fosse quella di un noto telefilm di avventure, stava avvenendo ora sotto gli occhi attenti di tutte le persone in attesa.
«Guardi che ci deve essere un errore, io sto benissimo» rispose Andrea sulla difensiva agitandogli davanti il palmo aperto della mano per fermarne l’irruenza.
«Nessun errore: questa è via Torre degli Agli, 15, lei si chiama Andrea Tranquilli, dirigente, sui sessanta non portati benissimo; abita in centro, incarnato piuttosto pallido… nausea, lieve tachicardia, pressione alta… devo continuare?»
«Non sono affatto pallido e non ho la pressione alta… ma insomma mi lasci in pace…»
In quel mentre uscì dall’ambulanza una giovane donna, camice immacolato e stetoscopio attorno al collo. Sembrava avvicinarsi al rallentatore, i capelli ricci e bruni svolazzavano serici nell’aria, lo sguardo penetrante di una persona sicura di sé.
«Dottoressa, il paziente non vuole collaborare…» le fece l’infermiere nerboruto facendo un passo verso di lei. La donna si avvicinò e senza dire una parola controllò gli occhi di Andrea e gli sentì il polso.
«Non le gira la testa?» chiese con una voce calda e morbida.
«In effetti… forse un pochino, ma che c’entra, chi vi ha mandato?»
«Si segga un attimo qui, per favore» le disse lei accompagnandolo docilmente alla barella.
In un attimo gli sbottonarono la camicia sistemando ventose e fili che collegarono a uno scatolotto tempestato di spie luminose che ben presto partorì un lungo scontrino pieno di dati. La dottoressa lo visionò con attenzione e poi scosse la testa.
«Bisogna fare presto…» sentenziò guardando l’infermiere nerboruto. «Portatelo subito dentro.»
«Ma perché, cos’ho?» chiese Andrea con una voce che gli era uscita in falsetto.
«Non le si sta forse annebbiando la vista?» chiese la dottoressa con un tono che non pareva una domanda.
«Forse un po’…»
In un attimo l’ambulanza ingoiò Andrea e la barella e i due portelloni slittarono di lato chiudendosi con lo slancio di una trappola per orsi.
«Codice verde?» chiese l’allampanato rivolgendosi alla dottoressa da sopra le lenti fortemente graduate. «Il call center lo vuole sapere.»
«Macché verde… codice giallo, dica: c-o-d-i-c-e  g-i-a-l-l-o e facciamo presto, per carità.»
L’ambulanza schizzò in avanti con la sirena che dilaniò l’aria circostante. All’incrocio tirò dritto nonostante il semaforo rosso e una vecchietta sorda che avanzava sulle strisce pedonali con un treppiede.
Proprio mentre dal fondo della strada, lentamente, stavano arrivando tre autobus della stessa linea.

Sabbia

Era cominciato così, come capita un po’ a tutti. Non gli era venuto in mente come si chiamava una certa persona. Eppure c’era stato un periodo in cui l’aveva incontrata spesso. Sarà lo stress da lavoro, la stanchezza, aveva pensato. Passerà.
Poi accadde che iniziò a non ricordare le facce delle persone incontrate poco tempo prima e poi ancora dimenticò del tutto un avvenimento recente che lo aveva riguardato da vicino. Di lì a poco aveva preso a dimenticarsi delle parole comuni come gatto, albero, muro, tavolo e di quello che faceva mentre lo stava facendo. Si spaventò.
Il medico gli aveva fatto una visita completa, gli aveva disposto esami, prescritto cure e medicinali e poi… e poi aveva scosso la testa. Gli disse cosa sarebbe successo in futuro, in quale nebbia la sua mente sarebbe naufragata, come avrebbe vissuto.
No, non era pronto per tutto questo, si disse guardandosi dritto nello specchio. Non era pronto a veder sfaldare il proprio mondo, a dimenticarsi a poco a poco di tutto quello che aveva costruito giorno dopo giorno, a scordarsi dei suoi sogni, dei suoi pensieri, a guardarsi in quello stesso specchio e a non riconoscersi più.
Poi accadde qualcosa. Forse tentò di togliersi la vita. Difficile dirlo e ancora più difficile ricordarlo. L’unica cosa di cui però fu certo è che si risvegliò in un letto d’ospedale, in una stanza dalle luci soffuse, tra tubicini e macchine complicate che facevano beep in modo ritmico e fastidioso. La testa gli doleva. Ma anche tutto il corpo. Sì, stava male, molto male. Il respiro gli diventava sempre più corto a ogni istante e il cuore batteva tanto forte che sembrava volesse scegliere un altro petto in cui pulsare. Chiuse gli occhi proprio mentre il beep era diventato un suono sinistro e continuo.
Si ritrovò così nel bel mezzo di un deserto; i passi lenti e pesanti nella sabbia rossa; il caldo arroventato saliva a vampate sino al viso asciugandogli il sudore non appena affiorava alla pelle. Voleva bere, doveva bere. La collina che aveva appena scalato, come se avesse saputo dove stesse andando, pareva respingerlo a ogni passo e una volta arrivato fin lassù la distesa infinita di sabbia lo avvolse in un abbraccio. Alla sua sinistra, in basso, fuoriusciva qualcosa dalla sabbia. Forse era una pianta. Se l’avesse tagliata avrebbe potuto berne il succo. Scese velocemente, incespicando e ruzzolando, e quando si rialzò era già alla base dell’oggetto misterioso: no, non era un pianta, ma un parallelepipedo di metallo; svettava dalla sabbia verso il cielo incendiato di luce, di sbieco: era un frigo, in mezzo al deserto.
Si avventò sulla portiera a tirare la maniglia. Non si apriva. Si inginocchiò per scavare tutto intorno per poterla liberare dalla sabbia. Il frigo era freddo, ronzava come facesse le fusa: dentro ci dovevano essere per forza delle bevande fresche. Togliendo la sabbia tutt’attorno il frigo si reclinò per poi cadere e rotolare da un lato; il cavo elettrico che lo teneva acceso, sparendo in un punto non distante nella sabbia, lo trattenne. Scavò con foga, noncurante del caldo che lo soffocava, quindi si avventò nuovamente sulla maniglia: era bloccata, forse finanche chiusa a chiave. Cercò di forzare il portello inserendo le dita nell’apertura e poi ancora provò con la maniglia che alla fine si ruppe. Se ne rimase in piedi a guardare il moncone rimastogli in mano come a chiedersi di cosa si trattasse. Si mise a urlare.
«Si calmi, si calmi!»
Lui aprì gli occhi e l’infermiera gli sorrise. «Ora che sta un po’ meglio, non mi faccia però così…» gli disse con aria di finto rimprovero. Lui si guardò attorno. Non rispose.
«Lei è un po’ disordinato, lo sa?» fece la donna prelevando solerte alcuni oggetti che si trovavano sul comodino. Aprì l’armadietto di fronte al letto e li ripose con cura. «Ieri mi è andato in arresto cardiocircolatorio. Pensavamo di averla persa. Poi, per fortuna, ha deciso di rimanere con noi…» Sorrise di nuovo.
«Di rimanere con voi…» ripeté lui, dopo un po’.
«Però una cosa deve proprio spiegarmela» disse lei con un tono tra il simpatico e il serio. «Come mai le sue scarpe nell’armadietto sono così piene di sabbia?»


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La diagnosi precoce

La donna prelevava dallo scaffale del bancofrigo, uno dopo l’altro, vasetti di yogurt. Leggeva la marca o la composizione o la scadenza o tutte e tre le cose insieme e poi li posava. Era una donna molto bella, alta, mora, con lineamenti fini e aggraziati, e incinta. Il carrello della spesa era ancora semivuoto e lei sembrava non sapere cosa comprare. Il marito, anche lui alto e dalle fattezze dolci e forti, era poco distante, intento a scegliersi dei biscotti per la colazione. L’ultimo vasetto che la donna controllò lo mise a posto sbattendolo infastidita sul ripiano. A pochi metri da lei un uomo in loden verde, canuto nei capelli e dai simpatici baffoni folti, la stava fissando intensamente. La donna si voltò nella sua direzione con una espressione visibilmente scocciata.
«Sono due gemelli, vero?» principiò l’uomo indicando la pancia della signora.
«Sì, e allora?»
«Direi che lei è di venticinque settimane. I gemellini saranno un maschietto e una femminuccia… La bambina è un po’ più piccola, ma è robusta e intraprendente per cui uscirà per prima, mentre il bambino avrà inizialmente il cordone ombelicale attorno al braccio, ma con una semplice manovra di routine se ne libererà facilmente» fece l’uomo, soddisfatto della sua diagnosi.
La donna aggrottò la fronte. «Come fa a saperlo, scusi…?»
«Permetta che mi presenti» esclamò lui battendo leggermente i tacchi. «Sono il Prof. Otello Biancamano e sono il Primario del reparto di ginecologia della clinica Santa Rosa, sa, quella sulla collina. Vedrà, anche se lei è primipara, avrà un parto eutocico con un travaglio nei limiti della norma.»
La donna aveva abbandonato l’atteggiamento difensivo, la fronte e la postura apparivano ora rilassate.
«No, perché, effettivamente, un po’ preoccupata lo sono» fece sospirando appena. «Ma lei ha capito tutte queste cose solo guardandomi?»
«Certo, signora, è il mio mestiere da quarant’anni… Ma le assicuro, non avrà nessun problema, l’alveo è ampio e non ci sono ostacoli fisici congeniti: se dovesse ricoverarsi da noi chieda pure di me, sarò lieto di esserle utile» e le allungò un biglietto da visita. La donna lo lesse con attenzione proprio mentre l’uomo, fattosi così vicino da sentire il suo profumo, le sussurrò«Lei lo sa che il maschietto è bianco e la bambina di colore, vero?»
La donna ebbe un sussulto e impallidì. Si morse le labbra e sgranò gli occhi fissando un punto indefinito tra le proprie costose scarpe. Il Primario, nel frattempo, le aveva già fatto un lieve inchino e se ne era andato.
«Chi era quel tizio, cara?» le chiese il marito mettendo un pacchetto di biscotti nel carrello.
La donna non rispose. Poi disse:
«Uno… che credeva di conoscermi» e, preso il carrello, cominciò ad avviarsi seguita dal marito. Fece alcuni passi, quindi si fermò.
«Tesoro» fece la moglie quasi tra sé e sé «ti devo parlare…»

La macchia opaca

La ragazza era a cavallo della bicicletta, le mani sul manubrio e un piede a terra. Era pallida, le labbra sottili ed esangui.
«Cosa è successo? Dimmi!»
Il ragazzo guardava di lato, l’espressione indecifrabile. Poi si girò verso di lei.
«Ti ricordi quando la settimana scorsa mi hai accompagnato a fare la lastra per questa tosse che non mi passa?»
«Sì» fece lei in modo impercettibile.
Lui sembrava cercare le parole giuste che non venivano, si morse le unghie.
«Mi hanno trovato un brutto male… parto domani… anziché tornamene a casa, andrò a Berna. I miei hanno un buon amico là, un oncologo, mi ricovereranno per ulteriori accertamenti».
La ragazza scoppiò a piangere mettendosi una mano di traverso sulla faccia. Singhiozzava così forte che pareva doversi soffocare da un momento all’altro. Lui era impietrito. Avrebbe voluto confortarla, ma si trattenne.
«Voglio che ci lasciamo così…» fece lui conclusivo.
«Ma io…» disse lei tra le lacrime che gocciolavano sulla t-shirt.
«No, Anna… è meglio, lo preferisco» la zittì asciutto con le parole che gli uscivano a scatti. «Anche se è durato solo un mese d’estate, ci siamo amati più di quanto fosse per me immaginabile. Sei una persona stupenda. Sarà bello portare il tuo ricordo dentro di me». Si girò per allontanarsi. Tossì.
«Umberto… No! Ti supplico».
«Voglio rimanere solo» fece lui voltandosi risoluto. Poi recuperando le tonalità della dolcezza: «Sono io che ti prego, devo farcela da solo». Lei scoppiò nuovamente a piangere. Il ragazzo riprese a camminare sorridendo dentro di sé per come fosse stato facile. Lei l’avrebbe lasciato finalmente in pace con tutti i suoi mi ami?, staremo sempre insieme?, senza di te non posso più vivere. Negli ultimi giorni aveva cercato di scrollarsela di dosso, ma lei aveva sempre fatto finta di non capire. Ora il colpo di genio.

Nello stesso istante, una ventina di chilometri più lontano, in una stanza bianca dietro ad una scrivania semisepolta da documenti sparsi un uomo stava scrivendo. Quando entrò il collega, lui alzò lo sguardo.
«È questa che volevi farmi vedere?» si sentì chiedere per la lastra davanti a sé. Annuì. Il medico dai capelli brizzolati, ma dalle ciglia bianchissime esaminò con cura il referto:
«Uhmm… Hai proprio ragione… è… è… Sì, lo so. Non mi dire nulla, dispiace sempre quando sono così giovani… E’ questo qui il numero di telefono di quel ragazzo? Poverino, mi stava pure simpatico… Va bene, ci penso io, lo chiamo subito».