Sator

Quando, scendendo in cantina, inciampò sul sesto gradino della scala, si ritrovò a ruzzolare come un sacco dell’immondizia, persino con la stessa eleganza e agilità. Se ne ristette supino sul pavimento per qualche minuto, giusto per vedere il soffitto volteggiare. Era dolorante e temeva di essersi rotto qualche osso. La sua solita distrazione, pensò. Non badava mai a dove metteva i piedi, e quello era risultato. Si tirò su a fatica, lentamente. L’età avanzata ci stava mettendo del suo per farlo sentire anche peggio, e il morale non era da meno. Era piuttosto confuso. Tanto che non riusciva neppure più a ricordare perché fosse sceso là sotto. Si girò più volte su sé stesso per farsi tornare in mente perché fosse arrivato sin lì. Stava proprio perdendo il capo. Fece spallucce. Prima o poi se ne sarebbe ricordato. Decise di tornare su e farsi un buon caffè, che magari aggiustava tutto.
Passò in vista del sesto gradino e si accorse che era inciampato su un’asse che si era parzialmente scollata. Dovrò farla mettere a posto, si disse, mentre cercava di rimetterla in sede. Ma si accorse subito che sotto quel pezzo di legno c’era un piccolo vano. Guardò meglio. C’era un libretto al suo interno. Non ci poteva credere. Era appartenuto a suo padre; proprio ciò che aveva sempre cercato: un libretto su cui, da mago dilettante piuttosto bravo qual era stato, aveva annotato tutte le sue magie. Gli aveva detto che glielo avrebbe passato quando sarebbe stato il momento, ma poi era morto all’improvviso in quel maledetto incidente e non c’era stato più verso di ritrovarlo. Anche perché lui, nel frattempo, era diventato un prestigiatore di professione e gli avrebbe fatto comodo averlo.
Emozionato si mise a leggere. La grafia del padre lo commuoveva. Aveva descritto in modo accurato ogni numero praticato e ogni tentativo per realizzarlo. Alcune magie le conosceva già, altre erano piuttosto ingenue o solo abbozzate. Ma poi ne trovò una che attirò la sua attenzione. Il padre l’aveva chiamata “Sator“. Richiedeva attenzione e cautela per la sua particolare pericolosità. C’era scritto.
Forse era arrivato il momento del suo riscatto. Pensò. Dopo essere stato in auge per alcuni decenni, con passaggi importanti anche in televisione dove era riuscito addirittura ad avere una sua rubrica, era infatti da tempo in declino. Aveva avuto alcuni terribili flop che avevano severamente offuscato la sua immagine. Era accaduto per esempio che, a una serata importante, nell’inserirsi uno stiletto tra le guance, aveva preso a sanguinare in modo copioso finendo in ospedale. Un’altra volta, nel tentativo di attraversare a piedi nudi un tappeto di tizzoni ardenti si era gravemente ustionato. Un’altra volta ancora non era riuscito a liberarsi dalle catene che gli legavano le mani. E avevano dovuto rompere la vasca di vetro per far uscire l’acqua in cui era immerso. Ma non era del tutto colpa sua. Almeno così lui se le era raccontata. I fallimenti erano dovuti sempre allo stesso motivo: alla perdita improvvisa di concentrazione. Per l’età avanzata, probabilmente che lo aveva reso non più totalmente lucido. Ma non poteva ritirarsi, non voleva davvero farlo. Voleva anzi ritornare grande, essere ricordato per qualcosa di memorabile, e adesso poteva rifarsi. Sì, sarebbe stato rischioso, ma ne sarebbe valsa la pena. E l’effetto di “Sator” prometteva di essere strabiliante. Recitando la giusta formula sarebbe riuscito infatti a diventare estremamente piccolo dando così l’illusione a tutti di sparire alla vista per poi ricomparire declamando la formula inversa. Chissà dove l’aveva scovata suo padre!
Si mise al lavoro. Si impratichì, provando e riprovando la magia finché non venne perfetta. E quando fu pronto, organizzò un happening sulla piazza principale della città. Sarebbe stato un evento organizzato senza tanto clamore. Lui era conosciuto e avrebbe radunato spontaneamente diverse persone, turisti compresi. E poi il conseguente tam-tam sui social, dove sarebbero stati scaricati i video degli immancabili cellulari, avrebbe fatto il resto restituendogli a poco a poco la fama che si meritava. Se lo sentiva: sarebbe stato un successone.
Attirato un discreto pubblico, creò ad arte l’attesa per il gran finale e poi, d’un tratto, fece il suo numero sparendo sotto l’occhio di tutti. La gente era rimasta stupefatta e a bocca aperta. Lui, come da copione, era diventato alto poco più di tre centimetri e nessuno riusciva più a vederlo. Era una sensazione bellissima essere tornato un grande.
Il problema però è che si accorse di trovarsi su una mensola della facciata della cattedrale, poco distante, e a venti metri di altezza dove tirava, oltretutto, un vento molto forte. Come ci era finito? Forse la magia all’aperto aveva effetti diversi. Non ci aveva pensato. E poi com’era la formula inversa per tornare ad altezza naturale? Era sicuro di averla imparata bene. Perché continuava ad avere quei vuoti di memoria?
Poi, all’improvviso, intravide un enorme corvo avvicinarsi minaccioso.

Il Mago girovago

Sembrava volersi nascondere: il libro, un paperback vissuto dall’aria trasandata, era rimasto sotto una pila di libri d’arte più voluminosi. Quando Gualtiero lo intravide ne apprezzò subito la particolarità: era un lavoro di un certo Thomas Swann, un autore gallese che non conosceva; tuttavia il titolo, d’istinto, lo intrigava lo stesso, così come la copertina misteriosa. “Maria e il Mago” si intitolava, e prometteva bene. Pagò in fretta l’omino seminascosto dalla enorme bancarella che lo sovrastava pregustando il momento in cui l’avrebbe letto.
Scoprì che narrava di un commerciante inglese che, per le vacanze estive, si era recato con la sua famiglia in un villaggio turistico del Sud Italia dove, in una calda serata di agosto, si era presentato, apparentemente non invitato, un Mago girovago che nel corso della sua non breve esibizione, aveva eseguito numeri stravaganti che avevano destato interesse tra il pubblico ma anche reazioni piuttosto controverse. Il Mago, dall’aria luciferina e inquietante, si era messo infatti, dapprincipio, a litigare con un ragazzo del posto che lo aveva, a suo dire, offeso, e poi, dopo averlo ipnotizzato a distanza, lo aveva costretto a ripetere per tutta la serata il verso della gallina suscitando l’ilarità ma anche lo sconcerto generale. Il Mago, che ogni tanto si lasciava andare a una risata squillante che dava i brividi, aveva anche fatto in modo che un gruppo di persone, scelte a caso tra il pubblico seduto ai tavoli per cenare, si alzasse e si mettesse a ballare una musica che solo loro potevano sentire. Aveva persino usato un uomo di mezz’età come panchina dopo averlo irrigidito come un asse da stiro tra due sedie; infine, aveva reso ridicola, facendo commenti sconci, la cameriera del locale, una certa Maria, cui aveva fatto rivelare nei minimi particolari, sempre sotto ipnosi, cosa avesse fatto quel giorno stesso da quando si era alzata la mattina. Ed è a questo punto che Gualtiero ebbe un sussulto. Ma certo! Maria! L’aveva conosciuta tre anni prima a Ginepri, proprio ad agosto. L’aveva incontrata per caso alla fontanella della piazza e avevano passato, ridendo e scherzando, una giornata indimenticabile fino a quanto, prima di cena, era sparita senza lasciarle un recapito e con esso la possibilità di rivedersi. Gli aveva detto, andandosene, che per caso si erano incontrati e per caso, se fosse stato vero amore, si sarebbero messi insieme.
Gualtiero, che non si era comunque dato affatto per vinto, aveva trascorso gli ultimi due giorni del suo soggiorno a cercarla per ogni dove per incontrarla nuovamente, “per caso”, senza però riuscirci. E ora quella ragazza era descritta così bene nel libro che sembrava fotografata: bruna, ventenne, minuta, un piccolo neo sul naso, un sorriso stordente e il colore del mare negli occhi; lei gli aveva anche detto di chiamarsi Maria, come il personaggio del romanzo, e che faceva la cameriera in un locale, come nel libro, anche se lui proprio non ci aveva pensato di cercarla sull’isola vicina dove c’era quel famoso piano bar descritto da Swann. Ma quel che c’era di davvero incredibile era che il Mago, facendo confessare alla ragazza cosa avesse fatto quel giorno, le aveva fatto raccontare, passo dopo passo, tutta la giornata trascorsa con lui.
Gualtiero capì allora che doveva partire. Sì, doveva assolutamente tornare in quei luoghi. Ora sapeva dove cercarla o quanto meno sapeva dove avrebbe potuto ottenere informazioni. Doveva ritrovarla: il caso si era ripresentato anche se sotto forma di un libro.

Quando arrivò ad Onèsti trovò subito il locale. Era esattamente come descritto nel libro. Ora che era lì il cuore gli batteva forte. Forse era una pazzia, dopo tanto tempo. Lei poteva averlo dimenticato o non volerne più sapere di lui. Ma si fece coraggio ed entrò.
Parlò con la proprietaria, una donna corposa ma simpatica che lo ascoltò con attenzione.
No, non c’era mai stata una ragazza simile al suo servizio, gli disse subito, se lo sarebbe ricordato, e soprattutto non c’era mai stato un mago, tre anni prima, che si fosse esibito nel suo locale.
«Ma no, signora, non è possibile è tutto scritto minuziosamente qui, in questo libro: è impossibile che ci possa essere un errore.»
La donna gli chiese di vedere il libro che si era portato dietro.
«Sì sì, eccolo…» fece lui pieno di speranza.
Lei lo sfogliò attentamente, poi lo abbassò scuotendo la testa.
«Guardi che questo libro è stato scritto nel 1915. Esattamente cent’anni fa.»
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L’armata invincibile

Quando apparve sulla sponda del fiume aveva un’aria trasandata e goffa. Nessuno avrebbe potuto credere che fosse un Mago potente, che parlava con gli Angeli Buoni e quelli Maligni con la stessa naturalezza e semplicità con cui avrebbe potuto parlare con te ti avesse incontrato un giorno per via. Aveva con sé il suo asino, mal in arnese, che molti dicevano essere stato il suo Maestro stregone; aveva imparato da lui ogni arte magica e raffinato sortilegio ma non aveva esitato a tramutarlo in un ciuco una volta partorita l’insensata idea di diventare per sempre l’unico uomo davvero sapiente su questa terra. E ora il Mago si trovava al grande fiume a guardar fiero le terre lontane, oltre l’orizzonte, oltre il tempo presente.
«Togliti da sopravento, pezzente» gli comandò il Cavaliere facendo scalpitare lo stallone sulla terra umida. «Mandi un fetore che toglie il respiro…»
Il Mago trasalì e si girò a guardarlo stupito. Il Cavaliere, al di là del corso d’acqua, era maestoso, imponente, la luce del sole faceva brillare gli schinieri lucidi tramutandoli in metallo prezioso. Il Mago si avvicinò:
«Perché m’insulti, mio nobile Cavaliere? Sono un uomo pacifico e non faccio male a nessuno…»
«Invece sì: dai noia al mio naso delicato e mi fai ombra… vattene o dovrai assaggiare il mio dardo…» disse mostrando la balestra.
«Il vento e il sole sono dietro le tue spalle, non posso arrecarti nessun disturbo, Signore; ma nonostante ciò ubbidirò ugualmente al tuo volere: me ne sto già andando, vedi? Ho preso la strada del ritorno. Sono sulla mia terra e attraverso la mia terra subito me ne andrò.»
«Villano d’un bifolco, mi stai dando forse del bugiardo? Come osi?» e rapidamente gli scagliò contro un dardo che solo perché il Mago mosse la testa all’ultimo istante gli strappò via solo un orecchio.
A quel punto il Mago, indispettito e sanguinante, compreso che il Cavaliere non l’avrebbe mai lasciato andar via vivo, batté per tre volte con il suo bastone la terra e dichiarò con voce poderosa: «Tra una settimana tornerò qui con un’armata potentissima e condurrò a morte chiunque mi si parrà innanzi. Porterò distruzione, desolazione e sterminio. Dillo al tuo Re: ha una settimana di tempo per abbandonare le sue ricche terre.»
Il Cavaliere frenò il cavallo quasi avesse voluto di sua iniziativa saltare il fiume da sponda a sponda, proprio in quel punto in cui le onde gonfiavano l’alveo per più di cinquanta piedi. Quella voce così inaspettata e così antica scosse però il Cavaliere nel profondo, come avesse intorbidito d’un tratto la sentina dimenticata dei suoi incubi più cupi. E senza aggiunger nulla, abbassò la visiera dell’elmo, girò il cavallo e lo lanciò al galoppo.
Dopo sette giorni esatti, il Mago tornò su quella stessa riva. Davanti a lui, a perdita d’occhio, migliaia e migliaia di fanti, cavalieri e arcieri, schierati in ordine di battaglia, con complicate e costose macchine di guerra: fremevano di gloria all’ombra di vessilli e porta insegne sgargianti.
«Dov’è il tuo temibile esercito, pezzente?» lo schernì il Cavaliere vedendolo da solo. Il Mago smontò dall’asino e avvicinandosi alla riva adagiò davanti a sé un ramo di frassino affidandolo alle acque. Il Cavaliere che non riusciva a capire cosa stesse accadendo scese a sua volta dal suo superbo lusitano. C’era qualcosa che si muoveva sul ramo approssimandosi sempre di più a lui, ma non era in grado di distinguere meglio. Quando il pezzo di legno gli fu finalmente accanto vide agitarsi su di esso un piccolo roditore che subito balzò tra l’erba scappando tra le gambe degli arcieri. I militari, a quel punto, assistita a quella scena buffa, si misero a ridere sguiatamente facendo battute salaci. Alcuni addirittura lanciarono picche e frecce nel tentativo di colpire la povera bestiola senza però riuscirvi.
«È questo tutto quello che sai fare, meschino? Sarebbe questo topolino la tua armata invincibile?» domandò arrogante il Cavaliere montando nuovamente a cavallo con un balzo.
«Quel ratto apparentemente innocuo sarà la causa della vostra perdizione» sentenziò il Mago voltando le spalle. «Correndo fra di voi sta già seminando morte e disperazione. Voi ancora non conoscete questa nuova sciagura che sta per annientarvi, ma ben presto imparerete a chiamarla con il suo vero nome: è peste nera, miei miserabili, una malattia feroce e terrificante che quel topo vi ha appena trasmesso. Quando tornerò, di voi non rimarrà che un pallido ricordo.»

La Maga Olga

La Maga Olga ispezionava con attenzione la sua scatola magica cercando di capire cosa mai non stesse funzionando quel giorno. Accese anche la lampada sulla sua scrivania a vincere la semioscurità che tanto contribuiva a creare quell’atmosferica esoterica di cui di solito si circondava durante le sedute medianiche. Tutto sembrava a posto. Persino il diapason, che aveva davanti, si metteva a vibrare ogni volta che apriva la scatola, segno questo che la porta della divinazione era aperta. ‘Un bel problema’ pensò lei con fastidio dando un’occhiata di sfuggita all’orologio ‘rompersi proprio oggi che viene la signora Valdobrandini’.
«La cliente delle 10 è già qui…» le annunciò in tono sommesso la segretaria quasi a sottolineare la drammatica circostanza.
«La faccia accomodare» disse di rimando la Maga richiudendo la scatola e la luce.
Una signora bionda, sui sessant’anni, i capelli cotonati ed una pelliccia di visone che lasciava intravedere un décolleté illuminato da tre file di perle, entrò con incedere trionfale come si aspettasse gli applausi o l’ovazione di un pubblico nascosto nella penombra.
«Si accomodi, si accomodi» fece la Maga alla donna che si era già seduta senza neppure salutare.
«Devo sapere… come le ho già spiegato per telefono…» esordì la signora d’un fiato. «Devo prendere delle importanti decisioni per cui è assolutamente indispensabile che io sappia come si evolverà quella situazione… non bado a spese.»
La Maga impallidì. Dischiuse lentamente la scatola, più per abitudine che per convinzione, come se si aspettasse che ogni cosa fosse andata d’incanto al suo posto. Sul fondo apparve dapprima il solito fondo azzurro striato di bianco, ad illuderla di un corretto funzionamento, ma poi diventò di uno sconcertante nero pece, come era accaduto del resto anche per gli altri clienti di quella mattina. Quel giorno non sarebbe stato davvero possibile predire il futuro.
«Dovremo fare un’altra volta» concluse la Maga cercando di non incrociare, per l’imbarazzo, gli occhi della signora.
«Come sarebbe a dire? Io ho preso un appuntamento. Lei mi deve spiegare… la pago, cosa crede?» fece quella con arroganza.
«E che non mi sento tanto bene… questa volta non posso esserle utile in nessun modo. Quando sono così non percepisco nessuna vibrazione.»
La signora si chiuse il visone sul seno appassito e, facendo una smorfia che esprimeva disgusto, si alzò di scatto.
«Non mi vedrà mai più» fece in un soffio prima di andarsene.
La Maga Olga si distese sulla schienale della poltrona socchiudendo gli occhi. Si sentì addosso tutto il peso dei suoi anni. Prese poi il telefono. Il Maestro Hannubi, suo mentore e guida, avrebbe potuto aiutarla, anche perché si stava insinuando nella sua mente l’idea di aver perso i poteri.
«È successo anche a me oggi, Olga» le disse subito il Maestro con un filo di voce.
«Anche a te? Ma allora cosa può essere accaduto? È davvero possibile che abbiamo perso le nostre capacità così, all’improvviso?»
«Ma no! Non capisci? Non possiamo predire il futuro perché i nostri clienti non hanno più un futuro. E neppure noi. Nessuno l’avrà più. L’umanità non avrà un domani e sarà spazzata via dalla faccia della terra. Non c’è più nulla da fare, Olga. È la fine.»