L’ultima stanza

stanzaAveva fatto più tardi del previsto: controllò l’orologio del cruscotto e capì che non sarebbe riuscito ad arrivare a casa se non alle prime luci del mattino. Inserì la freccia di direzione e uscì dal casello dell’autostrada alla ricerca di una sistemazione per la notte.
Girò un po’ alla cieca e, dopo qualche chilometro e un paio di paesini cresciuti disordinatamente sulla strada, accese il navigatore che lo indirizzò verso un viottolo che altrimenti non avrebbe mai percorso. Il sole era già sparito dietro le colline rugginose e le ombre si scioglievano nella prima oscurità; quando arrivò sul piazzale ghiaioso di una bella locanda si sentì sollevato.
L’ingresso era chiuso chiave. Tirò la corda di una campanella che suonò nella casa con un accenno di eco. Dopo qualche minuto, una donna dal volto tirato e dagli occhi gonfi e arrossati, aprì.
«Vorrei una camera solo per questa notte…» fece Tobia, incerto, come se quella fosse stata una domanda che, in realtà, stava rivolgendo a se stesso.
«Mi dispiace, siamo al completo, non ha visto il cartello?» rispose lei secca cercando di richiudere.
«No, aspetti» fu pronto a dire Tobia trattenendo il battente. «Mi accontento di una sistemazione qualsiasi. Anche di un divano. E non cenerò neppure, darò il minor fastidio possibile.»
«Non è questo il problema, è che c’è la Sagra annuale della trota fario…» disse la donna come se quella dovesse essere una risposta definitiva.
«Non mi costringa a guidare tutta la notte per tornare a casa, la prego. Sono troppo stanco» fece lui con un tono che suonò fin troppo supplichevole. Lei lo guardò per qualche istante chiedendosi da dove venisse.
«E va bene entri, vedo cosa si può fare, ma non le garantisco proprio nulla. Si segga lì, per favore, vado a chiedere» e indicò una poltroncina e due sedie di vimini davanti al desk della locanda. La donna sparì al piano superiore. Si sentì parlottare. Ogni tanto la voce di un uomo sovrastava le altre. Sembrava arrabbiato. Gli arrivarono, a ondate, mezze frasi dal tono trattenuto; tra le altre: ‘abbiamo bisogno di soldi’ e forse anche ‘ma allora che facciamo?’ Seguì un lungo silenzio e poi un rumore di passi precipitosi sui gradini di legno. Era una bambina bionda, ben vestita. Arrivata all’altezza del desk guardò l’ospite con aria di rimprovero. Poi scoppiò a piangere rifugiandosi nella stanza vicina e sbattendo la porta. Tobia si alzò. Era imbarazzato. La sua presenza in luogo, per un qualche motivo che non capiva, creava dei problemi. Non sapeva se andarsene oppure no. Il pensiero di doversi rimettere alla guida lo fece però sedere nuovamente. Seguirono altri rumori confusi. Dopo un intervallo infinito di tempo la donna che gli aveva aperto la porta scese lentamente le scale.
«Mi chiamo Matelda» fece lei allungandogli una mano gelida. «Mi segua… non ha con sé un bagaglio?»
«No, come le ho detto, mi fermo solo per questa notte. Non pensavo di dormire fuori.»
«Capisco.»
«Vuole che le lasci i miei documenti?» chiese Tobia efficiente.
«No, non c’è fretta, facciamo tutto domattina, con comodo.»
La stanza era gradevole, ben arredata, linda. L’aria era però fredda. Probabilmente avevano aperto la finestra per rifare la camera. La donna aspettò che Tobia prendesse confidenza con l’ambiente, quindi gli consegnò le chiavi e uscì. Appena fu solo, la prima tentazione fu di buttarsi sul letto, vestito. Si sarebbe addormentato immediatamente. Andò invece in bagno per rimettersi in sesto. Quando tornò in stanza, ebbe di nuovo la stessa sensazione di quando era entrato: c’era uno strano odore lì dentro. Cercò di non pensarci. Si mise a sedere sul letto. Rifletté su quanto avrebbe dovuto fare l’indomani. Se fosse partito presto avrebbe potuto recuperare il tempo perduto. Controllò il cellulare. Mise la sveglia. Poi si rialzò. L’odore si stava facendo sempre più forte. Difficile dire di cosa si trattava. Forse proveniva dalla cucina da basso o forse dallo scarico del bagno. Poi pensò d’un tratto, chissà perché, a un topo morto. Si mise a cercarlo, come se fosse davvero possibile che in una stanza così curata ci fosse una cosa simile. Cercò dentro e sopra all’armadio, sulle travi del soffitto, dietro alle tende. Nulla. Si chinò sul pavimento e alzò le coperte del letto. C’era un morto, là sotto. Vestito come lo possono essere i defunti il giorno del loro funerale; il naso era affilato, la carnagione bruna, tra le mani un rosario.
In quel mentre entrò Matelda. Forse aveva persino bussato.
«Volevo chiederle se davvero non vuole mangiare nulla…» disse cercando l’ospite in piedi da qualche parte nella stanza: lo vide in ginocchio che stava ispezionando sotto il letto. Impallidì; l’uomo, invece, la guardò sgomento.
«È venuto a mancare questa mattina presto» cercò lei di spiegare con la voce che le tremava. «È mio padre ed è morto proprio in quel letto. Io glielo avevo detto che eravamo al completo, ma lei non ha voluto sentir ragione e ha insistito per volere la camera; e questa era l’unica disponibile.»
Tobia non riusciva a trovare le parole. Si lasciò solo andare seduto sul pavimento di pietra, prendendosi la testa tra le mani.
«Però» aggiunse la donna accennando a un sorriso «abbiamo cambiato le lenzuola.»
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