Va tutto bene

Aprì il coperchio del portatile. Rimase per qualche secondo con le dita alzate a pochi centimetri dalla tastiera e poi iniziò:

«Mia carissima amica, mi hai chiesto nella precedente tua come stavo… Ebbene sono molto titubante a risponderti. Non si sa mai cosa rispondere. È difficile spiegare ed è ancora più difficile comprendere. È che sto attraversando un periodo malinconico della mia vita, dove sto perdendo, ogni giorno di più, il contatto con la realtà. Sto diventando intollerante, mi infastidisco per un nonnulla, sto diventando un nervo scoperto dove l’unica alternativa nell’immediato sembra essere quella di isolarmi. E tutto questo nella assoluta indifferenza di chi mi circonda. Ma non desidero starmene per conto mio, anche se la solitudine ha una attrattiva ipnotizzante. No, no voglio perché so che è una strada senza ritorno e senza svolte. E allora cerco di essere particolarmente gentile e simpatico con le persone in modo che le persone siano contente di stare con me, mi cerchino, mi coinvolgano in quello che fanno, ma non è così, nessuno mi chiama, nessuno mi scrive. È sempre di più allora il tempo che passo seduto sulla poltrona a immergermi nei miei pensieri, a galleggiare sulle mie stesse idee e sui ricordi, sulle cose non dette o non fatte, sui sorrisi dimenticati, sui flash in bianco e nero. Sto anche perdendo interesse nel lavoro, nelle persone che dovrei amare. Mi sembrano ombre vuote che si aggirano per la casa, ognuno con un suo problema, pronte solo a prendere e mai a dare. La verità è che la mia giornata ha cessato di essere una linea retta per diventare un cerchio dove tutto si ripete con incessante monotonia, cui peraltro mi è sempre più penoso ribellarmi. E poi ho sempre la sensazione di avere la febbre. Mi porto nel taschino della giacca il termometro elettronico. Me la controllo di frequente, ma non ho nulla, la temperatura è normale. Vorrà dire che sto bene e che non è un male fisico, capisci?»

Avrebbe voluto scriverle tanto altro, ma non voleva spaventarla. Non c’è niente di più opprimente di un uomo che cerca di sfogarsi. Ce n’era comunque abbastanza per incuriosirla. Quando inviò la mail provò un senso piacevole di conforto. Si chiese anzi perché aveva avuto tante remore ad aprirsi, con lei poi: avrebbe dovuto farlo molto tempo prima. Andò a preparsi un caffè, ci mise due cucchiaini di zucchero in sovrappiù: gli avrebbero dato un po’ di tono. Tornò alla scrivania, lei gli aveva già risposto:

«Tutto a posto, allora… bene, sono proprio contenta. Bacio grande, ci sentiamo presto».

Pensieri di cartone

 

Entrò in macchina e si aggiustò il sedile. Poi lo mosse nuovamente in avanti e quindi indietro per incastrarlo nella posizione originaria. Fece per togliersi il cappello, ma ci ripensò. La moglie intanto gli si era seduta sul sedile accanto, con la borsa sulla gonna, chiedendosi perché mai non avviasse il motore. L’uomo si mise invece a stringere il volante fino a farsi diventar bianche le dita, lo sguardo fisso dinanzi a sé come se la macchina fosse già nel traffico e non parcheggiata ancora sotto casa.
«È che a volte quando mi sveglio mi sembra di avere un altro me stesso sulle spalle» esordì lui con voce atona e lo sguardo fisso in avanti. «Mi sembra che la vita non abbia più bisogno di me, che scorra ignorandomi per questa mia mediocrità che mi trascino da sempre come una compagna senza illusioni. E il mio corpo… il mio corpo sta appassendo… mi duole la spalla, il ginocchio, le mani, ma soprattutto mi feriscono i miei pensieri che si mettono di traverso come ostacoli da saltare. E sono sempre di più… più ingombranti, indisciplinati, arroganti e io non ce la faccio, non ce la posso più fare…».
La moglie aveva ruotato di qualche grado il busto verso di lui, raccogliendo sul grembo una mano dentro l’altra quasi avesse voluto applaudire; in realtà era la sua solita postura di ascolto mille volte sperimentata con successo con i suoi alunni.
«E la cosa più terribile…» seguitò l’uomo con il collo irrigidito e la voce calante «è che mi sento dannatamente solo…»
La moglie buttò un occhio sul Rolex che le scintillava al polso poi, con un sorriso di cartone, gli mormorò:
«Certo caro… ti capisco… è che si sta facendo proprio tardi».

Sì, io sto bene

 

Nel dormiveglia della febbre l’uomo sentì squillare il telefono in lontananza. Si alzò a fatica. I brividi lo scuotevano profondamente; prese il maglione sul bracciolo della poltrona e lo indossò sopra il pigiama.
«Sì, pronto?» disse con una voce che gli uscì cavernosa.
«Non sai cosa mi è capitato oggi appena entrata in ufficio?» fece lei tutto d’un fiato. «Pensa! Mi si è rotto un tacco. E non c’è stato verso di ripararlo. Così sono andata dal capo zoppicando che sembravo un pirata sulla tolda di una nave. Non mi sono mai sentita tanto umiliata in vita mia…»
«Mi spiace.»
«E poi lui mi ha affibbiato quella rogna immensa di cui ti avevo parlato e che nessuno voleva, ecco cosa significa essere una donna in un ambiente di soli maschi.»
«Mi spiace davvero, cara, io comunque sto meglio…»
«Ah certo!!! Facessi gli occhi dolci e mi mettessi le gonne e le magliette giuste come fanno certe segretarie… Guarda, non farmi parlare perché ne avrei di cose da dire… Ma che non tirino troppo la corda perché sennò… sennò… non so nemmeno io cosa potrei fare…»
«Beh… questa mattina avevo ancora un po’ di febbre, ma con la tachipirina un po’ è scesa…»
«Giorno verrà che scopriranno i miei meriti professionali e i signori uomini allora sì che capiranno con chi hanno a che fare… altro che smancerie e battutacce da caserma… e poi fumano, fumano tutti. Se ne fregano della legge. Io glielo dico di smetterla e loro sai cosa fanno? Si mettono a ridere, mi prendono in giro, ma si può?»
«E’ la tosse che ancora mi preoccupa, forse con un po’ di latte e miele…»
«Un giorno o l’altro gli faccio lo scherzo di chiamare i Carabinieri, allora sì che sarò io a ridere, altro che…»
«No, l’antibiotico ancora non l’ho preso…»
«Va bene, va bene… non voglio farla tanto lunga. Ti richiamo più tardi, adesso devo andare in riunione… tornerò a casa tardi, ciao.»
«Sì, sì, non ti preoccupare, tanto io sto bene, ciao.»

Dentro di te

L’uomo era seduto sul bordo del letto. Non gli riusciva di guardare in faccia il vecchio. Gli faceva impressione vederlo con le guance così infossate e quel colorito così pallido da sembrare una sfumatura del cuscino candido.
«Ma perché non abbiamo mai parlato io e te…?» sbottò ad un certo punto l’uomo con aria di rimprovero.
Il vecchio portò l’indice smilzo alla propria bocca per zittirlo. Poi gli mormorò:
«Ho messo tutto in quella stanza…»
«Quale stanza?» domandò seccato l’uomo.
«La stanza, lassù al Borgo» rispose cercando vanamente di deglutire.
«Quella stanza non c’è più da tempo e neppure la casa. Persino il Borgo è completamente disabitato» sbottò l’uomo con un tono che solo qualche anno prima non si sarebbe neppure sognato di usare.
«No…» riprese dopo un po’ a dire il vecchio inumidendosi le labbra «non hai capito. Quando sei stato concepito in quella stanza, al Borgo, ho messo tutto quello che avevo da dirti dentro al cuore» e così sussurrando gli toccò appena il petto. «Le risposte sono tutte dentro di te, devi solo cercarle. Mi porterai dentro anche se non ci siamo capiti, anche se abbiamo sbagliato e pensi che non ti abbia amato abbastanza.»
Poi il vecchio girò la testa verso la finestra per nascondere due grossi lucciconi che avevano preso ad annebbiargli la vista.