Parla con me

Ricette-di-HalloweenI due figli stavano parlando tra loro. In quella cucina. E, mentre ruotava la tazza del caffellatte davanti a sé, la madre li guardava di sottecchi cercando di non farsi notare. Quanto erano simili e quanto erano diversi! Vederli di nuovo insieme, anche se solo per una colazione, la riempiva di una gioia immensa.
Il figlio grande, Jimmy, viveva ormai stabilmente a Londra. Faceva il copywriter per una grande azienda di dolciumi; era diventato un uomo, sicuro di sé con lo sguardo forte e pacato; gli occhi penetranti e curiosi del padre. Rita era rimasta invece a casa, con lei. Un’indole più raccolta, taciturna anche se estremamente intelligente e sensibile. Era di una bellezza non appariscente, dolce, pensosa. Sembrava lei da giovane e un po’, anche questo, a volte la spaventava perché, diversamente da lei che pur lo avrebbe voluto, si era creata in mondo tutto suo, assorto e silenzioso.
«Ecco, ci siamo…» disse all’improvviso Rita guardando l’orologio. «È ora!»
«È ora di che?» chiese Jimmy guardando perplesso la madre e la sorella. Le due donne si scambiarono un sorriso d’intesa solo accennato, senza dir nulla. Rita rincalzò bene la sedia al tavolo, come se volesse sempre rimettere tutto a posto, e uscì dalla stanza.
«Non mi dire…» fece il ragazzo alla madre indicando la sorella di cui era rimasto nella stanza solo il delicato profumo del bagnoschiuma. Lei non seppe che rispondere. Nel frattempo, si sentì Rita bussare allo studio del padre e, poco dopo, sgusciare leggera all’interno accostando la porta dietro di sé.
«Lo sai, Jimmy, ogni 1° novembre c’è questa cosa qui, dobbiamo accettarla…» sbottò la madre allargando le braccia quasi volesse abbracciare il mondo.
«Accettarla?» fece il figlio strabuzzando gli occhi. «Mi avevi detto che le era passata! Quando ci eravamo parlati in videochiamata, l’ultima volta, mi hai rassicurato che era tutto finito, che si era tornati alla normalità e invece ora scopro che non è affatto così…»
La madre lo osservava senza riuscire a dire nulla.
«Crede di parlare con un morto, mamma: ma papà non c’è più, purtroppo, e da tanto tempo. Bisogna assolutamente farla vedere da qualcuno… può peggiorare.»
La madre si alzò di scatto facendo rumore con la sedia. Afferrò le tazze vuote sul tavolo e le posò con forza nel lavandino dove le riempì d’acqua. Poi si fermò mettendosi a piangere.
«Non volevo, mamma, scusa…» fece lui alzandosi e abbracciandola di spalle. «Non volevo proprio… ma è per il suo bene, non può andare avanti così, sarà sempre peggio, lo sai anche tu.»
Lei alzò gli occhi arrossati al cielo e poi disse:
«Avevo giurato che non te lo avrei mai detto» fece voltandosi e fissando il figlio.
«Detto cosa? Cosa c’è d’altro?»
La madre non rispose. Guardò di lato, a terra, come se sperasse che il pavimento si potesse aprire all’improvviso per inghiottirla.
«Detto cosa?» insistette il ragazzo scuotendo appena la madre.
Lei andò alla credenza e tirò fuori da un cassetto un oggetto scuro che mostrò al figlio.
«È quello cos’è?»
«Ero disperata per tua sorella che parlava con il papà il giorno della sua morte, e non sapevo come affrontarla…»
«E allora?»
«E allora il 1° novembre dell’anno scorso ho nascosto questo registratore nello studio del papà. La registrazione si avvia automaticamente con il suono…»
Detto questo accese il registratore e lo posò sul tavolo della cucina.

«Ciao, piccolina… come stai?»
E Jimmy trasalì nel sentire, dopo tanto tempo, la voce del padre.
«Bene papà, le solite cose… mi manchi tanto…»
«Lo so Rita, non ci possiamo fare molto. È così… Però, come sai, ti sono sempre vicino…»
«Lo so, papà.»
«E anche a tuo fratello e alla mamma, ovviamente… Dovete volervi sempre bene e aiutarvi l’un l’altra, perché l’amore è più forte della vita e della morte. Ricordatelo sempre.»
«Sì, papà…»

Hello Halloween

«Lo sai che ti tocca…» mi disse Lucente con il suo accento delle Asturie oramai imbastardito dai tanti anni passati sulla collina di Poggiobrusco. Alludeva al fatto che fosse arrivata l’ora di accompagnare suo figlio di dieci anni a letto e di raccontargli la “storia della buona notte”.
«Colgo solo io la contraddizione nel fatto che non sia un complimento sentirsi dire che le mie storie fanno addormentare? Oppure è solo una mia fissazione?» domandai voltandomi in giro in cerca di approvazione.
Maverick era già seduto sulla sua poltrona preferita; si stava rollando la sigaretta del dopocena. Era pensieroso e non ascoltava. Forse aveva in mente Pashua, la cavalla Appaloosa del suo allevamento che stava tardando a partorire.
«Fissazione più, fissazione meno…» mi buttò li a tradimento Lucente che aveva preso ad armeggiare con stoviglie, piatti e bicchieri.
«Insomma zio, vieni o no…?» mi fece Phil impaziente con la sua faccia simpatica sulla soglia della cucina.
«Non sono tuo zio…» gli dissi seguendolo.
«Sì, certo zio… vieni che ti devo fare delle domande.»
Al che cominciai seriamente a preoccuparmi. So bene quanto possano essere insidiose le domande di un ragazzino di dieci anni e pure molto sveglio. Mi sedetti sul letto mentre lui si metteva il pigiamino.
«Senti zio…»
«Ti stai mettendo la maglietta alla rovescia, come tuo solito» gli feci notare cercando di aiutarlo.
«Senti zio…» insistette lui facendo ruotare di 180° con un colpo secco la maglietta già infilata per la testa «perché c’è la festa degli Ognissanti?»
Pensai: ‘meno male questa è semplice’. «È il giorno in cui si festeggiano tutti i santi» cominciai a dirgli «anche quelli non canonizzati ma solo beatificati…»
«Ah… quindi si festeggiano quei santi cui non hanno sparato con il cannone…»
«Ma no, Phil, che dici… canonizzati non cannonizzati… la canonizzazione è la dichiarazione di santità della Chiesa… e quindi si festeggia anche loro che non l’hanno ancora avuta e sono “solo” beati… tutti, appunto.»
«Insomma anche quelli che ci han provato ma non ce l’hanno fatta e sono rimasti santi a metà…»
«Più o meno…»
«E il 2 novembre si festeggiano tutti i morti, invece…»
«Esatto.»
«Quindi si potrebbe chiamare la festa degli “Ognimmorti”.»
«Si potrebbe, certo, ma non si fa perché suona male e poi i morti non si festeggiano, si commemorano…»
«E che differenza c’è?»
«Si pensa a loro, si va al cimitero a mettere un fiore sulla loro tomba… li si fa rivivere nella nostra memoria, anche se solo per un giorno…»
«Un po’ come gli zombies.»
«Ma no, Phil… gli zombies non esistono…»
«Come no, zio? Hai mai visto il nonno quando si alza al mattino?» disse mettendosi a ridere con una mano davanti alla bocca.
«Non è bello che tu dica queste cose, Phil…» lo rimproverai cercando di non ridere anch’io.
«E adesso mettiti sotto che prendi freddo.»
«Tu hai paura dei fantasmi?» mi chiese a bruciapelo, serio serio. Io lo guardai fisso per un po’. Gli feci una carezza sulla testa.
«Non bisogna avere paura dei morti, ragazzo mio, ma, a volte, solo dei vivi. I morti, semplicemente, non ci sono più.»
Lui alzò gli occhi in alto e di lato come per farsi venire in mente qualcosa. Poi mi chiese:
«Allora zio… a proposito di fantasmi… me la racconti di nuovo quella storia lì su John Lennon?»

NOTA: per saperne di più su –> Maverick e –> Lucente.
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Il terzo pulcino

«Mamma, mamma, Guendalina ha fatto i piccoli.»
La bambina aveva un largo sorriso sulla faccia e scuoteva il braccio della madre sotto le coperte. La donna, il corpo stravolto dalla febbre di quei giorni, non riusciva neppure ad aprire gli occhi.
«Mamma, hai capito? Guendalina!» La madre alla fine borbottò qualcosa e si girò da un lato per continuare a dormire.
«Cosa devo fare? Fa freddo nel fienile…» insistette imperterrita la figlia.
«Adesso mi alzo e ti faccio da mangiare…» farfugliò dopo qualche attimo la donna senza muoversi. La bambina, com’era entrata, se ne uscì con la stessa irruenza. Ci pensò su qualche secondo, quindi andò in bagno, prese un catino di plastica e corse nel fienile; predispose sul fondo della paglia e ci piazzò prima la gallina e poi i pulcini pigolanti. «Qui dentro starete benissimo, vedrete…» e con il suo fagotto prezioso entrò in casa posizionandolo con cura a una certa distanza dalla stufa. Si allontanò per vedere se tutto andava bene, quasi fosse stato un quadro da terminare, e ne fu soddisfatta. La preoccupava però, per la verità, il terzo pulcino che aveva un aspetto strano; era implume, il corpo più scuro degli altri, un principio di becco più lungo. E se ne stava in silenzio.
«Mamma mamma, c’è un pulcino venuto male, cosa ne facciamo?»
«Venuto male?» fece la donna, la voce impastata, credendo di aver capito male.
«Sì, Guendalina ha fatto un pulcino tutto nero ed è proprio brutto… è uno straccomunitario
«Ma no, che dici? E poi si dice extracomunitario. Sarà piuttosto un brutto anatroccolo, quello della favola» fece lei, di rimando, cercando di chiudere il discorso.
Quando più tardi si alzò per andare in cucina, gettò un’occhiata al suo catino per la biancheria pulita. «Forse è un piccolino di Ambrogia» disse sforzandosi di non rimproverare la bambina.
«Ambrogia?» chiese interessata la figlia.
«Ma sì la pavonessa di Adelio, il nostro vicino. A volta capita che le mamme non abbiano di che dar da mangiare al proprio nato e così lo imprestano a un’altra, perché ci pensi lei.»
«Farai anche tu così quando non ti vorrai più curare di me?»
La madre si bloccò guardando severa la figlia: «Non mi sono forse alzata apposta per farti da mangiare, nonostante l’influenza?» domandò lei spazientita non vedendo l’ora di tornarsene a letto.
«E così tu sei Ambrogino…» osservò la bambina cambiando discorso, con le mani dietro la schiena e allungandosi su di lui. Il piccolo sembrava capire perché alzò il capino spintonando gli altri pulcini da un lato, forte della propria stazza il doppio della loro.
Un’ora dopo, la madre si era coricata nuovamente mentre la bambina sorvegliava la covata. Il pulcino nero pareva cresciuto ancora, tanto che la gallina si era messa in un angolo del recipiente per fargli spazio. Il becco di Ambrogino era diventato adunco e la pelle del corpo coriacea e tesa, zampe robuste uscivano da sotto la pancia bombata mentre sul dorso si stavano formando ali nervose e nerborute.
«Diventerai proprio un bel pavone» concluse la bambina che si ripromise quella notte di non andare a dormire nel suo letto. Mise dei ciocchi di legna nella stufa e, spenta la luce, si coricò tutta eccitata sul divano tirandosi addosso una coperta.
Nel cuore della notte la svegliarono alcuni rumori. Provenivano dalla covata. Si stava per alzare per curiosare quando vide che dal fondo del catino si era levata un’ombra dell’altezza di non più di un metro. La silhouette nervosa, disegnata dal fuoco della stufa, era curva e gobba. L’ombra si guardò attorno, sospettosa, come se solo allora si rendesse conto di dove fosse. La bambina non riusciva a vedere gli occhi di quella creatura ma sentiva le sue pupille addosso come aculei avvelenati. Si schiacciò contro il divano per nascondersi meglio. L’ombra allora si scosse appena lanciando nell’aria un suono strozzato come di un vitello che fosse caduto in un pozzo e stesse annegando. Si scrollò violentemente come per espellere dell’acqua dal corpo; dispiegò invece due ali enormi, membranose, che colavano a terra un muco vischioso. Un vento gelido pervase la stanza. Con due colpi secchi del becco la creatura mangiò i pulcini e quindi afferrò con gli artigli la gallina. Poi spaccò il vetro della finestra e sparì nella campagna.

L’Halloween che verrà

Il campanello della porta suonò. Greta si volle convincere che, se l’avesse ignorato, si sarebbe rivelata alla fin fine un’inconsistente illusione. Però il campanello insistette e, dopo un po’, si sentì anche graffiare sul legno come se, sullo zerbino, ci fosse in attesa un gatto. Fu la curiosità che spinse la donna ad alzarsi. Ma quando quella ‘cosa’ le si parò innanzi lei urlò come se le avessero strappato il cuore.«Non si spaventi signora, per cortesia… non si spaventi, per carità… Ma… ma sono poi così davvero orrendo?» domandò l’uomo barcollando.
La donna si era impietrita nel gesto di tapparsi la bocca per non urlare di nuovo. Gli occhi non riuscivano a staccarsi da quel viso consunto, dallo sguardo fisso, dalla pelle rugosa e rinsecchita.
«Mi deve capire. Sono morto da circa sei mesi. Lo so, signora, non devo avere un gran bell’aspetto. Pensi che da vivo dicevano tutti che erano un bell’uomo». Greta in quel momento si riprese e cercò di chiudere di scatto la porta. L’uomo però fu più svelto e frappose un piede che nell’urto contro lo stipite si staccò. La donna questa volta non riuscì neppure a gridare.
«Mi scusi, signora, non volevo… vado in pezzi, me ne rendo conto, ma non è colpa mia».
«COSA VUOLE? COSA VUOLE?» fece la donna non riuscendo a controllare il volume della voce.
«Vede… ero un armeno, mi sono introdotto in Italia clandestinamente, ma ho sempre cercato di vivere in modo onesto. Nessuno però mi ha mai assunto e non sono riuscito a darmi pace per questo, e neppure ora… Le chiedo per tanto di aiutarmi».
«Non vorrà per caso che la assumi io, vero? Conciato così!»
«E perché no? Fra qualche giorno è Halloween e so che per suo figlio darà una festa, proprio qui. Potrei fare una comparsata. Sembrerò in tema, un personaggio ben riuscito. Intratterrò gli amici del suo bambino, vedrà, non avrà da pentirsene. Nel mio paese lavoravo in un circo. Conosco un mucchio di numeri divertenti. Sarà un successone». La donna era senza parole. «Ero una brava persona, glielo assicuro…» insisteva l’uomo facendo roteare un occhio solo mentre l’altro guardava fisso in basso «e non c’è neppure bisogno che mi paghi: non saprei cosa farmene dei soldi. La prego mi dica di sì». La voce si era fatta fioca e lamentosa. Greta si intenerì.
«La festa è per le 15.30» fece la donna che non avrebbe voluto pronunciare quelle parole. «Ma aspetti… aspetti un attimo…» disse ancora, in un sospiro, chiudendo la porta di ingresso. Andò in bagno, tornò. «Tenga».
«Cos’è?…» chiese l’uomo rigirandosi il flacone tra le dita. «Ah… è un deodorante… sì, sì, ho capito. Va bene, ha ragione, lo metterò. Grazie, ci vediamo allora la sera del 31 ottobre… Mi ha reso felice». E se ne andò via. Zoppicando.