La bella inglese

«Sono proprio stanco. E scocciato. Sì, stanco e scocciato. Prima sono stato per mesi senza mai muovermi in quella sottospecie di stamberga che chiamano casa, metà arredata e metà no; (sembra che, siccome sono onesto, non mi possa permettere con il mio stipendio un posto più dignitoso in centro. Almeno così ha scritto Lui); e ora sono qui a guardare il via vai incessante di questa piazzetta, come un automa o un cartone pubblicitario.
Per tacere poi di come sono vestito. All’inizio portavo il solito odioso impermeabile, poi per fortuna ci ha ripensato. Ora vesto informalmente, un po’ bohémien, un po’ artista scapigliato e maledetto, anche se faccio il vice-questore a tempo pieno e di poesia non ne ho mai masticata nemmeno per sbaglio. Almeno credo. Se non ha cambiato idea nel frattempo.
Anche se, a dir la verità, Lui, quando vuole, sa scrivere davvero bene. La storia, questa storia di cui sono il personaggio principale, è partita del resto con il turbo, oramai purtroppo alcuni anni fa. Era pieno di idee, scriveva in continuazione, di getto. Pareva incontenibile. Insomma il libro prometteva per il meglio, roba da migliaia e migliaia di copie vendute. Perché la trama è ben costruita, originale, piena di colpi di scena. Ma poi, all’improvviso, sul più bello, quando occorreva tirare le fila del lavoro e soprattutto farmi scoprire chi era l’assassino ecco il blocco dello scrittore. Mi si è impantanato come una cornacchia nel cemento fresco e non è più riuscito ad andare avanti. Non solo, ma ha anche cominciato ad avere ripensamenti; un mucchio di ripensamenti: sui personaggi, su alcune ambientazioni, sui dialoghi e pure sul mio accento, adesso che ricordo bene. Prima ligure, poi veneto e/o friulano e/o istriano e ora con una improbabile inflessione tedesca. Perché adesso sarei, sembrerebbe, altoatesino trapiantano in questa città di cui non ricordo nemmeno più il nome tante volte l’ha cambiato.
E ora come dicevo, sono al bar, vestito di tutto punto, con una sciarpa di seta al collo che sembro mia zia. E sono giorni per la verità che sono qui, in attesa. E al tavolino Lui mi ha fatto servire prima una bibita zuccherata (che non sopporto) poi un cappuccino con una faccina sorridente disegnata come se ci fosse qualcosa per cui sorridere e ora una spremuta di non so che, visto che dentro al bicchiere galleggia qualcosa di strano che non riesco nemmeno a identificare. So però che è il momento più importante del romanzo. Questo sì. Ho teso una trappola all’assassino e, secondo i miei “astuti” calcoli, dovrebbe poter scattare da un momento all’altro. Ho detto “astuti” perché lo ha scritto Lui. A me sono sembrati invece del tutto “normali” visto che faccio questo mestiere per vivere. Non tendere trappole, ovviamente, ma indagare. E sembra pure che io sia bravo, così almeno sostengono i miei superiori, anche se io non me ne curo più di tanto dal momento che “vivo in un mondo tutto mio e basto a me stesso” (parole Sue). Sta di fatto che il cameriere per fare lo spiritoso mi chiede sempre, dopo una certa ora, se voglio la camomilla per la notte. Mi ci vorrebbe un doppio whisky, altro che camomilla. Forse, chissà, è proprio questa la vita inutile dei personaggi di un romanzo. Rimanere intrappolati tra le pagine scritte e non poter avere una esistenza propria. Ho provato anche a fare due chiacchiere fuori da queste pagine con gli altri personaggi, così per socializzare un po’ e sentirmi meno solo, ma sembra che non sia consentito.

Aspetta, aspetta. Forse ci siamo. Non ci posso credere. Lui ha deciso: la trappola è scattata. L’assassino sta venendo qui per farsi riconsegnare dal cameriere la prova che lo inchioda: il documento che ha lasciato su questo stesso tavolino il giorno in cui ha ucciso il ragazzo; e invece incontrerà me. A mio avviso non può che essere l’architetto. Ma sì, era l’unico che sapeva della casa al mare del padre della vittima e il solo che poteva avere un movente (il ragazzo lo ricattava per non so più cosa). Infatti, eccolo eccolo!»

Il vice-questore Battaglia si alzò deciso, rientrando nel locale. Gli si parò davanti tuttavia non l’architetto Morini, come si aspettava, ma la bella inglese Abbie, incartata in un vestitino succinto da confezione regalo.
«Commissario, che ci fa qui?»
«Vice-questore, prego» fece lui meccanicamente anche se non era quello che avrebbe voluto dirle. Si era dimenticato di quanto quella donna lo avesse turbato profondamente, con il suo fascino malizioso, fin da quando si era imbattuto nel suo sorriso. Era sorpreso, ma anche molto deluso che l’assassina fosse lei.
«È questo tutto quello che ha da dirmi?» fece lei spalancando gli occhi grigi.
«In effetti non è la prima cosa che mi è venuta in mente, rivedendola…» ammise lui con fare sornione e aggiustandosi la sciarpa. Lei abbassò lo sguardo consapevole della sua bellezza e poi lo rialzò posandolo direttamente dentro a quello di lui a suggellare l’intesa avvenuta.
«Però ce ne hai messo di tempo… commiss… vice-questore…» fece lei umettandosi leggermente un angolo della bocca. «Allora da me o da te?» mormorò lei avvicinandosi quel tanto che bastò per fargli avvertire il profumo della sua pelle.
Lui sorrise, amaro. Poi, deglutendo, sospirò:
«Meglio in questura.»

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Ventisei capitoli

Gli era costata molta fatica ma era arrivato fino in fondo. Dopo un lungo periodo di crisi, un paio di libri mediocri e la paura di non essere più in grado di ripetere il grande successo del primo lavoro, era riuscito a confezionare un ottimo prodotto. Ora George W. Peterson poteva rilassarsi.
Quella sera stessa, anche se era tardi, spedì via mail a N., il suo Editore, i ventisei capitoli del suo giallo; glielo aveva infatti sollecitato sovente negli ultimi tempi essendo scaduto da mesi il termine contrattuale di consegna.
L’indomani mattina arrivò la risposta:
Un grande lavoro, George‘, c’era scritto, ‘ne è valsa la pena attendere: sarà un sicuro e meritato successo!‘.
George centellinò la mail, gustandosi complimenti e felicitazioni, fino all’ultima frase che lo fece sobbalzare:
Però, fammi avere il più presto possibile anche l’ultimo capitolo!’.
«Come l’ultimo capitolo?» domandò ad alta voce George come se l’Editore fosse in quella stessa stanza. «Ma se l’ho spedito insieme a tutto il resto!»
Controllò la mail che aveva inviato. Sì, c’era anche il ventiseiesimo capitolo.
Rispedì ugualmente il file mancante, per maggior sicurezza, facendo ben attenzione a non sbagliare, visto che il computer non era mai stato il suo forte; ne fece anche più di una copia, in formati diversi. Si scusò. Ma l’ultimo capitolo c’era.
La risposta di N., un po’ piccata, non tardò ad arrivare:
Perché mi mandi dei file illeggibili?
George cominciò a innervosirsi. N. lo stava probabilmente prendendo in giro per fargli scontare il ritardo. Non potevano esserci altre spiegazioni. Telefonò.
No, gli disse N., i file erano davvero illeggibili, forse era un problema di computer o della rete.
Siamo sicuri che l’ultimo capitolo l’hai scritto davvero?’ gli aveva domandato infine, a tradimento, poco prima di chiudere la telefonata.
Si misero d’accordo che lo avrebbe stampato e che glielo avrebbe portato personalmente. ‘L’aveva scritto quel capitolo, accidenti, perché dubitarne?’ Infilò le pagine in una busta e partì con il primo treno utile.
Si sentiva confuso nel percorrere il corridoio che portava all’ufficio di N. Era trascorso più di un anno dall’ultima volta che era venuto ad Alvona. In quella città non ci tornava mai molto volentieri. Ma ora era felice di essere lì. Glielo avrebbe fatto vedere al suo Editore e al mondo intero se quel capitolo l’aveva davvero scritto oppure no. George W. Peterson era tornato, eccome se era tornato: alla faccia dei critici malevoli che lo avevano dato per spacciato dopo il primo libro attribuendolo solo al colpo di fortuna del novizio.
Stava per bussare alla porta di N. quando si accorse che la busta non era più nelle sue mani. Si sentì mancare. Con il cuore in gola tornò velocemente sui suoi passi, gli occhi a terra per ritrovare il plico. Non era da nessuna parte.
«Questo deve essere suo» si sentì dire da un uomo anziano, ben vestito, un sorriso contagioso dipinto sulla faccia.
«Cos’è?» fece Peterson sgarbato.
«È il capitolo che le mancava.»
«Non è il mio, lei si sbaglia, la busta era marrone…»
«Le assicuro che è proprio questo…»
Peterson guardò l’uomo come se non riuscisse a metterlo a fuoco attraverso delle lenti appannate; il vecchio continuò:
«Lei lo sa che quel capitolo, l’ultimo del suo libro, non lo ha mai scritto, vero?»
«Ma cosa dice, lei è pazzo, l’ho scritto sì» rispose quasi urlando «lo saprò bene io, non crede? Ma cosa avete tutti quanti? Il libro è completo, in ogni sua parte… è il miglior thriller del secolo, cosa ne sa lei, scusi?»
«No, non è vero, non l’ha mai scritto e lei lo sa benissimo: avrebbe voluto farlo, le sarebbe piaciuto farlo, ma poi si è fermato. Non sapeva e non sa come finirlo. Lei stesso non ha la minima idea, neppure adesso, di chi potrebbe essere l’assassino, non sa neanche come farlo smascherare dal ragazzo, novello detective, che si è occupato del caso; e ci sono almeno altre due storie sullo sfondo che non è stato in grado di ‘chiudere’. Senza l’ultimo capitolo, il suo libro non vale niente.»
Peterson rimase impietrito. A poco a poco gli ritornò tutto in mente. Il blocco mentale, l’impossibilità di andare avanti, la mancanza totale di idee, il non sapere come far quadrare tutte le questioni non risolte del giallo. Il lavoro non era affatto finito e aveva ragione quell’uomo: senza quel capitolo non era pensabile poterlo pubblicare.
«Tenga» fece ancora il vecchio allungandogli il plico. «Dia retta a me, lo prenda.»
«È uno di quei casi, vero?» fece George sarcastico «uno di quei casi in cui lei poi mi ricatterà per tutta la vita o, che so, in cambio dovrò uccidere sua moglie o sua suocera o dovrò farle qualche altro favore immondo? Guardi che con me non attacca, non sono poi messo così male… io sono George W. Peterson, il grande scrittore in odore di Pulitzer e sappia che…»
«No, si sbaglia, non voglio niente, George: posso chiamarti così? Sono unicamente un tuo appassionato ammiratore. Mi dispiace vederti così depresso. È vero, sei un grande scrittore e lo sarai sempre; devi solo superare questo momento difficile. Diciamo che il mio è un modesto contributo alla tua arte… Hai bisogno di credere nuovamente in te… e questo libro, questo capitolo, ti aiuterà.»
«No, non posso accettare… non l’ho scritto io» disse George sempre meno convinto.
In quel mentre sentì gridare il suo nome. Era N., l’Editore: lo chiamava dall’altra parte del corridoio.
«Lo prenda» disse il vecchio insistente spingendo il plico verso di lui. «Non lo saprà mai nessuno che non l’ha scritto lei, glielo garantisco.»
«Non so neppure come si chiama…» fece Peterson afferrando la busta e allontanandosi lentamente.
«È importante?» domandò quello.

Il libro, come previsto, ebbe un successo enorme. Il finale era travolgente, originale, avvincente finanche rivoluzionario. Peterson era di nuovo nell’olimpo degli scrittori mondiali. Ce l’aveva fatta.

È il quinto suicidio in questo mese…’ sentì George annunciare al telegiornale, un mese dopo, seduto sulla sua poltrona di casa. «È il quinto ragazzo che sceglie di morire in un modo così orribile» disse l’annunciatrice con la voce leggermente incrinata dalla commozione. «Gli inquirenti, dalle prime indagini, confermano che anche lui, come i precedenti quattro, aveva appena finito di leggere il best seller del momento: ‘Di cuoio e sangue’, di George W. Peterson. Gli psicologi si stanno interrogando se si tratti di isteria collettiva o di manipolazione del subconscio…»