Una nuvola viola

gattinoDapprincipio sembrava un coriandolo per il modo in cui scendeva giù oscillando nell’aria. Poi, pian piano che si avvicinava a terra, si capì che era una cosa viva. Appena toccò il terreno il batuffolo di pelo, tutto orecchie e occhi, cominciò a miagolare intensamente. Ma non perché aveva paura, piuttosto perché aveva fame come se da parecchio non toccasse cibo.
«Ma guarda tu se devono far cadere un gattino così piccolo» disse una ragazza sui vent’anni raccogliendo il micetto da terra.
«Sono degli incoscienti» concordò un’altra donna che, con il grembiule addosso, uscì sollecita da un negozio. «Trattano il gatto come un giocattolo e poi lo buttano via…» e nel dire questo allungò sotto quel musetto tutto baffi una ciotola con due dita di latte dentro.
«Sarà caduto da qualche balcone» rispose la ragazza puntando il naso all’insù senza vedere balconi. Le due donne, ricolme di tenerezza, stavano osservando la bestiola leccare felice il suo latte quando arrivò dal cielo un altro gatto: era adulto, fulvo di pelo, dall’aspetto imponente. Appena toccò terra soffiò in modo esagitato nei confronti delle due donne, arricciando minaccioso il dorso e mettendosi di tre quarti. Le due donne si voltarono incuriosite.
«Guarda che stiamo trattando bene il tuo piccolo!» disse, equivocando, la donna con il grembiule come per scusarsi. Ma il gatto fulvo fece due balzi all’indietro e fuggì a larghe falcate.
«Chissà che gli ha preso…» si domandò un uomo anziano indicando il gatto con la punta dell’ombrello quando ormai quello era un punto mobile in fondo alla piazza.
In quel mentre piovvero altri due gatti, entrambi siamesi. Questa volta sia l’uomo che le due donne li videro mentre già si trovavano a qualche metro di altezza. I due gatti, posate le zampe sul lastricato della piazza, si guardarono attorno come se si chiedessero dove fossero arrivati. Dapprima si mossero in direzioni diverse poi l’uno seguì l’altro, quindi tornarono indietro entrambi sedendosi in attesa di chissà cosa.
«Ma che sta succedendo?» fece l’anziano questa volta dirigendo la punta dell’ombrello verso il cielo.
Sopra al paese stazionava in effetti una strana nuvola dalle venature violacee, scura al centro e grigia ai bordi: aveva la forma curiosa di un paracadute rigonfio d’aria.
«Strano davvero…» fecero le due donne osservando anche loro la nuvola.
Subito dopo cominciarono a piovere, dapprima lentamente e poi sempre con maggiore intensità, altri gatti: certosini, gatti comuni, persiani, meticci, main coon, rag doll e tante altre razze. La gente, accorsa incuriosita, dovette trovare riparo in androni e negozi mentre l’anziano aprì l’ombrello che ben presto si ruppe. In poco tempo le strade del villaggio si riempirono di mici miagolanti che chiedevano cibo, si azzuffano o dormivano nei posti più improbabili.
Gli esperti vaticinarono che il fenomeno non aveva precedenti. Si sapeva di una pioggia di acciughe alle Canarie, di rane in Guatemala e persino di granchi in Indonesia, ma di gatti no, davvero no. La colpa era sicuramente del surriscaldamento globale, qualunque cosa dovesse significare.
Il Sindaco, anche in vista di una sua possibile riconferma alle prossime elezioni, promise che i gatti avrebbero avuto una sistemazione adeguata presso cittadini volontari e associazioni specializzate; che la situazione era grave, ma sotto controllo, e che comunque il vantaggio immediato era rappresentato dal fatto che dal villaggio erano spariti i topi.
Però nei giorni seguenti i gatti continuarono a piovere incessantemente almeno fino a quando la nuvola viola si disciolse spontaneamente.
Quando la situazione nel paese stava diventando ormai insostenibile sia per il miagolio incessante che per il fatto che non si riusciva neppure più a camminare per le strade già strette, e ora pure maleodoranti, una mattina il villaggio si scoprì sgombro di animali. L’incubo sembrava cessato. All’improvviso erano sparite migliaia di gatti, come se avessero ubbidito a un’unica volontà. Il Sindaco, per non sbagliare, se ne assunse il merito.
Dopo qualche settimana, un ragazzino, durante la partitella pomeridiana nella piazza del paese, mentre stava seguendo preoccupato la traiettoria del pallone sfuggito alla presa del portiere, guardando lo spicchio di cielo sopra di sé, si accorse che c’era qualcosa di appena percettibile sotto una nuvola viola. Dapprincipio sembrava un coriandolo per il modo in cui scendeva giù oscillando nell’aria. Poi, pian piano che si avvicinava a terra, si capì che era una cosa viva. Appena toccò il terreno il batuffolo di pelo, tutto orecchie e occhi, cominciò ad abbaiare intensamente.
[space]

hat_gy
Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100
[space]

Chantilly

gatto biancoLo aveva visto gironzolare qualche volta attorno alla casa. Era un grosso gatto bianco dalla faccia buffa e dal pelo folto. Dapprima, quando vedeva la ragazza, il gattone scappava immediatamente, poi, pian piano, si era abituato a lei e faceva solo il gesto di andarsene per poi rimanere pigramente tra l’erba. Così Lauretta aveva cominciato a preparargli sotto il portico una ciotola con i croccantini e una per l’acqua e, dopo qualche tempo, anche una cestina con dentro un vecchio maglione sdrucito per le notti fresche. Ma dopo Chantilly (Lauretta, l’aveva chiamato in quel modo) venne un secondo gatto, tigrato, di taglia robusta e tarchiata, e quindi una gattina tartarugata. Il padre scuoteva la testa nel vedere quanta passione la figlia ci mettesse nel curare quei randagi, sempre affamati e diffidenti e, anche se oramai temeva avrebbe attirato tutti i gatti del paese, aveva deciso di lasciarla fare.
«Del resto ha sedici anni» gli disse la moglie spiando la figlia dalla finestra della cucina. «Preferisco vada dietro ai gatti del quartiere che ai ragazzotti di qui.»
In primavera la situazione si complicò. L’intraprendente Chantilly mise incinta la gattina Frisbee che, dopo pochi mesi, approfittando dell’ospitalità sotto il portico e il cibo abbondante sempre a disposizione, mise alla luce una bella cucciolata.
«E adesso?» disse il padre.
«E adesso ne teniamo uno e gli altri li diamo via…» rispose Lauretta che aveva già deciso ogni cosa.
«Chi vuoi che se li prenda?»
La ragazza per tutta risposta recuperò uno scatolone dal garage, ci mise dentro tutti e sei i gattini e consegnò al padre il suo cellulare.
«Mettiamoci qui, alla luce» fece lei «e facciamo un po’ di foto. Poi le stampo e le distribuisco in giro: a scuola, al supermercato, al bar. Vedrai che quando vedranno questi musetti nessuno potrà resistere.» Prese i micini in braccio per farli vedere meglio: alcuni scappavano, altri miagolavano prestandosi al gioco. Piena di entusiasmo attaccò in giro per Lughi una cinquantina di foto. I gattini si mostravano in tutta la loro simpatia. Chi era ben intenzionato avrebbe potuto telefonare al numero di casa. Si poteva ritenere soddisfatta.
Il giorno dopo, tornando da scuola, Lauretta trovò il padre al telefono. Quando mise giù il ricevitore lei, che non stava più nella pelle, gli chiese:
«È per i micetti?»
«Sì, questa sarà la ventesima telefonata che ricevo» fece il padre serio.
«E quanti ne abbiamo piazzato?»
«Nessuno. Sono tutti ragazzi. Ti hanno visto in foto: vogliono tutti conoscere te…»

Il gatto Spiridione

Provenendo da Pievàni, poco prima della discesa per entrare in Lughi, alla Predòsa, avevano aperto quel che sembrava un nuovo negozio. Clara fermò la macchina e ci buttò un occhio curiosa. Dalla attrezzatura ultramoderna che stavano installando e dalla persona che, in camice, si aggirava tra gli operai dando ordini, capì che doveva essere un ambulatorio. Un cartello appeso fuori, indicante la tariffa per cani, gatti e altri piccoli animali, le tolse ogni dubbio: era un veterinario, un po’ caro, forse, ma Clara ne fu lo stesso contenta; dove andava lei erano infatti scortesi e c’era sempre da aspettare. Così, quando alcuni mesi dopo il suo gatto Spiridione si ammalò, si decise. Arrivata alla Predòsa, sistemò la macchina nell’ampio parcheggio. Non aveva fatto in tempo a entrare che subito due signori gentilissimi, le vennero incontro. Ascoltarono attentamente quello che lei aveva da dire e poi presero in consegna la trasportina, con il gatto dentro, assicurandole che avrebbero fatto tutto il possibile. Non le restava che attendere. Del resto la sala di aspetto era molto confortevole, le poltrone comode, le luci soffuse con una musica di sottofondo che creava un’atmosfera da american bar. Da dove era seduta poteva anche osservare attraverso la porta semiaperta l’uomo che già aveva notato con gli operai. Stava visitando un cane; forse lo stava auscultando o eseguiva qualche esame. Si comportava in modo professionale e scrupoloso e questo rassicurò ulteriormente la donna sulla bontà della sua scelta. Poi lui vide lei attraverso lo stesso spiraglio:
«Non se ne stia lì da sola, entri, entri… che ci facciamo compagnia».
La donna si alzò un po’ imbarazzata. «Guardi che non volevo curiosare».
«Lo so, non si preoccupi… non lo dicevo per quello è che mi fa piacere se facciamo due chiacchiere, sono spesso solo e poi fra pochi minuti le riportano il gatto».
Clara entrò nervosa e si sedette sul bordo di una sedia bianca guardandosi attorno.
«Ha fatto la scelta migliore, sa?» le fece l’uomo sorridendo dietro ad una montatura d’occhiali nera e spessa anni Sessanta.
«Certo…» gli rispose Clara «… ma in che senso, scusi?!?»
L’uomo non rispose era concentrato su quello che stava facendo. Poi Clara lo guardò meglio. Il cane tra le mani dell’uomo non si muoveva. Scattò in piedi.
«Ma… ma quello è un cane di peluche!» esclamò allarmata la donna.
«No» disse l’uomo risentito. «È un cane impagliato!»
«Come?!? Lei non è un veterinario?»
«No, sono un tassodermista? Perché?»

La razione felina

La signora Pina stava tornando a casa ciabattando.
«Dov’è stata di bello?» le chiesi parandomi davanti. Lei fece un balzo all’indietro non appena si accorse di me.
«Oh… mi hai spaventato, non ti avevo visto… sono andata a dar da mangiare ai miei micetti» mi rispose lei prendendomi sotto braccio e costringendomi a tornare indietro.
«Ma non dava loro da mangiare vicino al portone di casa?»
«Macchè! Quelli della spazzatura toglievano sempre tutto perché secondo loro non era igienico.» Pronunciò questa frase con tono esageratamente ironico, fissandomi subito dopo in attesa di un mio segno di approvazione. Quindi aggiunse: «così mio marito ha costruito con il truciolato una specie di casettina incastrandola tra la parete di fondo della pensilina del 14 e la ringhiera della scuola.» Io guardai nella direzione che lei aveva appena indicato senza vedere nulla. La fermata del bus era in fondo alla via ed era impossibile anche solo intravederla. «E ora sono appena andata a dar loro le lasagne.»
«Le lasagne? Lei dà le lasagne ai gatti?» feci io non riuscendo a controllare lo stupore.
«Certo!» mi confermò lei pronta come se si aspettasse quella obiezione. «E ti assicuro che se le mangiano tutte.» Quindi si sganciò dal mio braccio: «Bene… io sono arrivata» mi comunicò cordiale, regalandomi un sorriso un po’ sdentato. «Vado a preparare da mangiare al marito sennò mi brontola… sai come sono fatti gli uomini… non fan niente in casa però pretendono.»
La salutai ripensando a quanto mi aveva appena detto, contento che i suoi gatti avessero finalmente trovato una sistemazione dignitosa. Poi, arrivato alla fermata del 14, la mia attenzione fu attirata da un barbone seduto sulla panchina all’interno della pensilina: con coltello e forchetta si stava sbafando le lasagne ancora fumanti.

È questione di ritmo

 

Uno degli aspetti più evidenti del passaggio repentino tra la vita di città e quella di paese è la diversità di ritmi: convulso in città, tranquillo in paese.
Così può capitare che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza in città, si ritorni in paese senza riuscire ad adeguarsi alle diverse cadenze del borgo. Il giornalaio, il negozietto di alimentari, il bar, non sono luoghi dove consumare, i propri riti di passaggio, ma punti di aggregazione, di socializzazione, spacci di rifornimento di notizie e del gossip paesano, dove prelevare dicerie per depositarne delle altre.
All’iper del grosso centro di Tòdaro non c’è verso, invece, di far conversazione con la signorina alla cassa, non tanto perché, essendo carina, non dà confidenza a nessuno, ma in quanto ha il capo sempre chino, concentrata com’è nel far passare nel rivelatore di codici a barra il maggior numero di oggetti nell’unità di tempo, senza perdere di vista la fila, l’ispettore di ottimizzazione nascosto dietro la colonna, la carta di credito da controllare sul retro se è firmata, la ricevuta da dare al cliente, la merce da inserire nella varie buste divisa per tipo e dimensione.
Al contrario, agli alimentari di Lughi, dopo cinque minuti a soppesare un melone che poi non si comprerà, si è già al corrente della salute della Beppina che sta sempre peggio e bisogna portarle la spesa a casa che ha appena telefonato o dei progressi di Marietto, il figlio di Giovannino il muratore, che ha imparato a camminare ma continua a sbattere contro gli spigoli delle porte.
E arrivavo proprio da un periodo da sovra dosaggio da città quando atterrai un bel pomeriggio nell’unica farmacia di Pievani, altro modesto borgo della zona. C’era un po’ di gente, ma questo non era un motivo sufficiente per creare del disagio a Marilena, l’anziana farmacista alta, come si dice, un metro e una siringa, che per percorrere lo spazio di pochi metri tra la cassa e gli scaffali dei medicinali sembra metterci un tempo interminabile. Non avendo io ancora “rallentato” il mio tempo per adeguarlo al passo di Marilena, mi stavo spazientendo.
Avevo ancora un paio di persone davanti quando ad un certo momento entrò, urlando, tutta eccitata, una signora:
“Stanno nascendo, stanno nascendo, corri…”
Marilena che stava per consegnare al cliente di turno il medicinale, lo scontrino e il resto in danaro mollò ogni cosa sul bancone al grido:
“Ma davvero?!? Ma davvero?!?”.
In un lampo, dimenticandosi del suo passo strascicato e stanco, sgusciò via dalla farmacia piena oramai di gente.
“Ommadonna…” esclamai io “…e che è successo ora?”
Gli astanti invece di arrabbiarsi per il contrattempo cominciarono a commentare l’accaduto. Tant’è che uno poi mi disse:
“E’ la Lolli, sta diventando mamma…”
“Ah” dissi io fingendo di comprendere la gravità del momento. Evidentemente il fatto che la Lolli fosse incinta era un argomento che mi ero perso.
“Pensi…” disse un’altra donna che faceva a fatica a tenere in braccio una bimba che non stava ferma “… pensi che sembrava spacciata due anni fa, quando è finita sotto una macchina… sua mamma era disperata, faceva una pena infinita.”
“Beh, mi spiace, se le cose stanno così….” feci io “…allora, insomma, è il suo momento…”
Passò un quarto d’ora buona. Io francamente mi sentivo un po’ più disteso: l’effetto campagna stava facendo il suo corso, il tempo stava rallentando anche per me. Quell’attesa mi appariva infatti ogni minuto più sopportabile tanto che mi accorsi di essermi fatto coinvolgere da quella contagiosa atmosfera di buonismo e contentezza generale.
Poi tornò la farmacista. Le due porte automatiche si spalancarono di colpo come fosse stato un effetto scenico ben preparato. Marilena entrò trionfante esibendo un gattino piccolissimo che con gli occhi chiusi miagolava così sottovoce che non lo si sarebbe sentito neppure attaccando l’orecchio ai suoi baffi.
“Questo è l’ultimo della cucciolata. La Lolli ne ha fatti sette e stanno tutti benone.”
Scoppiarono gli evviva e le congratulazioni alla farmacista, qualcuno applaudì.
Mi sfuggiva francamente quale fosse stato il grado di parentela tra Marilena e la Lolli, ma vedere quell’esserino lanoso poco più grande di un guantino che agitava una coda non più grossa di un’unghia, dava di colpo un senso a tutta quella situazione. Il ‘mio orologio biologico’ aveva finalmente preso i ritmi del borgo.