La foto tessera

Non ci aveva mai saputo molto fare con le macchine. Quella che aveva davanti sembrava una pulsantiera esagerata per un semplice gabbiotto per le foto-tessera. Anche per inserire la moneta c’era qualche insert di troppo. Non si perse comunque d’animo; fece dapprima qualche tentativo e quindi fece scivolare gli euro nella feritoia più grande: l’accensione di una spia verde intermittente gli parve incoraggiante. Ubbidì all’invito di sistemarsi con il seggiolino all’altezza giusta e, dopo aver premuto nuovamente il bottone verde, quattro flash in rapida successione lo sorpresero in espressioni probabilmente scomposte. Poco convinto del risultato uscì in attesa. La macchina ruminò cigolii sospetti e alla fine partorì una striscia di cartoncino opaca. La raccolse ancora appiccicaticcia, accorgendosi subito dopo che era anche tutta bianca. Maledisse la propria inettitudine, assestò con rabbia un pugno al gabbiotto e si diresse alla vicina piazza dove c’era un ottico che garantiva lo stesso servizio: gli sarebbe costato di più, ma aveva assolutamente bisogno delle foto per rinnovare la carta d’identità. Il fotografo in camice bianco lo fece accomodare e senza dire una parola lo mise di tre quarti contro un fondo bianco. Prima che lui si aggiustasse, fu trafitto da un unico potente flash. Era quasi accecato quando sentì il fotografo imprecare. La macchina digitale si era rotta, diceva quello, le foto non erano venute, erano completamente bianche. E mentre l’operatore spariva nel retro a protestare con chissà chi, lui guadagnò l’uscita. Gli girava la testa e gli mancava l’aria. Forse era l’odore di chiuso di quel negozio, forse erano stati i troppi e violenti flash. Il cielo nel frattempo era diventato viola, il selciato della strada verdastro cupo e i passanti camminavano a scatti, un po’ sbiaditi. Si diresse come un automa verso l’ufficio. Gli stava montando dallo stomaco una nausea fetida da togliere il respiro. Un frate, incrociandolo, lo benedisse senza fermarsi. Lui fece una decina di passi a zig zag. La sensazione di vuoto si stava ingigantendo dal ventre alla testa. Gli affiorò alla mente, come un relitto alla deriva, la chiara e nitida immagine di sé sulla poltrona di casa, con la testa riversa da un lato e gli occhi spalancati e spenti. Si sedette sul basamento di un lampione, immerso in un silenzio intenso che lacerava le orecchie. Poi, piano piano, svanì.

Un muro di foto

Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro quella porta» dissi a padre Ercole mentre mi stavo portando con lui dal corridoio della canonica al suo studio. Non mi rispose: si mise in piedi dietro alla scrivania cominciando a spostare alcuni fogli da un punto all’altro del pianale.«Sono indietro con il giornalino della parrocchia» fece sospirando come se non mi avesse sentito. Poi guardandomi al di sopra degli occhiali alla Harry Potter, mi chiese a bruciapelo:
«Vuoi davvero sapere cosa c’è lì dentro? Sei proprio un curiosone!»
Pronunciò quelle parole in modo grave, tanto che mi sentii in dovere di chiarirgli che saperlo non era poi così importante. Al suo perentorio ‘seguimi’, però, mi arresi. Tirò fuori da sotto la tonaca una chiave lunga, d’altri tempi girandola più volte nella toppa troppo grande:
«È una stanzetta che fungeva una volta da anticamera allo studio» mi spiegò in modo concitato «ma da quando sono qui non l’ho mai usata per questo scopo.»
Aprì finalmente la porta e, accesa la luce, si scostò per farmi entrare. Rimasi a bocca aperta. Le pareti della stanzetta erano letteralmente tappezzate di foto, per lo più in formato tessera o, al massimo, in formato cartolina.
«Chi sono?» domandai io con la bocca spalancata.
Padre Ercole, sembrò ammirare le foto a una a una e, per qualcuna di essa, sorrise anche; quindi mi mormorò:
«Sono tutte le persone che ho incontrato nella mia vita e che ora non ci sono più. Amici, parenti o anche solo conoscenti.»
«Ma sono tantissimi…» commentai in un modo che sembrò un’obiezione.
«E pensa che io non ho grosse relazioni con il prossimo, nonostante il lavoro che faccio…  Sono sicuro che ne conosci altrettante anche tu, se solo ci pensassi un po’. Io ho appeso le loro foto perché mi aiuta a ricordarle, a capire cosa non ho fatto per loro e che avrei invece dovuto fare e, soprattutto, cosa hanno significato per me.»
C’erano persone giovani, coppie che si abbracciavano felici, un signore anziano con la zappa in mano e un ragazzo con lo zaino in spalla che pareva volesse conquistare il mondo: facce sorridenti, serene. Una piccola comunità, insomma, cancellata dalla faccia della terra.
«Spero solo di finire su questo muro il più tardi possibile» sbottai sincero. «Cominciando con il non darti una mia foto.» Dissi così, cercando d’incrociare gli occhi del sacerdote, che stava, però, guardando a terra. «Ma che stupido!» seguitai «Tu ce l’hai già una mia foto, vero?»
«Sì…» ammise lui volgendo la testa da un’altra parte «… non si sa mai.»