Il Guardaparco

foresta - fungo«Non faccia un altro passo!»
L’uomo si era materializzato dal profondo della foresta. Non aveva fatto il minimo rumore e Nora ci mise qualche secondo per realizzare che fosse reale. Nonostante l’uomo avesse la doppietta puntata sulla sua testa non le incuteva però alcun timore. Era alto, un po’ curvo, sui sessant’anni, vestito da guardaparco, ma con un’aria bonacciona e serena.
«Abbassi quell’arma, per favore, non sono un bracconiere…» disse aprendo il suo tailleur alla moda e mostrando un seno generoso. «Vede, non sono neppure armata» sottolineò con un sorriso malizioso.
L’uomo scostò la testa oltre il mirino per vedere meglio la persona davanti a lei. Effettivamente aveva l’aria innocua; una bella signora elegante che si era persa tra la sala riunioni e il bagno.
«Non si può entrare in quest’area protetta, ci vuole la mia autorizzazione e io non gliel’ho data…» recitò con logica ineccepibile ma con tono un po’ meno sicuro di prima. «Questo è il National Oak Park…» continuò abbassando un poco l’arma all’altezza del torace.
«Ma lei chi è scusi?» domandò la donna in modo disinvolto con il piglio di chi sapeva farsi ascoltare durante un consiglio di amministrazione.
«Sono George Anderson, guardia scelta di questo parco…» fece tutto d’un fiato alzando un poco il mento a sottolineare quanto fosse fiero di quello che aveva appena precisato.
«E io sono Nora, Nora Cooper della Southern York Company di Wellington, non pensavo ci fosse qualcuno, quassù…».
«Ci sto da vent’anni, signorina…»
«Mi chiami Nora, George… Vent’anni, dice davvero?»
«Fanno giusto vent’anni a fine agosto…» fece l’uomo rilassandosi e abbassando definitivamente il fucile. Guardò alla sua destra il maestoso Monte Maiomee dalla forma di un cappello a cilindro, come per trarre ispirazione, quindi proseguì… «È tutta la mia vita, stare quassù. Ci sta bene persino mia moglie che ci ha messo qualche anno per adattarsi al rigido freddo invernale…»
«Ma il Parco non l’ha mai pagata…» osservò lei.
L’uomo la squadrò, sorpreso per quella domanda.
«No, sono stati chiari fin dall’inizio quelli della Direzione. Non mi avrebbero corrisposto nessuno stipendio perché non c’erano soldi; però avrei potuto occupare il rifugio B102 e mangiare tutto quello che avrei potuto prendere con il mio Sharps. E ne abbiamo viste delle belle, in tutti questi anni, io e lui, signorina…»
«Nora…»
«Già, Nora… pensi, ho anche abbattuto Bezzy, un’orsa diventata pericolosa con l’età. Mi ha fatto penare per una settimana intera ma poi ho avuto la meglio. Ogni tanto mandavo dei rapporti giù alla Direzione ma non mi hanno mai dato risposta. Però li capisco, hanno sempre tanto da fare e quassù la posta proprio non arriva. Siamo un po’ tagliati fuori dal mondo e non c’è wi-fi. Ma io me la cavo, sempre.»
George riempì i polmoni con il profumo della montagna; un falco pellegrino venne giù in picchiata dalle nubi dense di grigio, come una meteora, sparendo in un lampo dietro a un gruppo di sicomori color crema. Lui, stava ancora riempiendosi gli occhi dell’oceano di verde davanti a sé, quando avvertì un rumore confuso di motori che arrancava dal fondo valle. Riprese in mano il fucile e si spinse fin su una roccia a strapiombo per vedere meglio. Non si era mai sentito nulla di simile lassù.
«Non so come dirglielo, George» disse Nora guardandosi le scarpe costose «ma la società che gestiva questo Parco è fallita, giusto vent’anni fa; insomma, appena dopo aver dato l’incarico a lei. Questo comprensorio per 150 acri è stato acquistato dalla mia azienda, qualche mese fa, dopo una lunga trattativa…»
Il rumore di sferragliamento dalla strada crebbe in modo assordante fino quando non si resero ben visibili tre grossi Caterpillar di un arancione così carico da ricordare la livrea di certi insetti velenosi.
«Qui verrà costruito un resort a cinque stelle, con un campo da golf, piscine e campi da tennis… e ovviamente un’ampia strada di accesso…»
George ammutolì.
«Un re-resort? Qui…» balbettò. Il mento gli tremava mentre sentiva le gambe cedergli, come neppure Bezzy era riuscita a fare.
«Mi spiace George, i lavori iniziano proprio oggi…» disse indicando gli escavatori dietro di lei a conferma tangibile di una sentenza irrevocabile. Allargò le braccia e poi lentamente si voltò a raggiungere le macchine movimento terra smaniose di cominciare il più presto possibile.
Quando mezz’ora dopo Nora Cooper tornò da lui, l’uomo era ancora nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato. George assomigliava a una di quelle concrezioni rocciose di formazione millenaria di cui il Parco andava famoso. Il suo Sharps era invece adagiato da un lato, nel muschio spesso, come un utensile inutile.
«Avete bisogno di un custode?» le chiese lui all’improvviso.
Nora gli regalò un sorriso sincero.
«Se ne può parlare, George, se ne può parlare.»

Erba e bacche

Sapeva di essere orribile. I suoi arti, il suo corpo. Tutto era deforme, innaturale: anche il muso doveva essere terrificante. Era per questo che non aveva mai avuto il coraggio di guardarsi in qualsivoglia superficie riflessa. Lo aveva sempre evitato, sin da quando era venuto al mondo. Non voleva soffrire né l’avrebbe sopportato. Del resto là ove viveva, nel mezzo della foresta, tutto quello che importava era saper cacciare, essere in grado di fuggire in qualsiasi momento e dormire. E anche quando all’imbrunire si spingeva sino ai primi villaggi per saccheggiare aie e pollai il suo aspetto non contava. Valeva unicamente la sua abilità, il suo passo silenzioso, la sua ferocia. Poi un giorno, un contadino, lo sorprese non lontano dal recinto dietro casa. Forse lo aveva aspettato pazientemente nel buio sin da quando erano stati trovati il cane da guardia con la gola aperta e i conigli sventrati. Fu un lampo nel buio. Una lingua viola che si sprigionò velenosa dalla canna del fucile proteso verso la sua figura. La scarica di pallini gli portò via un occhio e lui, vincendo il desiderio indomabile di svenire dal dolore, se ne fuggì lasciando sul sentiero una pista di sangue. Cercò di curarsi come poté. Mangiò erbe, bacche, e tutto ciò che poteva essergli essenziale per sopravvivere. Ma non riusciva a star meglio nonostante i giorni che passavano. La febbre era alta e lo stava sfinendo tanto che una mattina, per i brividi che lo scuotevano come un cencio sporco, rotolò dal giaciglio sino ai piedi della collina. Doveva levarsi in qualche modo i pallini dall’occhio, e per farlo doveva guardarsi: forse solo così avrebbe avuto una qualche chance di vita. Si trascinò allora fino al lago. Il dolore era acuto e sembrava spaccargli in due il cranio. Giunto all’acqua strinse le mascelle. Non era pronto per la verità. Fece per scappare, ma non si mosse. Doveva sopravvivere e si decise. Ma appena si vide riflesso gettò un urlo che scosse con violenza le cime dei larici. Era anche peggio di quello che aveva temuto. Non assomigliava affatto né a sua madre, né a suo padre. Oltre al corpo non aveva neppure la faccia del lupo. Era invece come tutti quelli che odiava: un essere umano.