Abrahel

«Devo prima visitarla per potermi esprimere sul suo problema…» disse l’uomo raddrizzando il tagliacarte che si trovava sulla propria scrivania. «Così su due piedi e per telefono, mi capisce bene, non è possibile per me pronunciarmi…»
Seguì qualche secondo di silenzio dall’altro capo del filo. «È ancora in linea signor… signor Turner?» domandò leggendo la nota che si era presa.
«Sì, sì mi scusi… ci penso un po’ su, allora… le faccio sapere, Professore. Grazie per il suo tempo.»

«Bene…» fece il Prof. Greenboroug accarezzando la spalliera della poltrona su cui tra breve si sarebbe seduto. Turner era già steso sul lettino e guardava un punto preciso del soffitto. «Credevo ci avesse ripensato e che non sarebbe più venuto.»
«In effetti, Professore… venire qui da lei, è un po’ come dover ammettere di essere malato, non trova?»
Il medico sorrise. Diede uno leggero scappellotto allo schienale della poltrona; nella penombra dello studio si alzò pigro del pulviscolo che, dopo aver catturato un riflesso proveniente da chissà dove, sparì subito. «Ma è anche indice della volontà di guarire, non pensa?» obbiettò il Professore aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Che poi lei sia davvero malato è ancora tutto da verificare. Su, adesso mi spieghi cosa la angustia.»
Turner rimase per un po’ zitto, gli occhi sempre puntati sul soffitto. «Dunque…» iniziò schiarendosi più volte la gola: «è presto detto; temo di possedere una doppia personalità…»
«Perché dice questo?» fece Greenborough sedendosi finalmente sulla poltrona che lo accolse con uno sbuffo prolungato.
«Perché sento come una voce, dentro di me,… anche se non sempre, a dire il vero… una voce che mi dice di fare delle cose… cose di cui poi mi vergogno di aver fatto…»
Il medico aveva cominciato a prendere appunti. Ogni tanto sbirciava l’ora su un orologio a muro che il paziente, nella posizione in cui si trovava, non poteva vedere. Era un’abitudine più che una necessità.
«E cosa le dice esattamente di fare, questa voce?»
«Delle cose brutte, Professore, molto brutte. È importante? Preferirei, almeno per oggi, non scendere nei particolari; se fosse possibile…»
«Va bene, va bene… come desidera… E come la sente questa voce? In lontananza… di petto, nella testa?»
«Sì, sì, nella testa… è orribile, le dico, orribile!»
Turner si era messo le mani davanti agli occhi. Cercava di frenare la voglia di piangere. Il Professore cercò di allentare la tensione.
«Allora, le dico come funziona… Come forse lei sa io lavoro con l’ipnosi… attraverso un primo contatto ipnotico con il suo subconscio io posso cercare di capire il suo disagio, la qualità del disturbo e la sua entità. Poi posso essere io stesso a continuare a seguirla o raccomandarla invece, a seconda della tipologia dell’affezione riscontrata, allo specialista più adatto. Un analista freudiano o un junghiano o di un’altra scuola di psicoanalisi…»
«Capisco…»
«Se lei, dunque, fosse d’accordo, comincerei…»
«Sì sì, cominciamo pure… ho un po’ di paura, però, Professore… glielo devo proprio dire e…»
«Non si preoccupi, è normale… si metta qui seduto, piuttosto… ecco bene, stia qui davanti a me e si rilassi, non pensi a nulla: metta i palmi aperti delle mani sulle ginocchia e svuoti la mente.»

«Allora come si sente?»
Turner si stropicciò gli occhi e guardò lo psicanalista come se fosse la prima volta che lo vedeva. «Abbiamo già finito? Ma se non abbiamo neppure cominciato…»
«La seduta di ipnosi è durata in realtà più di tre quarti d’ora» fece Greenborough alzandosi in piedi, soddisfatto.
«Davvero? Incredibile. E… e qual è la sua diagnosi? È grave?»
«Sì e no…»
«Che significa?»
«Significa che da un lato lei non è malato, ma dall’altro che ha senz’altro un problema. Nulla che non possa essere risolto, ben inteso, anche se occorreranno, ovviamente, anche in questo caso, diverse sedute.»
«Mi sta facendo preoccupare…» fece Turner iniziando ad agitarsi.
«Stia calmo, la prego… e tenga… è scritto tutto qui» disse allungando al paziente il foglio della sua prescrizione.
«È il nome dello specialista cui mi devo rivolgere?»
«Esatto.»
Turner, che si era alzato anche lui, si risedette: le sue gambe avevano cominciato a tremare.
«Padre Russell Fitzpatrick?» lesse ad alta voce.
«Proprio così…»
«Sto così male da meritare l’estrema unzione?»
«Ma che dice? Niente di così melodrammatico. Negli ultimi quindici minuti di ipnosi ho parlato con Abrahel … non voleva rivelarsi, ma alla fine ha ceduto. Si è insediato in lei, tre anni fa, a seguito di quell’episodio accaduto in Africa, come lei ben ricorderà… Insomma… Padre Russell Fitzpatrick è un esorcista. Abrahel per fortuna non è un demone molto potente, anzi, ma ha messo radici profonde. Occorre inoltre far presto perché ha creato in questi anni lo spazio giusto e le condizioni ottimali per evocarne uno di classe maggiore. E, se dovesse succedere, potrebbe non essere più possibile fare qualcosa. Lei doveva venire prima da me: ha indugiato troppo. Per cui, dia retta a me: prenda un appuntamento con Padre Fitzpatrick… e anche in fretta.»
Turner era rimasto senza parole ed era diventato pallidissimo.
«Un… un diavolo? Che mi parla? Da dentro?»
«Esatto… anche se Abrahel, da quello che mi risulta, è per la verità un nome femminile…»

Tra le nubi

«Ma lo vede anche lei?» disse Z. fermando una signora anziana e indicando un punto nel cielo.
«Cosa? Non capisco…» chiese la donna guardando all’insù e mascherandosi gli occhi con la mano tesa.
«Lassù, su quella grossa nube bianca.»
«Mi spiace, mi spiace proprio, giovanotto, ma ho lasciato a casa gli occhiali e non vedo benissimo…»
Z. abbandonò la signora senza dire altro, tanto che lei ci rimase molto male di non essere più considerata, e subito si mise a fermare una bella ragazza dai capelli corvini e boccolosi che le stava venendo incontro trionfante sui tacchi alti.
«E lei la vede, quella cosa là… lassù?» disse alzando la voce.
La ragazza si arrestò poco prima che lui la potesse sfiorare. E senza alzare la testa nella direzione indicatale guardò Z. diritta negli occhi. Fece un sorrisino di sufficienza e, mettendosi una mano sul fianco, scaricò il peso sull’altra gamba:
«E che ce stai a provà?» lo apostrofò.
Z. proseguì a camminare senza rispondere; fece diversi altri metri verso la fine del viale. Era agitato, irrequieto forse anche spaventato. Poi vide un negozio di ottica sulla sua destra ed entrò.
«Sì? Desidera?» domandò quello che sembrava essere il proprietario ancorché avesse l’aplomb di un proprietario di albergo a cinque stelle.
«Vorrei vedere il binocolo più potente che ha…»
«Un binocolo? Lei è fortunato… ho giusto un binocolo della marina, in saldo, antico, ma molto potente e…»
«Sì, certo, ho capito… è bellissimo e costa poco… me lo faccia vedere, su…»
«Va bene…» rispose accondiscendente ma deluso il negoziante. Armeggiò per un po’ su uno scaffale in alto e, da una bella scatola di legno scuro di una certa dimensione, estrasse religiosamente la custodia di un binocolo come fosse stata la pisside da un tabernacolo.
«Ah, finalmente…» fece Z. «…lo provo un attimo» fece lui afferrando il binocolo e dirigendosi verso l’uscita.
Il negoziante, temendo che il cliente se ne andasse con il suo oggetto prezioso, gli si mise dietro. Ma Z. si era limitato a spalancare la porta per scrutare meglio la nube su cui aveva distintamente visto qualcosa muoversi. Cercò febbrilmente con il binocolo e poi ad un certo punto lo vide bene. Erano due grossi occhioni e parte di una testa con lunghi capelli bruni. Era senz’altro qualcuno che si nascondeva dietro la protuberanza della nube a osservare di soppiatto il mondo sotto si sé, con grande curiosità, come se fosse stata la prima volta che lo vedeva. Ma che ci faceva lassù quel tizio e perché non cadeva? Poi all’improvviso come se fosse stato chiamato da qualcun altro alle sue spalle, quello si voltò sorpreso all’indietro. Diede ancora un’occhiata un’ultima volta giù in basso e poi a malincuore sparì tra le pieghe della nuvola. Z. lo cercò ancora, ma niente, era andato via davvero.
«Allora è di suo gradimento?» chiese sicuro di sé il negoziante che era rimasto immobile dietro di lui, le dita delle mani incrociate sul davanti. «Pensi che è un raro binocolo SkySkraper 22.5x50mm della marina britannica della seconda guerra mondiale, con trattamento della lente multistrato e diametro di pupilla d’uscita di 5 mm…»
«Sì sì va bene…» fece Z. restituendo il binocolo. «Ci penserò sopra» e fece per uscire.
«Ma non le ho detto a quanto glielo posso lasciare… è un affare, sa?»
«Ne sono sicuro!» fece Z voltandosi.
Passarono alcuni secondi e poi il negoziante fece alcuni passi oltre la soglia del negozio sulla scia di Z.
«Lo ha visto anche lei, vero?» disse con tono basso della voce.
Z. tornò indietro.
«Allora c’è davvero qualcuno lassù tra le nuvole…»
«Sì certo che c’è… l’ho rivisto anch’io, poco fa,… oppure siamo pazzi tutti e due… Esce quasi tutti i giorni verso quest’ora e fa due passi su una nuvola, se c’è, ovviamente, se no non si fa vedere. Ma nessun altro, oltre a noi due, pare se ne sia ancora accorto. La prima volta che lo notato ho avvertito immediatamente le Autorità ma non mi hanno creduto. E allora ho provato anche a fotografarlo con un potente teleobiettivo, ma non rimane impresso nulla sulla memoria digitale. Lo stesso mi è successo con una cinepresa.»
«Ma cos’è?»
«Non ne ho idea… so solo che ha i capelli corti e biondi e due occhi che fan spavento… Forse è un diavolo che aspetta il momento giusto per scendere sulla terra a far danno.»
«Io però ho visto solo degli occhi molto buoni e capelli lunghi e scuri, non biondi… Ho addirittura pensato fosse un angelo!»
«Non è possibile!» fece il negoziante pensoso. «Allora quel tizio, qualunque cosa sia, appare sotto sembianze diverse a seconda di chi lo guarda… è stupefacente!»
I due rimasero in silenzio a riflettere su questa ultima considerazione mentre la sirena di un’ambulanza urlò per qualche secondo sul lungomare.
«Posso tornare domani verso quest’ora a darci un’altra occhiata?» domandò Z. dopo un po’, quasi supplichevole.
«Ma certo è il benvenuto» fece il negoziante rientrando in negozio. «Torni quando vuole… e poi il binocolo è in sconto per tutto il mese.»
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Saprà cosa fare

«Perché ha pensato di rivolgersi a me?» chiese il dr. Norbert accomodandosi in poltrona e facendo segno alla paziente di fare altrettanto su quella di fronte. Aveva tra le mani un minuscolo registratore grigio e ci giocherellava con le dita come se fosse incerto se accenderlo o meno.
«Ho sentito parlare molto bene di lei…» fece la donna sedendosi a sua volta.
«A parte questo…» la incoraggiò lo psicanalista togliendosi da una gamba dei pantaloni un piumino di pioppo entrato dalla finestra.
«Sì, scusi, ha ragione, dunque, da dove comincio…» per un po’ la donna, sui cinquant’anni, i capelli bruni tagliati corti, volse gli occhi da un lato come per ricordarsi di qualcosa; quindi sospirò alzando leggermente le spalle: «…e che è da parecchio tempo che faccio dei brutti sogni, incubi direi, ma brutti brutti, e poi mi sento molto inquieta… troppo…»
«Più del solito, intende?»
«Molto più del solito. E poi è come se fossi sdoppiata…»
«Sdoppiata?»
Il dr. Norbert si aggiustò sulla poltrona spostando il busto in avanti.
«Sì, mi arrabbio facilmente, faccio e dico delle cose che mi sorprendono, che non sono da me…»
«Tipo?»
«L’altro giorno, non vista, ho fatto lo sgambetto a un ragazzino che è caduto di faccia e si è fatto male… il peggio è che poi mi sono sentita meglio per tutto il giorno…»
«Capisco e poi?»
«… Mi faccia pensare… ah sì… mi sono messa a rubare a casa di mia madre.»
«In che senso?»
«Nel senso che quando so che va dalle amiche per giocare a canasta vado a casa sua e rubo gli oggetti più disparati, quelli che so che a lei piacciono di più: e dire che non mi servono neppure…»
«Capisco… senta, essendo questa la prima seduta ho bisogno di instaurare con lei un contatto profondo con il suo inconscio… Come sicuramente sa, faccio ricorso alla terapia ipnotica…»
«Sì, sì lo so, dottore…»
«Ecco, bene… è mai stata ipnotizzata?»
«No, mai.»
«D’accordo, non si preoccupi deve solo rilassarsi…»

Bene signora Mitchell, la seduta è terminata.
La donna, svegliatasi dall’ipnosi, stava sbattendo più volte le ciglia in direzione del soffitto.
«Si metta a sedere sul lettino, faccia pure con calma, non c’è fretta… come si sente?»
«Mi sembra molto bene, dottore… persino un po’ sollevata…»
«Sì è un effetto indotto del risveglio… dunque, senta, ho due cose importanti da comunicarle…»
«Mi dica.»
«Lei non ha nessun disturbo della personalità… qualche conflitto non risolto infantile, è vero, ma nulla di che…, le assicuro: lei è sanissima…»
«E allora come spiega il mio malessere?»
Il dottore aspettò di finire di scrivere sul proprio ricettario, poi guardò la donna davanti a lui e sorrise.
«Ho parlato a lungo con Lui ed è disposto ad andarsene a certe condizioni…»
«Lui? Lui chi?»
«Vede, lei purtroppo è posseduta. Lui si chiama Zaa’cal ed è entrato in lei durante una seduta spiritica di due anni fa…»
«COSAAAA?»
«Parli piano, per favore, non urli… Dopo lo sforzo di parlare per un’ora con me Zaa’cal si è stancato moltissimo e si è addormentato. È ancora molto giovane: è un bambino. Se si sveglia mi impedirebbe sicuramente di darle questo» e allungò la prescrizione. «Qui sul foglio c’è l’indirizzo di padre Collins» seguitò a dire. «Saprà cosa fare.»

Un povero diavolo

Padre Ercole si stringeva nelle spalle nel vano tentativo di scaldarsi. Da quando gli erano stati tagliati i fondi non era più stato in grad di rendere anche solo tiepida la chiesa nelle ore che non fossero strettamente di celebrazione della messa. Così alcune volute leggere di vapore uscivano dalle sue labbra mentre, alla luce di una piccola torcia, stava leggendo il breviario all’interno del confessionale. Poi la luce si spense. Padre Ercole la batté più volte sul palmo della mano certo di aver sostituito da poco le pile.
«Mi perdoni padre perché ho peccato.»
Il sacerdote fece un sobbalzo.
«Sono un povero diavolo e voglio confessarmi» disse qualcuno inginocchiandosi al confessionale. Il suo viso era così a contrasto con la sottile grata di rame che il prete poteva sentire il suo alito caldo riempire il confessionale. Odorava di aceto e di muschio, misto a incenso andato a male.
«E’ da tanto che non ti confessi, figliolo?» gli chiese padre Ercole riprendendosi.
«Ho molto peccato, padre» rispose l’altro come se non avesse sentito. «Più che altro ho fatto peccare. Ho fatto crescere l’odio in giovani menti, ho radicato in altre la cupidigia, la lussuria, la vanità, e ho dato a tutti disperazione e tormento.»
«Sei il capo di qualche banda?»
«Ho istigato l’incesto, la violenza sessuale, l’omicidio…» seguitava lo sconosciuto a ruota libera. La sua voce era profonda, monotona, vibrante. Sembrava un torrente tracimato nei campi. Il prete ora sentiva caldo e gli mancava l’aria.
«Ho fatto tradire l’amore coniugale, ho distrutto l’orgoglio e la dignità di uomini onesti rendendoli corrotti e malvagi, ho messo figli contro padri, fratelli contro sorelle.»
«Ma tu ora, sei pentito?» sentì di dover dire a quel punto il prete.
La figura che gli era accanto si era fatta immobile. Padre Ercole avvertì alcuni singhiozzi, dapprima contenuti, poi più chiari, frequenti e liberatori. Il sacerdote si sentiva in imbarazzo. Si asciugò il sudore che gli colava lungo il collo e la schiena, e disse:
«Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine…»
Ma il tipo alla sua sinistra non c’era più. Il gelo si era fatto di nuovo strada nel confessionale come se fosse piombato in una cella frigorifera. E la luce della torcia si accese all’improvviso.