No match (prima parte)

Quando cominciò a sentire in bocca il gusto amaro del cluster-detox iniziarono anche a ritornargli in mente, una dopo l’altra, alcune immagini sbiadite della sua vita. Poi come tessere di un unico puzzle si ricomposero con ordine nel suo cervello tanto che, quando ebbe la forza di spalancare il cofano della cella di ibernazione, si rese conto di ogni cosa: era il Comandante Jackson Page e si trovava su una modernissima Unità E3000 con a bordo 1531 persone — tra equipaggio e coloni — diretta sulla Sedicesima Luna della Nana Ellittica del Cane Maggiore. E il fatto che si fosse svegliato dalla ibernazione significava solo una cosa: che era accaduto quello che non doveva accadere e cioè che il programma di indirizzamento verso la meta finale era stato bruscamente interrotto.
Ci mise ancora diversi minuti e una dose supplementare di farmaci adiuvanti per recuperare una motricità sufficiente che gli consentisse di recarsi alla Plancia di Comando; doveva controllare i computer di bordo e cercare di capire di quale anomalia si trattasse e possibilmente correggerla. Ma quello che accertò non gli piacque affatto. L’NGH ovvero il Supercomputer principale di navigazione aveva impresso alla Nave un repentino cambio di rotta. L’Unità E3000 adesso non era più diretta sulla Sedicesima Luna, come previsto, ma, dopo aver eseguito una virata a babordo di 33,7°, stava puntando verso CRO-702008C, un Buco nero di recente formazione che li avrebbe semplicemente inghiottiti.
E dire che di tutto ciò nessuno se ne sarebbe potuto accorgere se lui, poco prima di partire, non avesse fatto installare, per personale pignoleria, un dispositivo accessorio in forza del quale, in caso di avaria, l’NGH avrebbe inviato alla sua cella un impulso di avvio immediato del ciclo di scongelamento svegliandolo. E così era stato. Anche se ora, l’essere seduto al posto di comando, da solo, davanti a un computer in crash fatale lo faceva solo sentire frustrato e inutile. Non c’erano dubbi: la strumentazione elettronica che regolava la navigazione era stata pesantemente sabotata da chi aveva deciso che quella missione avrebbe dovuto fallire; non era possibile in alcun modo riprogrammare il viaggio: il Supercomputer era fuori uso. Sarebbero morti tutti.
Controllò le altre sezioni della Unità: funzionava pressoché ogni reparto. Fatta eccezione per le capsule di salvataggio che erano state manomesse dall’NGH per impedire qualsivoglia forma di esodo dalla nave, così come la strumentazione di bordo per comunicare con l’esterno. Non era più possibile inviare o ricevere messaggi. Chi aveva organizzato quella strage aveva pensato ad ogni evenienza con lucida freddezza. Era come se si trovasse prigioniero all’interno di una costosissima scatola cieca e sorda, in compagnia di 1531 persone addormentate con un destino orribile e ineluttabile davanti; anche se lui personalmente, sull’orlo del CRO-702008C, tra 156 anni, non ci sarebbe ovviamente mai arrivato vivo; la vecchiaia avrebbe fatto prima il suo corso.
Poi guardò meglio la videata di uno dei computer ausiliari davanti a sé. Non tutte le scialuppe di salvataggio erano fuori uso. Una si era salvata. Era stata rimossa dalla sua slitta per alcune riparazioni dell’ultimo momento e poi, per disattenzione del tecnico, non era stata messa nella sua postazione in modo corretto. Quando l’NGH aveva sabotato durante il viaggio le scialuppe non era riuscito a raggiungere anche quella non in linea. Forse, dopo tutto, lui si poteva ancora salvare.
Ma per andare dove?’ Si chiese. ‘Da solo poi!’
Come Comandante non sarebbe potuto mai tornare a casa anche se qualcuno lo avesse recuperato nello spazio aperto. Dopotutto, avrebbero potuto sostenere a buon diritto che, come Responsabile dell’Unità, aveva pur sempre mandato a morire più di millecinquecento persone mentre lui si era salvato. ‘No, non era cosa’, rifletté. Né sarebbe riuscito mai ad arrivare sulla Sedicesima Luna: avrebbe dovuto prima re-ibernarsi, ma era una procedura complicata persino su una Nave sofisticata come quella e non sarebbe stato mai in grado da solo di poterla completare. Sarebbero state necessarie fisicamente più persone.
No, non poteva finire così‘; pensò. Non poteva essere stato svegliato per non poter reagire. Doveva assolutamente fare qualcosa.

prosegue --> No match (seconda parte) 

Black box

«Le garantisco che non è stata colpa mia!».
La donna era sul limitare della seduta. Se si fosse mossa anche solo di qualche millimetro sarebbe caduta a terra. I capelli ricci e neri incorniciavano un viso pallido che a sua volta evidenziava gli occhi bistrati di scuro; l’espressione era tragica, come di chi temesse per la propria vita se non fosse stata creduta.
Il perito assicuratore, dietro l’anonima scrivania di fòrmica, stava compulsando il fascicolo sul cui frontespizio color giallo-canarino campeggiava in verde il titolo sbilenco: «Sinistro stradale BY382KH». L’uomo pareva assorto nella lettura come se si trovasse da solo sulla poltrona di casa sua.
«Io vorrei chiarire invece…» fece il marito che, diversamente dalla moglie, era comodamente appoggiato allo schienale della poltrona sforzandosi di mantenere la calma «…che la vettura incidentata era la mia. Me l’ha completamente distrutta. È praticamente da rottamare. Il MIO coupé, capisce? Da rottamare!» Ora, quello più disperato, sembrava lui.
«Ti ho già chiesto mille volte scusa…» disse la moglie guardando un punto indefinito della parete di fronte, forse il calendario a muro, fermo a tre mesi prima. «Quel camion, ti ripeto, è sbucato all’improvviso tagliandomi la strada e… e… oh Dio mio, potevo rimanere uccisa e tu pensi solo alla TUA stupida macchina!»
«Stupida macchina? STUPIDA macchina?!? E allora perché hai presa la stupida macchina senza peraltro nemmeno dirmelo?»
«Te l’ho già spiegato… ero in ritardo e dovevo andare dall’estetista…» La donna era oramai prossima a scoppiare a piangere.
Il perito continuò noncurante a leggere, ancora per qualche minuto, il dossier che aveva davanti senza neppure alzare la testa o dire alcunché. Apparve persino per un attimo sulla soglia della stanza anche l’attempata segretaria; ma subito dopo se ne andò via con una smorfia indecifrabile.
«Non c’è dubbio che non sia colpa sua…» proruppe ad un certo punto l’assicuratore che regalò ai due coniugi un sorriso così cordiale da farsi subito perdonare per quel suo comportamento distaccato.
«Come dice, scusi?» fece la donna spingendosi pericolosamente ancora un po’ più avanti.
«Non è colpa di mia moglie?» domandò sbalordito il marito.
«Te l’avevo detto» gli sibilò lei velenosa.
«E possiamo anche provarlo…» fece il perito spostando alcuni elastici davanti a lui. «Vede signora, ora tutte le autovetture della marca acquistata da sua marito sono dotate di una black box…»
«Una black box? Come quella degli aerei?» chiese la donna che aveva ripreso colore in viso.
«Più o meno. Si tratta comunque, come sa, di un dispositivo elettronico dotato di un localizzatore GPS che permette di registrare tutte delle informazioni riguardanti il mezzo di trasporto e il comportamento del guidatore; interpretando il codice è possibile risalire alla posizione del veicolo e a tutti i suoi spostamenti anche minimi durante la marcia…»
«Caspita! Non lo sapevo» fece il marito. E poi rivolta alla moglie: «hai visto che ho fatto bene a comprarla? Tu che non volevi.»
«Insomma…» seguitò il perito «è possibile ricostruire pressoché tutto dell’incidente. Ed è emerso chiaramente dalla sbobinatura che la sua condotta è stata regolare ed è il camion che non ha rispettato lo stop.»
«Che sollievo» fece la donna.
Il marito fece con la bocca un verso strano di soddisfazione.
«In conclusione…» fece l’assicuratore unendo a cuspide, davanti alla sua faccia, le dita di entrambe le mani «quando fra pochi giorni la pratica perverrà sulla scrivania del nostro Direttore verrà staccato l’assegno per l’importo da lei richiesto!»
«Non ci credo!» fece il marito sempre più sorridente.
«Ci creda, ci creda… questa è una assicurazione seria, sa?» affermò il perito con un tono della voce tale però da far risultare che fosse lui per primo a meravigliarsene «e l’assegno lo invieremo ovviamente qui, in via Finlandia, 2, giusto?» chiese gettando un occhio al dossier ancora aperto.
«DOVEEE?» chiese la donna strabuzzando gli occhi.
«In via Finlandia, 2… Dalla relazione di sbobinatura della black box risulta che la vettura coinvolta nell’occorso parcheggia abitualmente in questa via. È qui che abitate, vero?»
«NOOO!!! Affatto! Noi abitiamo in piazza Toscanini, 24… In via Finlandia, 2 ci abita quella sgualdrina della sua amante!» disse inferocita la moglie alzandosi e indicando il marito alle sue spalle. E poi, rivolgendosi al marito: «Mi avevi giurato che non l’avresti più rivista» e gli assestò uno schiaffo sulla guancia così forte che i vetri della vicina finestra sembrarono tintinnare. «Sei un PORCO!» disse andandosene.
«Ma no, cara… ti posso spiegare…» mormorò il marito provando ad andarle dietro.

Termografie

TermografiaEra già qualche minuto che Ottìno, aspettando l’ora della cena, scrutava il vicino dalla finestra. Anzi, studiava qualcuno che probabilmente stava lavorando per il vicino. Sembrava un fotografo o qualcosa di simile perché quel tizio stava dietro a un apparecchio voluminoso che assomigliava tanto a una grossa macchina fotografica, anche se non lo era; ed era puntata contro la villetta di Berto. Controllava ogni tanto con attenzione il display colorato e poi spostava l’apparecchio montato sul treppiede in un altro punto della strada. La cosa stava andando avanti da un po’. Non resistette e scese a vedere.
«Buonasera, tutto bene?»
L’uomo davanti a lui, affaccendato com’era nella sua attività, non rispose. Dopo qualche attimo si girò.
«Ah, buonasera a lei… scusi ma non l’ho sentita arrivare, ero concentrato.»
«Sì sì lo vedo…» fece guardando ora anche lui in direzione del villino di Berto con ciò imitando l’uomo che stava a sua volta allungando il collo come per non farsi sfuggire alcun particolare. Aveva gli occhiali da vista sulla testa, incastrati in una folta capigliatura mossa e bruna, il dolcevita elegante e un jeans alla moda ne facevano più un gigolò di passaggio che un professionista.
«Si sta chiedendo cosa sto facendo, vero?» domandò l’architetto senza distogliere lo sguardo dal display su cui si era ingobbito.
Ottìno non rispose subito, quasi fosse stato scoperto sul fatto.
«Beh, sì, in effetti…»
«Sto eseguendo una termografia… una termografia a infrarossi» rivelò mettendosi dritto. Ottìno si accorse solo in quel momento di quanto il suo interlocutore fosse alto e lo sovrastasse di un palmo.
«Una termocosa?»
«Una termografia…» fece l’uomo sorridendo. «Questa è un’apparecchiatura che misura le radiazioni infrarosse emesse dai muri. La mappatura della temperatura superficiale è fondamentale per poter esaminare lo stato di conservazione dei materiali» e il professionista a questo punto si fermò per valutare l’effetto di quelle informazioni. Quindi, non avendo notato la minima reazione, proseguì: «è possibile in questo modo osservare le dispersioni di calore per poter intervenire, ma anche per individuare per esempio gli allacciamenti elettrici usurati o difettosi. Il termografo “vede” l’accumulo di energia e consente di riparare il guasto prima che possa originarsi un cortocircuito.»
«Caspita, molto utile… e funzionerebbe anche con casa mia?»
L’architetto lo squadrò ammutolito. «Certo… se non ha muri d’acciaio!» gli rispose ironico girando il termografo. «È quella casa sua?»
«Sì sì…» gli rivelò lui riluttante come se fosse un’informazione riservata.
«Vede?» gli fece mostrando il display che stava già registrando dei dati «lei ha un’importante dispersione di calore dal tetto, spende molto in riscaldamento, vero?»
«Non lo so, l’ho comprata da poco…» sbuffò lui spingendo le mani dentro alle tasche.
«Ehi, ma cosa abbiamo qui?» si chiese l’architetto imprimendo il dito indice contro lo schermo.
«Cos’ha visto?» disse Ottìno preoccupato.
«C’è qualcosa nei suoi muri… c’è una intercapedine?»
«Sì, penso di sì.»
«E quanto tempo fa le hanno consegnato la casa.»
«Un paio di mesi.»
«Direi che c’è un gatto che si muove tra il muro interno e quello esterno, non so come ci sia entrato, ma c’è ed è vivo: dovrà liberarlo.»
«Ma io odio i gatti!» sbottò Ottìno come se quell’affermazione dovesse chiudere ogni discussione sul nascere. L’architetto era rimasto basito per la seconda volta. Sollevò il termografo e il suo treppiede voltandoli nuovamente verso il villino di Berto; poi disse in modo conclusivo: «va bene, allora…»
I due si salutarono.
«Tutto OK?» gli chiese la moglie sentendolo rientrare. «Ho visto che sei uscito, qualcosa non va?»
«No no, tutto a posto cara, cosa c’è per cena?»
Poi si sentì urlare. Il bambino di undici anni era rientrato a casa con un grosso piccone prelevato in garage; pur facendo fatica a tenerlo in mano si stava dirigendo di corsa verso la sala.
«Presto, presto, non c’è un minuto da perdere…» gridò tutto trafelato «dobbiamo salvare un gatto!»

Sei d’accordo?

labbraQuando la vide entrare nel bar gli si allagò il cuore di una sensazione inebriante. Le piaceva tutto di lei. Quel suo modo di inclinare la testa come per chiedere scusa di esistere, quello sguardo dolce e profondo, pieno di promesse e di desiderio di vivere, quel modo di vestire sobrio ma elegante senza mai essere ricercato e sempre a suo agio in ogni occasione.
Lei lo salutò con uno dei suoi soliti sorrisi disarmanti, quella spruzzata irriverente di lentiggini che le si arricciavano sul naso per renderlo ancor più attraente, e si sedette al tavolino davanti a lui, leggera, come una nuvola di prima estate.
Sì, le piaceva tanto anche la sua voce. Lei parlava, come adesso, con quel suo tono suadente, confidenziale, facendo sembrare interessanti anche le questioni più banali. E poi quel suo velato accento straniero che aveva preso quando aveva studiato all’estero; lo si sentiva solo quando si emozionava e quando mostrava la parte più vulnerabile di sé; la rendeva esotica, misteriosa, piena di fascino. Gesticolava appena – gli piacque osservarla – quanto bastava a sottolineare le parole nel loro significato più segreto. Parole che le uscivano una dopo l’altra come un rosario antico da quelle labbra carnose, sensuali senza essere volgari o appariscenti.
E poi aveva quel leggiadro tic di portarsi ogni tanto i capelli da un lato a mostrare, all’improvviso, quel piccolo, morbido orecchio da mordicchiare, impreziosito da un diamantino sul lobo appena accennato che sembrava raccogliere tutta la luce del sole.
E poi arrivò il cameriere e lei ordinò senza esitazione anche per lui, perché ormai lei lo conosceva più di se stesso, nel profondo, come si addice a una donna che dopo tanto cercare era riuscito a trovare quale degna compagna, come futura madre dei suoi figli, come amica e complice di vita; l’unica persona su questa terra che dopo anni di felice sodalizio riusciva a farlo sentire finalmente completo e appagato, assicurandogli una sensazione di pienezza, di pacata serenità ma nel contempo di gioiosa vitalità.
Quanto l’amava!

«Allora sei d’accordo?»
Lui che era rimasto rapito dalla sua immagine da quando era entrata nel bar, non seppe che rispondere, essendosi accorto solo in quel momento che non l’aveva ascoltata.
Lei sorrideva. Era chiaro che si aspettava una risposta affermativa. Pensò.
«Ma certo!» rispose lui con entusiasmo dopo qualche secondo.
Lei gonfiò il petto generoso in un ampio sospiro.
«Sono proprio contenta. Sai ero tanto preoccupata. Dirti che ero incinta di un altro non era facile. Ma come ti ho detto, dobbiamo assolutamente rimanere amici, non dobbiamo perderci. Che persona meravigliosa che sei!»
E, alzandosi dalla sedia, gli mandò un bacio soffiandolo dalla mano e uscì velocemente dal locale.

Jamaica Inn

reception - albergo - campanelloSulla strada che da Launceston porta a Bodmin Moor si imbatterono in quella locanda. Anche se era rinomata, sarebbe rimasta tagliata fuori dall’itinerario originale se non fosse stato per la visita al Castello che aveva richiesto più tempo del previsto. Così, a quell’ora tarda, il Jamaica Inn era sembrata, all’improvviso, un’ottima soluzione per la notte.
«Come non ci sono camere libere?» chiese Basilio sentendosi addosso di colpo tutta la stanchezza della giornata.
L’uomo di fronte a lui era corpulento, con sopracciglia incolte e barba in ricrescita. Era strizzato in una maglietta leggera a larghe bande orizzontali che gli arriva sul ciuffetto di peli che gli circondavano l’ombelico prominente. Parlare non pareva poi essere la sua passione.
«È alta stagione, cosa pretende?» rispose Alwyn seccato indicando con il pollice, dietro di sé, la rastrelliera pressoché vuota di chiavi.
Basilio guardò la moglie come per chiederle aiuto, ma si accorse che anche lei aveva i lineamenti del volto molto tirati.
«E quella lì? È di una stanza libera?» domandò lei ad un certo punto additando la chiave n. 17 che penzolava in un angolo alle spalle dell’omone.
«Non gliela posso dare…» fece Alwyn senza neppure voltarsi, ben sapendo di cosa si trattava.
«E perché scusi?» fece Basilio allargando le braccia sul bancone nel tentativo, non riuscito, di apparire grosso e minaccioso.
«Perché è infestata di fantasmi!»
La coppia non si aspettava quella risposta e anche stavolta pareva avesse esaurito gli argomenti convincenti con cui replicare.
«Gliela pago il doppio!» sbottò d’un tratto Basilio volendo metter fine a quella discussione incresciosa. La moglie lo guardò in modo interrogativo.
«È sua!» fece Alwyn allungandogli rapidamente la chiave con un sorriso che parve di sfida.
«Ma sei impazzito?» gli chiese la moglie mentre caracollava le valigie insieme a lui su per le scale strette.
«È gente di campagna, cara, sono dei creduloni… cosa sarà mai! E poi sono davvero stanco…» le disse lui rassicurante e un po’ insofferente.
La camera risultò tranquilla, il letto confortevole e i cuscini molto soffici. Basilio si addormentò di schianto.
Poi, nel cuore della notte, si girò dal lato di sua moglie. La luce della luna piena che filtrava dalla finestra le illuminava il viso. Era sveglia e lo stava guardando con occhi dolcissimi e maliziosi che non ricordava di averle mai visto se non ai tempi in cui erano stati fidanzati. Forse, pensò, era quella stanza, forse quelle storie sui fantasmi o le suggestioni della Cornovaglia. Lei era così bella, calda, disponibile.

«Non dici niente?» chiese lui, al mattino, uscendo dal bagno.
«Che dovrei dire?» fece lei continuando a preparare la valigia.
«Ma di stanotte!» disse aggrottando la fronte.
«Già, nessun fantasma… che delusione, vero? Dovresti farti tornare indietro i soldi. Mi sa che han visto in te un gonzo da spennare…» e rise.
«Ma che fantasmi! È stato bellissimo fare l’amore dopo tanto tempo e con tanta passione… sembravi insaziabile!»
«Cosa? L’amore, con me?» domandò lei osservando incredula il marito, incerta se scoppiare a ridere oppure no. «Per paura che i fantasmi ci fossero davvero ho preso una doppia dose di sonnifero: non mi sarei svegliata neppure se la stanza fosse stata centrata in pieno da un treno in corsa» e gli mostrò un blister vuoto.