«Mi perdoni padre perché ho peccato.»
Don Mario fece un sobbalzo.
«Sono un povero diavolo e voglio confessarmi» disse qualcuno inginocchiandosi al confessionale. Il suo viso era così a contrasto con la sottile grata di rame che il prete poteva sentire il suo alito caldo riempire il confessionale. Odorava di aceto e di muschio, misto a incenso andato a male.
«E’ da tanto che non ti confessi, figliolo?» gli chiese don Mario riprendendosi.
«Ho molto peccato, padre» rispose l’altro come se non avesse sentito. «Più che altro ho fatto peccare. Ho fatto crescere l’odio in giovani menti, ho radicato in altre la cupidigia, la lussuria, la vanità, e ho dato a tutti disperazione e tormento.»
«Sei il capo di qualche banda?»
«Ho istigato l’incesto, la violenza sessuale, l’omicidio…» seguitava lo sconosciuto a ruota libera. La sua voce era profonda, monotona, vibrante. Sembrava un torrente tracimato nei campi. Il sacerdote ora sentiva caldo e gli mancava l’aria.
«Ho fatto tradire l’amore coniugale, ho distrutto l’orgoglio e la dignità di uomini onesti rendendoli corrotti e malvagi, ho messo figli contro padri, fratelli contro sorelle.»
«Ma tu ora, sei pentito?» sentì di dover dire a quel punto il prete.
La figura che gli era accanto si era fatta immobile. Don Mario avvertì alcuni singhiozzi, dapprima contenuti, poi più chiari, frequenti e liberatori. Il sacerdote si sentiva in imbarazzo. Si asciugò il sudore che gli colava lungo il collo e la schiena, e disse:
«Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine…»
Ma il tipo alla sua sinistra non c’era più. Il gelo si era fatto di nuovo strada nel confessionale come se fosse piombato in una cella frigorifera. E la luce della torcia si accese all’improvviso.