Soccida

Stava leggendo per la quarta volta la definizione di sòccida accorgendosi però di non riuscire non solo a memorizzarla, ma neppure a capirla. Alzò lo sguardo sulla parete di fronte come per chiedere aiuto. Un gatto stilizzato, raffigurato su un calendario fermo a due mesi prima, lo squadrava in modo interrogativo.
Si alzò dalla sedia, come un automa, voltandosi verso la porta. Gettò un’occhiata complessiva alla sua stanza come non faceva da anni. Dio mio, era squallida. Pensò. Disordinata, anonima, disadorna. La luce entrava da una grande finestra orientata ad est sorprendendo nell’aria miliardi di pulviscoli che si scontravano confusamente l’un contro l’altro. Era irreale, aliena, malata. Quella stanza avrebbe potuto essere in una parte qualunque del globo. Pensò. E il silenzio morbido in cui era calata accentuava la sensazione di isolamento anche se, da qualche parte nella casa, ci dovevano essere i suoi. Oppure no?
Da quanto tempo non usciva da lì? Aveva iniziato a studiare per quel maledetto concorso e il tempo in un anno si era inghiottito domeniche, festività e compleanni. Un mostro vorace e insaziabile capace solo di generare ansia e insonnia. Ma come si era ridotto? Si chiese guardando un paio di mosche che si agitavano in un piatto con traccia di resti incrostati di chissà quale pasto.
Alle sue spalle una finestrella in alto, di cinquanta centimetri per cinquanta, gli restituiva un rettangolo tremolante di verde. La luce del sole era più tenue, ma non riusciva a ricordare che cosa ci fosse al di là di quel vetro. Tese una mano verso quella luce sbieca, come per afferrarla. Ma era troppo lontana. Salì sul suo tavolino, travolgendo libri, bloc-notes e penne colorate. La finestrella era ancora irraggiungibile. Scese dalla scrivania, sollevò la sedia e la posò sul pianale della scrivania montandoci sopra. Sì, ora riusciva a toccare la maniglia. Provò a girarla, era incastrata. Erano anni che nessuna la apriva. Riprovò con tutte e due le mani. Dopo un po’ la maniglia cedette e la finestrella si spalancò di colpo facendo entrare nell’aria viziata della stanza un profumo di alloro selvatico e di lillà. Sembrava un invito.
Senza pensarci due volte, quasi fosse un detenuto che avesse trovato una via insperata per evadere, si spinse attraverso la finestrella e a fatica la traguardò. La testa andò a picchiare contro un rivestimento in gomma a protezione di un piccolo melo. Era nel giardino del vicino anche se non si ricordava di avere un vicino. Passò con tutto il corpo e si mise in piedi dall’altra parte. Si guardò attorno e si rese conto che, se non fosse stato accanto a casa sua, non si sarebbe mai orientato. Forse il confine della proprietà era più in giù o forse no. Ma lui dov’era?
Prese a percorrere la strada battuta che si apriva sulla sua destra e di lì a poco si imbatté in un bellissimo campo da tennis in tartan. Sembrava costruito di fresco. ‘Un campo da tennis accanto a casa? E da quando?’ Si domandò.
Non c’era nessuno in giro, solo la luce dell’ultimo sole gentile del pomeriggio. Qualcuno aveva giocato da poco, perché c’erano palline giallo fluo sparse sul campo; poi vide che, in fondo, la strada sterrata sembrava proseguire identica e promettente e allora decise di percorrere tutto il campo per la sua lunghezza, anche se con titubanza. Dopo un cancello spalancato in legno, gli si aprì davanti un prato all’inglese molto ben curato e, in lontananza, sulla sua sinistra, una baita accogliente. Prese di nuovo verso destra, verso quello che sembrava un bosco di abeti, stupito che ce ne potesse essere uno da quelle parti avendo sempre pensato di abitare in una delle tante case di città.
L’aria era tersa, pulita. I suoi polmoni si riempivano a ogni passo di serenità e di una strana ebrezza mai provata.
E passò davanti a un laghetto verde/azzurro in cui nuotavano carpe e trote.
E passò davanti a una distesa immensa di mirtilli bluette e succosi.
Sfilò accanto a una mandria di mucche al pascolo che lo assordarono con i loro campanacci festosi.
E poi proseguì ancora per non tornare più.

Il concorso

fiera-di-roma-concorso-magistraturaAppena dopo aver sentito qual era il tema del terzo scritto gli venne da piangere per il nervosismo accumulato in quei tre giorni. In quello di esordio la traccia era difficile ma fattibile, durante il secondo era rimasto più di un’ora a scrivere in un angolo del foglio uso bollo quale potesse essere il possibile sviluppo del tema; aveva dei vuoti di preparazione per un passaggio cruciale della prova ma poi alla fine era riuscito a capire cosa effettivamente buttar giù realizzando un elaborato finanche al limite del soddisfacente.
Ed ora, preso nota della terza traccia, non ci poteva cedere che si trattava di un argomento che conosceva benissimo per averci scritto addirittura la tesi di laurea. Il suo sogno si stava realizzando. Dopo anni di studio, di sacrifici, di rinunce, cominciava a vedere la fine. Il superamento degli scritti in quel concorso, lo sapevano tutti, assicurava un buon 80% della sua riuscita perché la selezione era feroce e spietata.
Non si fece prendere però dall’eccessivo entusiasmo. Era stanco, aveva mangiato e dormito pochissimo. Ma ce la poteva davvero fare. Decise allora di non scostarsi dal suo metodo dei giorni precedenti e che aveva già dato buoni frutti. Prima in sintesi l’indice e i paragrafi con cenni sul contenuto e infine la stesura vera e propria.
E anche se le parole, le idee, i pensieri adesso gli si affollavano nella mente per essere l’argomento più che noto, la prese comunque con calma, senza fretta, con giudizio.
Così, quando mancavano circa tre ore al termine della prova, iniziò a scrivere in bella, con grafia comprensibile cercando di non lasciarsi andare a modifiche dell’ultimo momento. Al completamento si poteva dire soddisfatto: anche se i primi due compiti li poteva definire appena sufficienti con il terzo aveva centrato l’obbiettivo. Il superamento delle prove era adesso alla sua portata.
Si era nel frattempo quasi fatta l’ora di consegnare. Si alzò. Stava rileggendo qua e là, ma solo per scrupolo, quando la luce generale dei locali si abbassò sino a spegnersi. Glielo avevano detto che in quei concorsi facevano così. Era un modo per avvertire i candidati nelle diverse sale dove si svolgeva il concorso che era il momento di consegnare; l’abbassamento della luce era anche un modo per non consentire di scrivere ulteriormente.
La cosa strana, però, è che lui sapeva che le luci si spegnevano e si accendevano per tre volte consecutive, dopodiché la luce veniva molto attenuata ma non spenta del tutto così come stava accadendo. Qualcosa non stava andando per il verso giusto.
Sentiva intorno a sé il brusio dei candidati che si stavano alzando dai loro banchi. Cercò istintivamente il cellulare per farsi luce ma poi si ricordò che l’aveva consegnato all’entrata, come tutti del resto, prima di sedersi. Si mosse a tentoni, provando a ricordarsi com’era la fisionomia dell’aula e la ubicazione della cattedra principale ove consegnare il compito. Ogni tanto sentiva il fruscio di qualcuno che gli sfilava silenzioso accanto, l’odore di una merendina, il profumo leggero alla frutta di qualche ragazza.
Dopo un po’ la luce all’improvviso tornò. Si accorse di trovarsi da solo in un corridoio molto ampio da cui non era mai passato. Guardò l’ora: era le 18.10. Doveva assolutamente consegnare. Accelerò il passo. Alla fine del corridoio girò a destra finendo in un’ampia sala vuota. C’erano tracce di un buffet e vassoi semivuoti. Cominciò a disperarsi. Prese a gridare se ci fosse qualcuno e dopo un po’ uscì da una stanza un signore brizzolato, con gli occhiali spessi e l’aria contrariata.
«Ma è impazzito? Cosa urla? Dove pensa di essere?» gli chiese con la faccia torva.
Lui spiegò che era un candidato e che stava cercando il modo per consegnare il compito. Gli mostrò anche i fogli che aveva ancora in mano.
L’uomo brizzolato gli chiarì che a quel piano non c’erano aule. Gli spiegò che non avrebbe dovuto salire le scale e che doveva scendere la prima rampa a sinistra.
Quali scale?‘ disse lui non accorgendosi di alzare la voce. ‘Io sono sempre rimasto al piano”. Ma l’impiegato così com’era uscito di fretta dalla sua porta vi rientrò sbattendola.
Lui allora si mise a correre nella direzione indicata ed effettivamente trovò un’ampia rampa. Il cuore gli martellava nel petto. Non poteva perdere l’occasione di consegnare il compito. Non quella volta.
Arrivato al pian terreno vide davanti a sé una porta chiusa con un maniglione antipanico rosso e un vistoso cartello a lettere cubitali: “AULA DI ESAME”.
Meno male’ pensò mentre il sudore freddo gli si stava rapprendendo sulla camicia. Si avventò sulla porta con tutta la forza che aveva. E si ritrovò in strada. Era il traffico della sera, caotico, ostile, ottuso. Si voltò per tornare indietro ma intanto la porta si era chiusa dietro di lui con uno scatto definitivo. I fogli uso bollo, finemente scritti, gli caddero dalle mani.

Il Palazzo dei Corazzieri

Non se l’aspettava davvero: di essere licenziato a cinquant’anni. Proprio adesso che aveva moglie e due figli; come avrebbe fatto a mantenere la sua famiglia?
Dopo le prime settimane di acuta disperazione, la prese come una inaspettata opportunità. Come in quel film americano dove il protagonista, che per lavoro faceva il ‘tagliatore di teste’, andava in giro per gli States a licenziare i dipendenti in esubero delle società in crisi finanziaria. Sì, dopo tutto, c’era quel suo vecchio sogno da realizzare che aveva dovuto accantonare quando aveva deciso di sposarsi e ora, che gli si era azzerata ogni prospettiva, poteva pensarci seriamente.
Così quel mattino si vestì con giacca e cravatta, anche se era non affatto necessario per una prova scritta (ma non si sa mai nella vita gli aveva sempre ripetuto la madre) e partì per la grande città. Il concorso era stato bandito da tempo, ma era riuscito a presentare all’ultimo momento le carte necessarie per potervi partecipare.
La notte dormì poco e il viaggio in treno lo incupì ancora di più perché le prime luci del giorno sembravano non voler più sorgere dal mare.
Arrivò al Palazzo dei Corazzieri, in pieno centro città, molto presto, ma c’era già una lunga fila di candidati che si snodava dal portone settecentesco riempiendo l’ampia Scalinata Monumentale e parte del Giardino dei Popoli. Erano tutti giovani o giovanissimi e, un po’ per l’età un po’ per il vestito, lo scambiarono per uno dei componenti la Commissione. Poi, all’improvviso, aprirono il portone massiccio e subito sciamarono dentro in migliaia, vociando e scherzando, come se fosse un giorno di festa. Il suo numero di candidato corrispondeva a un’aula enorme, forse la più grande tra le tante, dove il suo banco appariva ancora più minuscolo di quello che era. Non c’era neppure il suo nome e cognome sul pianale ma solo una serie impressionante di cifre. Si immaginò per un attimo dall’alto: pareva un’aringa in un mare di aringhe, in un oceano immenso.
Iniziarono a dettare un’ora dopo. In quello stanzone l’acustica era pessima e così sentì solo una parola su tre. Gli venne il panico. Se non avesse capito il tema come avrebbe potuto svolgerlo? Si guardò attorno, ma era l’unico che non aveva capito. Gli altri partecipanti erano tutti chini sul proprio foglio e stavano riportando diligentemente quello che avevano sentito.
Di lì a poco iniziò la prova e tutti si misero a scrivere come se non avessero aspettato altro. Chiese allora al vicino se gli dava la traccia ma gli rispose male. L’altro candidato non gli rispose affatto mentre il terzo minacciò di chiamare il sorvegliante.
Cominciarono a passare i minuti e con i minuti la prima mezz’ora. Non c’era nessun membro della Commissione cui rivolgersi per completare la traccia. Si stava agitando sempre più.
Intravide allora, mentre si recava in bagno, la figlia di una sua vecchia amica. Poteva farsi dare da lei il titolo completo. La intercettò mentre usciva dalla toilette.
No, non l’aveva capito neppure lei, gli disse, anche se lui aveva ben compreso invece che non era affatto vero; anche perché la ragazza gli rinfacciò che ricordava benissimo che lui aveva lasciato la madre vent’anni prima e lei bambina senza una spiegazione plausibile. ‘Ma diosanto‘, le obbiettò, ‘eri tanto piccola come puoi ricordarlo? E poi è una storia molto più lunga e complessa di quello che pensi e non è tutta colpa mia’. Ma lei, dura, gli suggerì di rivolgersi al pian terreno, alla stanza 88, lì gli avrebbero dato la traccia completa. C’era un ‘ufficio apposta’. Lui guardò l’orologio con angoscia: aveva perso un’altra mezz’ora.
Così scese alla stanza 88. Ma poi gli spiegarono, in realtà, che l’’ufficio apposta’ si trovava al piano superiore, alla stanza 108, che però non c’era. C’era invece la 107 dove un impiegato scorbutico, senza neppure alzare lo sguardo dal computer, gli fece notare che a quel piano non ci potevano stare i candidati e che l’ufficio che cercava era stato da tempo soppresso; sarebbe bastato del resto chiedere a un componente della Commissione. L’impiegato lo invitò quindi, in malo modo, a uscire dalla porta che indicava imperiosamente, porta che lui varcò senza convinzione. E infatti si ritrovò in un lungo corridoio spoglio e bianco che dava su porte tutte uguali e bianche. Non si capiva più a che piano fosse né in quale parte del palazzo dei Corazzieri si trovasse. Il mare che avrebbe dovuto essere a sud aveva lasciato il posto a vicoli stretti e bui dove il cielo sembrava non esistere. Infilò di fretta, non appena la scorse, la porta di fondo che recava un cartello con su scritto a mano ‘SALA CONCORSI’. La aprì ma si ritrovò in strada. Se ne accorse in ritardo non appena il portone si chiuse dietro di lui con lo scatto tipico di un trappola senza scampo. ‘Se faccio una corsa attorno al palazzo ritrovo la porta di ingresso e rientro da lì’ pensò. Controllò l’orologio. Si era fermato. Si mise a correre. Ma dopo aver svoltato a destra e poi ancora a destra per la seconda volta, invece di imbattersi nella Scalinata Monumentale trovò un mercato. Non era possibile! La scalinata doveva essere proprio lì, davanti a lui.
«Mi scusi» chiese con l’ansia che gli stava attanagliando la gola «il Palazzo dei Corazzieri… come ci arrivo da qui?»
Il vigile urbano, cui si era rivolto, lo guardò come se non avesse capito.
«Palazzo dei Corazzieri?» scandì poi lentamente alzando di poco il casco come per parlare meglio: «Guardi… non esiste un palazzo con un nome simile in città.»
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dietro il racconto
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