Luce divina

Milleottocento soldati erano schierati in ginocchio sulla Sacra Spianata della Reggia sin dalle 4 del mattino. Il luogotenente Han Chou Tseng aveva voluto approfittare dell’assenza dell’Imperatore per provare il saluto al Discorso annuale d’Estate che sarebbe stato fatto quel giorno. ‘Colui che si è fatto Signore Supremo‘ (che il Suo Nome abbia gloria eterna) si trovava ancora nella Dimora delle Sette Vette a godere dell’ombra fresca d’altitudine e sarebbe giunto poco prima delle 18, appena in tempo per la Sua prolusione. C’era tutto il tempo, dunque. I milleottocento soldati della Guardia d’Onore, vestiti con l’armatura da cerimonia, ancora più pesante ed ermetica di quella da battaglia, si trovavano da ore sotto un sole oramai cocente.
Ciò che le armate disposte in formazione dovevano imparare era gridare per tre volte 哦神聖之光 (‘Oh Luce divina’) e ogni volta, sempre rimanendo in ginocchio, prostrarsi a terra fino a baciare la polvere. Solo che il grido, un ‘urlo rapido e lucente’, così lo aveva definito Han Chou Tseng, e il conseguente movimento del profondo inchino, dovevano essere eseguiti all’unisono, come un solo uomo, pena la morte seduta stante. E di questa sanzione si faceva carico volentieri Yen Pan Hsieh, chiamato da tutti l’Uomo di Pietra, per la sua forza sovrumana e l’inaudita efferatezza dimostrate sul campo di battaglia. Era peraltro capace con una precisione millimetrica di lanciare a centinaia di metri il suo giavellotto leggero e trafiggere da parte a parte il soldato che Han Chou Tseng avesse indicato come non rispettoso dei suoi ordini. Una volta che fosse stato colpito, il milite veniva poi prontamente trascinato via da altri due addetti che, per cancellare ogni possibile traccia di sangue, cospargevano sul posto il pietrisco minuziosamente selezionato del Monte Pallido; un altro guerriero, entusiasta, sarebbe stato pronto in modo solerte alla sostituzione.
E perché nulla dovesse e potesse sfuggire, era stata anche edificata una torre in bambù alta 100 piedi che sorreggeva una cabina. Da lassù, un altro alto Ufficiale era in grado di valutare ancor meglio l’unicità e l’omogeneità del movimento sincrono di quella massa nervosa e fremente e cogliere così la minima imperfezione.
«Quarta fila, quel maledetto, quel maledetto!» aveva gridato a un certo punto l’Ufficiale di Vedetta sporgendosi pericolosamente dalla torre che vacillò. La lunga bacchetta che vibrava nelle sue mani piene d’ira per dover constatare che, nonostante le otto ore di prova, ancora qualcuno stava sbagliando, indicava confusamente un soldato nel gruppo davanti. L’Uomo di Pietra subito accorse come se il milite stremato in ginocchio gli dovesse sfuggire. Giunto al suo cospetto, rivolgendosi all’Ufficiale di torretta, gli urlò: «Chi esattamente? Questo qui o quello accanto?»
«Quel maledetto, quel maledetto!» ripeté in modo meccanico l’Ufficiale furente sporgendosi ancor di più dalla ringhiera, ma senza far capire però chi dei due dovesse essere il colpevole. L’Uomo di Pietra si spazientì e, per non sbagliare, passò a fil di spada entrambi i soldati che si accasciarono uno sopra all’altro senza un fiato. Il Luogotenente, accortosi che per questa complicazione aveva perso fin troppo tempo, sempre di corsa, riprese il suo posto davanti alle truppe.
Si proseguì così sino a pochi minuti alle 18.00.
«Quanti ‘indegni‘, in tutto?» chiese Han Chou Tseng, parzialmente soddisfatto, al suo Sottufficiale; il Luogotenente alludeva ovviamente a quanti dei suoi militi fossero stati uccisi durante le prove.
«152, Signore… meno degli anni scorsi, comunque…»
«Stanno imparando, allora, dopo tutto!» commentò il Luogotenente abbozzando quello che avrebbe dovuto essere un sorriso.
In quel mentre il Ciambellano dell’Imperatore comparve improvvisamente sulla Terrazza della Divinità Celeste. Il suo incedere era lento e maestoso. Era solo. Tutti trattennero il respiro.
«Sua Maestà, il Luminosissimo Imperatore (che la Sua Infinita Sapienza e la Sua Profondissima Saggezza ci proteggano sempre e ci conducano alla Vittoria)…» declamò il Ciambellano con voce stentorea e ieratica, assaporando tra gli astanti la tensione vibrante dell’attesa, «ha un leggero mal di capo. Il Discorso d’Estate è rimandato al prossimo anno.»
E nel fruscio della sua lunga veste di seta, si accomiatò.

Una pesca spettacolare

(segue dal precedente post “La festa del passero montano”)

Wang Qi Shi si stava voltando verso il gruppo per invitarlo a unirsi alla festa quando si accorse che dietro a lui non c’era più nessuno. Tutti i gitanti, alla spicciolata, se ne erano già andati. Tutti tranne ovviamente Gregorio che gli sparò a bruciapelo l’ennesimo «e allora quando si mangia?»
Alla corriera, gran parte dei lughesi aveva evidenti disturbi di natura neurovegetativa per non aver gradito lo spettacolo. Per fortuna alcuni insulti in stretto dialetto di Poggiobrusco e dintorni sfuggì all’orecchio attento della guida che, per risollevare gli animi, visto che ormai era passata l’una e il pranzo a base di passeri era sfumato, propose:
«Vi va di mangiale pesce?» Gino e Rosa che si tenevano ancora per mano lo guardarono con sufficienza come se avesse fatto una battuta. Il resto del gruppo mostrò un tiepido interesse. «Bene allola è deciso. L’unico ploblema è che dovlete spingele colliela, ma solo poco poco, poi tutta discesa, fino a paese Do Nheng, dove essele case di pescatoli, voi mai visto, poco lontano da qui. Tanta gente, tanti cololi, e poi tanto pesce, tutto glatis…»
Di mala voglia la comitiva si mise a spingere la pesante corriera sotto una canicola terribile che sembrava voler liquefare la strada sterrata. «Spingete, spingete ancola, con più nelbo, folza, folza miei plodi!» gridava Wang Qi Shi dal suo posto di guida cercando di assecondare i movimenti del mezzo come fosse stato su un cavallo. La corriera, cigolando, si mosse lentamente. Il prof. Locatelli stramazzò un paio di volte al suolo, mentre Ada e Pina, lo calpestarono duramente, senza smettere però di sferruzzare e spingendo di schiena. I tre sordomuti, per poter comunicare tra loro a gesti, ogni tanto smettevano di spingere sicché la corriera tornava indietro, mentre Don Rosario, della cui presenza nessuno fino a quel momento si era accorto, seguiva a capo chino il gruppo, assorto nella preghiera. Poi, pian piano, la corriera prese la discesa e tutti, in modo più o meno elegante, riuscirono a salire a bordo. L’ultimo fu Gregorio che si era attardato a osservare il seno prosperoso di Matilde ballonzolare nella corsa.
«Yappiiiiii» gridava Wang Qi Shi a ogni curva.
«Rallenti, per l’amor del cielo, rallenti» dissero Gino e Rosa all’unisono.
«Macché lallenti! Conosco queste culve come mie bisacce!» fece il cinese sempre più entusiasta, «potele fale stlada anche a occhi chiusi…»
E infatti chiuse gli occhi. La corriera carambolò giù dal costone a imitazione di una pallina del flipper atterrando sul molo di Do Nheng come un proiettile. Per il contraccolpo Wang Qi Shi fu trovato incastrato sotto il sedile di guida dove ritrovò alcuni nichelini di un precedente tour, mentre le due donne anziane, con i rispettivi ferri da maglia, si erano infilzate il rispettivo cappellino con la veletta nera. Solo Gregorio era atterrato sul seno verace di Matilde cercando di non respirare perché la ragazza non rinvenisse troppo presto.
«E allora quando si mangia?» chiesero questa volta i tre sordomuti gesticolando in modo inequivocabile e fiutando l’aria alla ricerca di un ristorante.
«Appena pescato pesce» disse trionfante il cinese come se se lo fosse inventato lì per lì. Lo sguardo bieco e vendicativo del gruppo si concentrò sulla guida.
«Dovremmo a quest’ora metterci qui, sotto questo sole, con le canne, a pescare il pesce?» chiese il prof. Locatelli arricciando il naso nel tentativo di supplire alla perdita degli occhiali.
«Canne da pesca? Quali canne da pesca? Ah ah, tu simpatico… A Do Nheng il pesce lo cattulano lolo…» e indicò alcuni uccellacci appollaiati sulle barche. Dopo pochi minuti tutti gli ospiti avevano già preso posto su piccole imbarcazioni traballanti con ciascuna un cormorano sulla prua che scrutava l’orizzonte come un nostromo. Il prof. Locatelli, che non ci vedeva più niente, aveva preso per il becco il suo cormorano e lo agitava a destra e a sinistra pensando fosse il timone. «Vado bene così?» ripeteva in continuazione senza ottenere risposta. Ada e Pina, che avevano finito finalmente il maglione, lo stavano invece provando mettendolo addosso al loro cormorano, commentando il lavoro. Gregorio, che aveva issato sulla barca Matilde ancora svenuta, visto che il suo volatile si era invece tuffato già tre volte, considerava la cosa molto promettente pregustandosi una grigliata mista. Purtroppo nessuno aveva posizionato gli appositi anelli al collo degli uccelli per impedir loro che il pesce ingoiato finisse nello stomaco. Così ben presto i cormorani si rifiutarono di truffarsi visto che avevano la pancia piena.
«Agita bene tuo uccello» suggerì allora la guida a Gregorio per far uscire dal becco i pesci ingurgitati. Matilde, rinvenuta in quel momento, a sentire l’invito del cinese e riscoprendosi da sola con quel maniaco di Gregorio sulla barca, si tuffò a nuoto e di lei non si seppe più nulla. Gregorio per un po’ ci rimase male, ma poi la fame prese il sopravvento. E avendo preso sul serio la raccomandazione della guida, afferrò per il collo il suo cormorano scuotendolo come un melo. «Molla il pesce, molla il pesce, puzzone di un volatile». Il cormorano, oramai violaceo per un principio di asfissia, sputò l’ultimo branzino ingoiato in ordine di tempo. Gregorio lo raccolse ancora vivo e lo esibì come un trofeo. E subito il suo cormorano, con un preciso colpo di becco, glielo staccò di mano insieme al costosissimo rolex. Solo don Rosario riusciva, con aria benedicente, a far saltare i pesci nella sua barca sotto l’occhio incredulo della comitiva. Poi, dopo aver moltiplicato i pesci, ne distribuì volentieri anche agli altri.
Nel frattempo si era fatto sera e il gruppo era stremato dalla fatica. Qualcuno chiese di essere portato nel più vicino albergo per riposarsi.
«Ma siete già nel vostlo letto» disse radioso il cinese indicando le rispettive barche. I gitanti erano troppo stanchi per protestare e ciascuno si raccolse nel ventre umido della propria imbarcazione dove si addormentò all’istante.
La luna si alzò lentamente nel cielo, illuminando un paese da fiaba, mentre sulla pancia prominente del prof. Locatelli si piazzò un’enorme rana delle paludi che si mise a gracidare nei rari momenti i cui l’uomo non russava, eseguendo così un duetto che rimase indimenticabile.
«Come mi piace questo lavolo» sospirò il cinese intenerendosi. «Un’altla giolnata spettacolale.»

La festa del passero montano

La corriera annaspava sulla salita dello Yan-Tze Dhang. Il rumore che proveniva da sotto i piedi era sospetto ma il gruppo di gitanti cercava di non farci troppo caso. La prospettiva di visitare il tempio taoista di Lai-neh, il più antico di tutta la regione, aveva alimentato l’entusiasmo del gruppo. La giornata era afosa e, già a quell’ora, il sole era rovente. L’autista, Wang Qi Shi, un buffo cinese di Macao che, dopo un passato burrascoso da pescatore di frodo, aveva investito tutti i suoi risparmi in quella ditta di tour operator, non smetteva mai di sorridere. La comitiva di Lughi, tuttavia, al suo terzo giorno di viaggio, aveva già sperimentato a sue spese l’avvilente disorganizzazione del giro, ma preferiva non pensarci; i lussuosi alberghi promessi si erano rivelati poco più di una stanza in catapecchie rurali liberate in fretta e furia dal contadino di turno, che aveva assiepato tutta la famiglia nell’unica stanza rimasta, mentre i tanto pubblicizzati ristoranti romantici a lume di candela altro non erano se non una stuoia di bambù stesa sull’erba su cui erano state risposte scodelle mal lavate e riempite a metà di riso scotto e insapore.
La corriera aveva fatto appena in tempo a guadagnare la cima della collina che il motore si spense in un singhiozzo. «Nessun ploblema, nessun ploblema» disse Wang Qi Shi catapultandosi fuori dall’abitacolo, non smettendo di sorridere. Alzò con molta fatica lo sportello del vano motore e sparì dentro. Nel frattempo, il sole impietoso convinse il gruppo a scendere e a sgranchirsi le gambe. Era aperta campagna, il paesaggio era brullo e stopposo, e i grilli stavano dando libero sfogo al loro frastuono cacofonico. Il prof. Locatelli disse qualcosa a proposito del fatto che lui, in quel posto dimenticato da Dio, non ci voleva venire e che era tutta colpa della moglie. Salvo poi considerare che forse la moglie l’aveva lasciata in quel tugurio di casa da dove erano partiti la mattina presto. Rosa e Gino si tenevano invece per mano, sorridendosi e baciandosi tutto il tempo: quello era il miglior viaggio di nozze che avessero potuto desiderare; non avevano occhi che per i loro occhi. I tre sordomuti si stavano spiegando l’un l’altro quanto accaduto. Demetrio, quello più allampanato di loro, si era messo come al solito contro sole, sicché aveva capito solo un gesto su cinque.
In quel mentre lo sportello sul retro della corriera si aprì di colpo vomitando Wang Qi Shi sulla strada polverosa.
«Una notizia buona e una cattiva…» disse rimettendosi in piedi con un saltello e un sorriso smagliante. Il gruppo si girò verso di lui.
«Non andlemo più al tempio Lai-neh…»
«E la notizia cattiva?» fece Gregorio, un ventenne con la faccia sempre imbronciata, che non riusciva a staccare gli occhi dal seno prosperoso di Matilde, la giovane biondina che lo aveva ignorato sin quando erano partiti da Collefili.
«No, quella notizia buona. Tempio Lai-neh non bello, già stato mio cugino e lui dice tloppe scimmie e tloppa puzza e poi tutti uguali quei templi lì. No, quella cattiva è che colliela defunta, molto defunta. Cinque giolni almeno pel avele pezzi licambio. Ho già pallato con cugino: nessun ploblema, nessun ploblema.»
«E adesso che facciamo?» chiese il professor Locatelli che si stava finalmente godendo il momento di poter parlare senza che la moglie lo interrompesse di continuo. Wang Qi Shi consultò la mappa come un generale prussiano e poi esclamò: «Possiamo vedele festa nazionale del passelo montano!»
«Passero montano?» chiesero tutti quasi in coro.
«Sì, sì, bellissima festa, tipica cinese, voi mai vista, poco lontano da qui. Tanta gente, tanti cololi e poi glande festa e cibo glatis.»
«Che ne pensi, cara?» chiese Gino a Rosa dandole un bacio. «Mi sembra una cosa carina, topino mio, magari ci divertiamo» disse Rosa a Gino restituendogli il bacio. Il resto del gruppo mugugnò un sì di assenso, comprese Ada e Pina che, come api operose, continuavano a intrecciare imperterrite i loro ferri da maglia formando per il loro nipote Nuccio un pull over a coste di lana siberiana iniziando l’una dal collo e l’altra dal fondo. L’improbabile comitiva, piuttosto che restare sul posto ad arrostire al sole, con la prospettiva oltretutto di rimanere a digiuno, si mise in marcia dietro a Wang Qi Shi che, a dispetto delle gambette storte e macilente, aveva un passo da guida dolomitica. Dopo circa mezz’ora, alla spicciolata, arrivarono sudati e ansimanti su una montagnola aggettante un prato immenso che conteneva, a perdita d’occhio, migliaia e migliaia di contadini. Erano tutti immobili, in piedi, in assoluto silenzio: guardavano un punto fisso dell’orizzonte come oggetti inanimati in attesa di un soffio di vita. La comitiva lughese si sedette compita sul prato, rapita da quello scenario biblico che si stava compiendo sotto i loro occhi. Wang Qi Shi sorrise a tutti, come per dire: ‘Visto che spettacolo?’
Poi, all’improvviso, tutti i presenti nel campo lanciarono all’unisono un urlo assordante. Stormi di passeri montani si levarono in massa impauriti in ogni direzione. Il cielo era diventato scuro di uccelli e un’ombra fredda si proiettò sulla terra. Per un po’ i passeri volarono qua e là alla rinfusa, poi, appena cercavano di posarsi sui rami degli alberi, i contadini ripeterono il loro urlo lancinante alzando nel contempo le braccia. Lo fecero più e più volte, fino a quando ai passeri cominciò a scoppiare il cuore per lo sforzo di sostenersi in volo, finché caddero fulminati a terra, uno dopo l’altro, come in una pioggia nera.
«Eh? Che dite?» fece Wang Qi Shi che si era alzato in piedi saltellando sul posto dall’eccitazione. «Che spettacolo spettacoloso, velo? Passeli montani nocivi pel campi.»
La coppia in viaggio di nozze aveva smesso di baciarsi inorridita e Ada e Pina di sferruzzare forsennatamente. Il professore aveva la bocca spalancata e i tre sordomuti non osavano più guardare né gesticolare. Solo Gregorio ebbe coraggio di chiedere: «e allora, quando si mangia?»
«Tu aspettale…» fece pronto Wang Qi Shi radioso «adesso noi fale scolpacciata di passeli montani…»

(prosegue con il post  successivo “Una pesca spettacolare”)