L’ultimo Conte

vecchio libroL’idea di pernottare in uno château indépendant lo aveva sempre attratto; e la guida gli segnalava che ce n’era giusto uno nelle vicinanze che aveva aperto da poco.
Quando Peter arrivò, senza prenotazione, nel domain, il padrone di casa, un uomo sulla settantina, dai tratti fini e dalle buone maniere, lo ricevette in vestaglia e, benché fosse molto sorpreso di avere già un ospite, fu molto gentile e disponibile. Gli assegnò una bella stanza al primo piano e poi, già vestito di tutto punto, fu felice di fargli visitare la tenuta. Gli raccontò che era l’ultimo Conte di Arméville, che la sua famiglia era imparentata, da parte materna, con Giovanni II di Francia, il duca di Berry, e che i suoi antenati erano sopravvissuti alla Guerra dei Cent’anni, alla Révolution e alle terribili deportazioni verticali della insurrezione vandeana.
«Chi è quel signore?» chiese Peter indicando un uomo raffigurato in un’ampia tela che pendeva dal muro lungo le scale.
«Quello? È mio zio Henry di Vallécourt, XVI° Conte di Arméville. È stato assassinato in circostanze misteriose. È stato rinvenuto nel pozzo della tenuta, pugnalato a morte. Trovarono in casa i segni evidenti del passaggio di alcuni sbandati che per un certo periodo imperversarono nella zona nei primi del ‘900. Un ragazzo promettente, colto, intelligente e bello. Mio nonno ci fece una malattia, perché era il suo preferito. Fu una tragedia immane che ancora pesa sulla mia famiglia.
Il Conte gli fece vedere anche la fattoria che forniva latte di qualità a mezza regione, i cavalli di razza e gli ottocentocinquanta ettari coltivati a mais, grano e viti pregiate.
Dopo una cena, che a dir poco Peter trovò sontuosa, verso le ventitré, decise di andare a dormire. Non prima di passare dalla biblioteca che conteneva migliaia di volumi anche rari. Ne scelse uno che raccontava diffusamente l’avventurosa storia degli Arméville. Lo sfilò dallo scaffale e se lo portò in stanza. Voleva approfondire l’argomento. Si appassionò alla lettura fino a quando, da una delle ultime pagine, cadde un foglietto piegato in due. In una grafia ariosa ed elegante c’era scritto:

Se mi accadrà qualcosa, ebbene si sappia che a uccidermi è stato il Marchese Guillaume du Quiéspe de Bartholdy-Laroche. Ho amato/riamato sua moglie.
9 agosto 1908

Peter si sedette sul letto. Lesse più volte quelle righe. Anche se il francese non era la sua lingua madre quelle parole non potevano avere un altro senso.
Nel frattempo, sentì aprire la pesante porta della camera. Nella penombra entrò lentamente una figura. Peter non distingueva bene.
«È lei, Conte?» chiese ad alta voce. «È successo qualcosa?»
La figura non rispose. Se ne stava immobile, in disparte. Poi fece un passo avanti facendo scricchiolare l’impiantito.
«No,» sentì dire da una voce rauca e debole. «Quel foglietto l’ho cercato per ogni dove. Ero certo che Henry l’avesse scritto, ma non sono riuscito a trovarlo in tutti questi anni…»
La figura fece un altro passo, entrando nel cono di luce. Il viso era inespressivo, esangue; gli occhi infossati e le guance concave e afflosciate. I vestiti erano simili a quelli del quadro che raffigurava lo zio del Conte. Sembrava provare dolore ad ogni parola che pronunciava, ma non aveva nessun desiderio di tacere.
«Quando lo scoprii giacere con mia moglie, Henri si rese disponibile a darmi soddisfazione in duello; ma io non ce l’avrei mai fatta a sopraffarlo, era troppo abile, con qualunque arma. E così, notte tempo, sono entrato nella sua camera. Come ho fatto poc’anzi. Lui dormiva, peraltro proprio in quello stesso letto ove lei si trova ora; non si accorse di me e io gli piantai il mio pugnale nel petto spaccandogli in due il cuore. Poi inscenai la devastazione ad opera della Banda d’Auxiéme che seminava il terrore in quei tempi bui; e per fortuna diedero la colpa a loro.»
Il Marchese fece un altro passo avanti verso Peter; ormai era a un paio di metri da lui; nella stanza brillò alla luce dell’abat-jour la lama di un coltello che, solo allora, Peter si accorse essere brandito dall’uomo.
«Mi spiace» disse il Marchese abbozzando un sorriso stanco. «Niente di personale, ben inteso; ma non posso consentire che quello scritto diventi di dominio pubblico; non per me, che sono morto ormai da tempo, ma per i miei nipoti e pronipoti che hanno un nome glorioso da difendere.»