Il Camozzi

camozzo«Thomas?!? Thomas Perk? Fermati un attimo!»
«Cosa vuoi?»
«Voglio parlarti, posalo a terra.»
L’uomo controllò il vicolo. A quell’ora di notte era ancora deserto. I suoi occhi si erano abituati al buio e distingueva bene tutto quello che gli era attorno. Per un attimo la luce della luna rimbalzò sulla lama del grosso coltello da caccia che brandiva con la mano sinistra mandando un bagliore che si perse nella notte. Da qualche anno sentiva sempre più spesso quella Voce e quando cominciava non c’era modo di azzittirla.
«Ti faccio vedere una cosa» disse la Voce. «Vedi questo soldato che marcia in prima fila fiero della sua divisa?»
«Non ho tempo per queste cose…»
«Ci metto un attimo, Thomas, guarda bene… Queste immagini che stai vedendo riprendono un tuo avo… siamo in Francia nel 1693 nella battaglia del fiume Ter, in Catalogna… il tuo antenato è un francese e si chiamava Jean-Louis, Jean-Louis Perchefoucaud…»
«I miei antenati erano francesi?»
«Sì certo… sarà solo dopo la rivoluzione francese che un bis nipote di Jean-Louis, Jacques Perchefoucaud, s’imbarcherà per l’America per andare in aiuto dei giovani patrioti inglesi impegnati nella lotta per l’Indipendenza… Ma non è questo il punto. Guarda bene Jean-Louis, guardalo bene… Lui prediligeva sempre stare in prima fila anche se così era più facile essere colpito dall’esercito avversario durante l’avanzamento sul campo. Ma lui diceva che questo lo faceva sentire vitale, importante, e non ci fu mai verso di dissuaderlo neppure quando divenne un soldato anziano. Fino a quel giorno, ovviamente, il 27 maggio 1693 giorno di quella battaglia…»
«Cosa è successo il 27 maggio?»
«Devi sapere che una delle leggi che regola la vostra vita quotidiana è il libero arbitrio; io non posso far nulla per mutare il corso degli eventi se non…»
«Se non?»
«Se non per una minima quota… ogni tanto intervengo, come dire, per mutare l’immutabile… Sono piccole cose, per carità, che voi comunque chiamate miracoli, ma che sono solo… come dire… aggiustamenti per realizzare un piano globale superiore…»
«E che aggiustamento c’è stato il 27 maggio?»
«Vedi quest’altro soldato? È un soldato spagnolo, si chiamava Alvaro Garcia Peres, diversamente da te era alla sua prima battaglia. Era solo un ragazzo, allora, e aveva tanta paura anche perché inesperto. Gli avevano dato l’incarico di sparare con uno sgangherato Camozzi, un cannone recuperato da un’altra battaglia, contro la Repubblica di Venezia. Ebbene, Peres era molto agitato e quando sparò la prima volta scivolò sull’affusto del cannone quel tanto che bastò per deviare di poco la traiettoria del proiettile che prese in pieno il camerata che marciava accanto a Jean-Louis: il suo amico carissimo Charolle che fu preso in pieno volto e scaraventato lontano a pezzi. Jean-Louis rimase così angosciato per quella disgrazia che diede ben presto le dimissioni dall’esercito per ritirarsi a vita privata e fare l’ebanista.»
«Perché mi dici tutto questo?»
«Perché allora credevo in te ed è per questo che ho salvato Jean-Louis e tutti i suoi discendenti: ho fatto scivolare apposta nel fango il soldato Peres per deviare la palla di cannone destinata alla faccia di Jean-Louis…»
«Credevi in me?»
«Sì, certo… in fondo sei una brava persona che ha solo perso la Via; per cui ora lascia andare quell’uomo e non ucciderlo…»
Thomas abbassò lo sguardo e vide che con la mano destra stava tenendo stretto il bavero del giubbotto di un uomo che borbottava confusamente qualcosa, il suo viso era tumefatto e sanguinante. Nelle mani di Thomas pareva una grossa preda senza ossa. Lo osservò attentamente come se solo in quel momento avesse realizzato cosa stesse accadendo. Poi alzò di nuovo il viso verso quella che gli sembrava essere la direzione della Voce e, sogghignando, agitò nella penombra il coltellaccio.
«Sei tu che mi hai fatto psicopatico… ed è più forte di me…» rimproverò.
«Essere psicopatici non significa essere per forza assassini, lascialo andare Thomas… te lo sto chiedendo…» incalzò la Voce.
E Thomas, per tutta risposta, affondò il coltello tra le costole dell’uomo sentendo che una si rompeva sotto la pressione del suo slancio omicida. Subito dopo lasciò andare a terra la vittima rantolante; gettò il coltello in un angolo e corse lungo il vicolo. Corse affannosamente fino a quando non raggiunse senza più fiato Birkin’ Park.
«D’accordo Thomas. Sappi però che in quest’istante si sta formando nel tuo pancreas una terribile neoplasia fulminante che ti porterà a morte in poco tempo tra atroci dolori. Non te l’ho fatta venire io… bada bene… doveva succedere… anche se io potevo fermarla, ma non lo farò. Nonostante tutto il male che già hai fatto nella tua misera vita volevo darti un’ultima opportunità di salvarti, proprio come feci con Jean-Louis.»
«Quindi presto morirò…» disse lui accigliato.
«Sì»
«Tra atroci dolori…»
«Sì, te l’ho detto.»
«E… e poi?»
«E poi, per il resto… ti aspetto qui.»

Fagiolino

Quando il Sindaco giunse sul posto non riusciva a credere ai suoi occhi. Durante i lavori per la costruzione della circonvallazione la benna di un escavatore aveva portato alla luce un cannone antico.
«È perfetto!» esclamò il Sindaco quasi ballando sul posto. «Appena in tempo per le celebrazioni della Resistenza…»
«Guardi, sig. Sindaco,… si tratta di un cannone del fine Settecento» lo avvisò il prof. Pisquani della Sovrintendenza con tono sommesso. «La Resistenza c’entra davvero poco…»
«Sottigliezze storiche, professore, sottigliezze; qualunque sia l’epoca cui appartiene questo coso… certamente qui si è consumato un atto eroico della nostra Resistenza, di quella prode Resistenza che solo l’Uomo, con la IU maiuscola, può ergere senza tempo avverso la tracotanza del Nemico che pur ci invase in numero soverchio per ogni dove; qui le nostre indomite truppe hanno eretto imperituro baluardo con il loro petto ricolmo d’orgoglio patrio e il loro coraggio ardimentoso al fuoco invasore…» Poi, accorgendosi che il tono gli era scattato automaticamente sulla modalità comizio, il Sindaco tacque.
«Sì, certo», continuò il professore, togliendosi il berretto di lana e massaggiandosi i pochi capelli che aveva sul cranio. «Tutto vero. Tuttavia sento il dovere di farLe notare che questo cannone non è delle nostre indomite truppe ma proprio dei nemici tracotanti: questo è un cannone napoleonico e in quella battaglia del 1796 abbiamo pure perso.»
Il Sindaco lo guardò intensamente come se si sforzasse di capire se il suo interlocutore avrebbe avuto l’ardire di rimettersi a respirare. Il primo cittadino di Lughi aveva anche assunto (spontaneamente) quell’espressione da “bello e dannato” che tanto seduceva Tina, la sua giovane segretaria promossa in pochi giorni da shampista a segretaria particolare (e le cui doti professionali straripavano dalla maglietta leggera che indossava nonostante i zero gradi) e che da qualche tempo compariva sempre al suo fianco ovunque egli andasse.
«Ma allora lei ce l’ha proprio con me!» sbottò a quel punto il Sindaco rivolto al professore.
Tina, che fino a pochi momenti prima si stava mordicchiando le labbra, tutta presa nell’osservare il piglio sexy e autoritario del suo “Fagiolino”, come lei amava chiamarlo nell’intimità e come tutti avevano preso a soprannominarlo al bar, si lasciò andare a una risata liberatoria con un numero imprecisato di denti bianchissimi. Pisquani abbassò mortificato la testa.
«Ma chi vuole che se ne accorga!» insistette il Sindaco uscendo agilmente dalla buca per riguadagnare il piano viario. «Lo voglio pulito e lustrato sulla piazza del paese fra tre settimane» ordinò il Sindaco ai “suoi” indicando il cannone e prendendo la via della Casa comunale; Tina, che aveva rinfoderato la matita eyeliner che usava per prendere appunti (non c’era posto per la penna tradizionale nella sua microborsetta) gli trotterellò dietro con il tacco dodici.

Venne il giorno della cerimonia. C’erano il Questore, il Prefetto, Autorità militari ed ecclesiastiche varie ed eventuali; c’era anche in bella vista Luigino, il nonno del Sindaco, vestito per l’occasione alla bell’e meglio da partigiano anche se, per tutto il periodo della seconda guerra mondiale, aveva tranquillamente lavorato in un bananeto in Sudamerica. Era su una sedia a rotelle, poverino, e, per convincerlo a venire, gli avevano detto che si trattava di una puntata di Linea Verde e che ci sarebbe stata anche Miss Italia. Il nonno, per farsi notare, aveva allora fatto eccezionalmente la doccia prendendo con sé anche una vistosa paperella gialla del nipotino.
Il Sindaco, per l’occasione, si lasciò andare a un discorso vulcanico e trascinante, pieno di citazioni e sentimenti patriottici sempreverdi, spaziando da Luther King a Kennedy, da Gandhi (che non ci sta mai male) a Beyoncé, giusto per catturare l’attenzione dei pochi giovani presenti. Gesticolava in modo misurato e sobrio come aveva provato a lungo davanti allo specchio; fino a quando, nel dare una pacca all’affusto bronzeo del cannone, si sbloccò una specie di uncino che, scattando in avanti, provocò una scintilla. Seguì uno sfrigolio. Pochi attimi dopo, nell’istante in cui il Sindaco si stava chiedendo se avessero controllato che il pezzo non fosse rimasto carico per tutto quel tempo, il cannone con un gran boato esplose un colpo che si infilò dritto dritto tra la banca e la farmacia, facendo incuneare una palla da 22 kg verso la Casa Comunale che sventrò all’altezza della sua stanza. Per il rinculo il cannone prese a muoversi all’indietro, dapprima lentamente, e poi sempre più in modo rapido, trascinando nella sua corsa vessilli e stendardi, trombe e chiarine, fino a quando il peso considerevole del manufatto trascinò giù il pezzo lungo la ripida discesa a ridisegnare il negozio di Pino, il barbiere, che demolì completamente.
Il silenzio si fece sovrano, tanto che si sentirono cinguettare i canarini della signora Palmira che ha l’affaccio sulla piazza. Il Sindaco, senza essere in grado di profferire parola, continuava senza battere ciglio a guardare il buco che la palla aveva appena creato nell’edificio pubblico e che, man mano che la polvere si posava, appariva sempre più enorme.
Quando il silenzio si fu trasformato in un insopportabile generale imbarazzo, Tina scoppiò in una risata inaspettata quanto isterica e, ad alta voce, a microfono ancora aperto, se ne uscì:
«Siamo proprio fortunati io e te, Fagiolino, eh? Pensa se a quest’ora fossimo stati sdraiati sulla scrivania del tuo ufficio come è successo ieri!»
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