Al Gatta

Il piccione arrivò troppo velocemente. L’atterraggio non fu da manuale tant’è che perse un poco l’equilibrio e fece alcuni passi in avanti per ritrovarlo, prima di fermarsi del tutto.
«Ehi, dove vai così di fretta?»
«Ah, ciao Becco Fino, non ti avevo visto… sto andando dal Gattamelata. Doppia Macchia è indisposto e lo devo sostituire.»
«Gattamelata? Posto prestigioso, complimenti…»
«Eh sì… è vero.»
«E cos’ha Doppia Macchia?»
«Non lo so di preciso, non me l’hanno detto; so solo che mi hanno comandato di fare il suo turno sulla testa del Gatta… prima che arrivino gli africani.»
«Già, ‘sti immigrati sono sempre più numerosi e prepotenti: sono dappertutto, prendono i posti migliori, il nostro cibo, le nostre femmine e sono pure pericolosi. Bisogna fare qualcosa. Il respingimento non è efficace.»
«Sì, è sempre peggio. Ieri in piazza Duomo, all’alba, dopo averlo accerchiato, hanno ferito gravemente a beccate uno dei nostri e, pensa, per portargli via solo un piccolissimo pezzo di toast. Ma dove andremo a finire? Oramai c’è un’emergenza sicurezza… Io sto sempre in pensiero quando mio figlio più piccolo vola in giro da solo. A proposito di posti buoni, chi presidia in questo periodo il Giardino della Stazione?»
«Credo Piume Storte con Petto Screziato e Doppio Nero; oltre ovviamente a quella lavativa di Tuttagola.»
«Ma non l’hanno ancora cacciata?»
«Macché è una che ti sa intortare per benino… adesso sostiene che viene di rado perché deve occuparsi della nonna con i parassiti e del fratello alcolista.»
«Alcolista?»
«Sì, sembra che si faccia tutti i fondi dei bicchieri di birra…»
«Ah però… Senti, ho saputo che stai uscendo con Ala Grigia…»
«Sì, da qualche mese.»
«Sono contento per te, ne sei sempre stato innamorato fin da quando eravate vicini di nido… ora si è fatta proprio una bella piccioncina.»
«Ehi, stai attento a come parli… è la mia Signora adesso.»
«Scusa, non volevo mancarti di rispetto, anzi… Guarda, se hai ancora qualche minuto prima di andare dal Gatta… possiamo fare colazione insieme, se ti va, e così facciamo ancora due parole. Volevo raccontarti nel nuovo addestra-reclute. È uno spasso, viene dalla Sbarbatella, non ha mai fatto una ronda in vita sua e già se la tira da generale. Possiamo andare al Bar del Cinghiale, che dici? A quest’ora non hanno ancora spazzato sotto i tavoli e c’è un bel mucchio di avanzi. L’altro giorno ci ho trovato addirittura mezza brioche…»
«No no grazie… non oggi. Sarà per un’altra volta. Non voglio rovinarmi l’appetito. Sono riuscito a farmi invitare al banchetto del Papagena…»
«Al Papagena? Ma non è una discoteca?»
«Infatti. All’uscita del locale, a quest’ora, ci sono diversi rigurgiti con i resti della cena di ieri di ragazzi che si sono sentiti male nella serata. Riso, pasta, sushi e tanto altro. Tutto cibo flambato al vino o al liquore. Una vera delizia per il becco anche perché sono ancora caldi e profumati.»
«Sei sempre il solito buongustaio tu, non c’è niente da dire…»
«Sì, lo sai, io ci tengo a queste cose… va bene, allora ci si prende…»
«Certo, Becco Fino. Mi ha fatto proprio piacere rivederti. A presto.»

Tulum (seconda e ultima parte)

[RIASSUNTO della puntata precedente: Bob è stato incaricato di insegnare
il mestiere di ladro a un ragazzo che gli è stato raccomandato. Decide
di portarlo una notte con sé in una villa lussuosa, momentaneamente 
disabitata, per eseguire un furto che, sulla carta, doveva rivelarsi 
molto semplice. Ma qualcosa non va per il verso giusto. Nella 
semioscurità della casa, infatti, fa capolino un mastino napoletano 
--> Tulum (prima parte)]

I due istintivamente cominciarono a retrocedere; lo fecero con lentezza tenendo sempre d’occhio il cane anche se non riuscivano più a tener ferme le torce su di lui. Poi il ringhio sordo del mastino esplose in un abbaiare rabbioso e questo poco prima che balzasse fuori dal proprio nascondiglio per gettarsi su di loro. L’uomo afferrò per la maglia Pelleossa, rimasto fermo ipnotizzato da quella massa scura che stava guadagnando terreno, e lo tirò dentro con forza nella stanza in cui erano finiti. Chiuse rapido la porta. Subito dopo, si udì il tonfo dell’animale contro l’anta e il raschiare furioso delle zampe sul legno.
«Meno male che doveva essere una passeggiata…» fece il ragazzo con il cuore in gola.
Bob non gli rispose. Esplorò con la torcia la stanza dove erano entrati. Era una camera da letto e non c’era modo di uscire in giardino perché la finestra aveva le inferriate.
«Dobbiamo fare subito qualcosa» disse l’uomo osservando la porta come se dovesse rispondergli. «Il cane sta abbaiando troppo. Richiamerà l’attenzione».
«L’esperto sei tu, capo!» lo apostrofò Pelleossa con tono di sfottò.
Il mastino intanto stava scuotendo la porta appoggiandosi su di essa con tutto il suo peso. I suoi latrati erano potenti.
«Io prendo quel copriletto pesante» fece Bob dopo un po’ indicando il letto con la luce della torcia. «Non appena apriamo la porta tu dirigi entrambe le luci delle torce sugli occhi del cane e io gli buttò addosso il copriletto; cercherò di imbrigliarlo in qualche modo. Poi lo trasciniamo da un’altra parte. Ho visto dalla cartina della villa che c’è una stanza più interna e appartata.»
«E non scappiamo?»
«Ma no… cosa dici? Ormai siamo qui e finiamo il lavoro. Una volta sistemato il cane apriamo la cassaforte e in due minuti usciamo.»
Il ragazzo non era convinto. Sospirò. «Va bene» fece poi prendendo la torcia dalle mani di Bob. L’uomo con pochi movimenti prese il copriletto matrimoniale e lo predispose davanti a sé come se fosse una rete da gettare ai pesci. I tonfi sulla porta si erano fatti intanto più frequenti mentre i latrati erano assordanti.
«Sei pronto?» gli chiese l’uomo. «Mi raccomando, dobbiamo essere simultanei. Capito?»
«Se lo avessi saputo prima mi sarei allenato» rispose il ragazzo cercando di ironizzare sulla situazione. L’uomo fece una smorfia e si accostò alla porta. Pelleossa mise la mano sulla maniglia e guardò Bob in attesa di un suo cenno. Che arrivò. Il ragazzo spalancò la porta puntando i fasci delle luci sugli occhi del cane. Bob fu rapido nel buttargli addosso il copriletto immobilizzando l’animale quel tanto che poteva bastare per disorientarlo e farlo rotolare su sé stesso. Aiutato dal ragazzo tirò poi la coperta con il cane dentro nella stanza che aveva individuato. Era senza finestre. Lì sarebbero stati al sicuro. Potevano anche accendere la luce.
«Presto, vammi a prendere un coltello in cucina…» gli comandò l’uomo tentando di tener fermo il cane.
«Ma cosa vuoi fare?» chiese contrariato il ragazzo che sapeva già la risposta.
«Non è il momento di fare l’amico degli animali. Non discutere, vammi a prendere il coltello e torna subito qui. La cucina è a sinistra, in fondo al corridoio.»
Pelleossa rimase immobile e in silenzio. Vide il cane che si agitava cercando di mordere alla cieca e Bob che faceva fatica a tenerlo a bada. I latrati sembravano ancora più penetranti. Decise di muoversi. Nella concitazione e per far sì che il cane si udisse il meno possibile da fuori casa, nell’uscire dalla stanza, sbatté la porta dietro di sé. Fece appena in tempo a sentire un “noooooooo” urlato di Bob rimasto dentro. Quella era una panic room con pareti spesse e la porta antisfondamento. Poteva essere aperta solo con un codice. Di lì a poco sarebbe tra l’altro arrivata anche la polizia chiamata dall’allarme silenzioso.
Bob, scattato in avanti, si mise a sbattere i palmi aperti delle mani sulla porta dall’anima di acciaio. Era tutto inutile non lo avrebbe sentito nessuno.
Intanto il mastino, non più tenuto fermo dall’uomo, si era liberato della coperta; e aveva cominciato a ringhiare minaccioso.

(fine)

Tulum (prima parte)

«Come ti chiami?»
«Jimmy Border, ma in giro mi chiamano tutti Pelleossa.»
«Pellerossa?»
«No no… Pelle e ossa.»
«Ah… e come mai?» gli domandò Bob appoggiandosi alla staccionata.
«Perché quando ero giovane ero magrolino e allampanato da far schifo.»
«Quando eri giovane? Perché adesso quanti anni hai?» gli chiese l’uomo abbozzando un sorriso storto.
«17, perché?»
Bob preferì non rispondere. Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Cercò di ricordarsi cosa pensava lui del mondo a 17 anni. Ma era passato davvero troppo tempo. Fece due lunghe tirate mentre il ragazzo lo fissava ancora con aria interrogativa, un occhio strizzato per il sole che gli sbatteva in faccia.
«Mi ha detto Turner che vuoi imparare il mestiere e che sei sveglio» gli fece quindi Bob togliendosi con due dita una briciola di tabacco che gli si era fermata sulla lingua.
Il ragazzo fece spallucce.
«Sei proprio sicuro che vuoi fare il ladro come mestiere?»
Pelleossa fece spallucce di nuovo; poi dopo qualche secondo, poco convinto, chiarì: «Spacciare non mi piace.»
«Va bene… si può allora iniziare già da stasera, se ti va» fece Bob estraendo dal giubbotto le chiavi della macchina. «Cominciamo da una cosa facile facile. Tu non dovrai fare niente, devi solo venirmi dietro cercando possibilmente di non fare casini.»
«Ok» fece l’altro.
«Ah… e non portare armi. Non servono e provocano solo guai. Quindi se anche hai con te un coltello a serramanico da difesa lascialo a casa. Lo stesso vale per lo smartphone. Si mettono a suonare nel momento meno opportuno e consentono il tracciamento.»
«Ok.»
«Ci vediamo qui verso le undici di sera. Andiamo con la mia Corvette. Non è vicino ed è meglio usare la macchina, anche se è la mia. La parcheggeremo però alcuni isolati prima.»
«Ok»

Era una villa di lusso, vuota. La famiglia che ci abitava era in vacanza già da qualche giorno a Tulum per una visita ai cenote del luogo. Bob aveva già provveduto, entrando nella rete wi-fi di casa, a staccare le telecamere di sorveglianza e l’impianto di allarme. Gli avevano già fatto avere anche la combinazione della cassaforte a muro. Tutto come da copione. Doveva essere una passeggiata, insomma.
«Rimani dietro di me» gli raccomandò lui, non appena scesero dalla macchina, porgendogli un cappuccio nero e una torcia. «Del cappuccio non ce ne sarebbe in realtà bisogno, ma è una sicurezza in più. La torcia invece accendila quando saremo dentro e non appena lo farò io». Il ragazzo annuì.
Scavalcarono il muro di cinta e, attraversato tutto il rigoglioso giardino al chiarore di una luna quasi piena, arrivarono davanti alla porta di ingresso. Anche se blindata Bob la aprì in pochi secondi. Entrarono. Accesero la torcia. La cassaforte, secondo le indicazioni avute, era situata nello studio dietro a un arazzo. Bob aveva studiato a memoria la piantina della villa e così trovò lo studio al primo tentativo, come se ci avesse sempre abitato. Pelleossa si guardava in giro tranquillo. Aveva un’aria controllata e apatica come se quella situazione non lo riguardasse affatto e fosse solo routine.
Avevano appena fatto ingresso nello studio quando udirono un lieve rumore dietro a loro. Si voltarono entrambi di scatto. Il cuore in gola. Perlustrarono accuratamente la stanza alla luce delle loro torce. Non vedevano nulla di anomalo. Poi, d’un lato, nella zona più buia della stanza, avvistarono un’enorme testa seminascosta da un pianoforte a coda. Un imponente mastino napoletano li stava osservando. E aveva appena cominciato a ringhiare.

La seconda puntata domenica prossima --> Tulum (seconda parte)

Un piano per la fuga

Aveva sentito un rumore e poi subito un altro. Si inquietò e al buio cercò il suo bastone. Lo trovò. Si alzò dal letto, lentamente. Il cuore sembrava ballasse il reggae.
Dei ladri in casa mia?‘ Si chiese. ‘Ma se non c’è nulla da rubare! Oddio… ora non trovano nulla e poi mi danno una botta in testa…
Intanto era arrivato in fondo al corridoio. Intravide una donna in cucina che stava guardando dentro al frigo aperto: era una ragazza di colore, alta, slanciata, capelli ricci cortissimi color oro che facevano pendant con gli orecchini e le zeppe tacco dodici, della stessa tinta.
L’uomo anziano alzò il bastone per colpirla, anche se si trovava ancora a diversi metri da lei.
«Buongiorno Oscar, dormito bene?» chiese la donna rimanendo con la testa tra i ripiani. Ne uscì una domanda con l’eco.
«E lei chi è?»
«Sono Zoe, un’amica di Hanna, che non è potuta venire: mi ha chiesto di sostituirla… oggi bado io a te» disse con un sorriso chiudendo la porta del frigo. Un bel gran sorriso, aperto e contagioso.
«S’è fatta mettere incinta?»
«Ma no… cosa dici? Deve solo andare dal dentista…»
«Si fanno mettere tutte incinta. Vengono per un po’ da me, non faccio in tempo a imparare come si chiamano e… patatrac non le vedo più e al posto loro ne compare subito un’altra, senza che nessuno mi dica mai niente. Proprio come oggi. E lei è incinta?»
Zoe guardò il vecchio come si guarderebbe un bambino.
«Tieni, questo è il cappuccino come piace a te» fece lei cercando di distrarlo con voce suadente «e ti ho portato anche una bella fetta di torta, senza glutine, senza zucchero e senza un mucchio di altre cose…»
«E allora non saprà di nulla…» sbottò Oscar scontroso con l’acquolina in bocca; appoggiò il bastone al muro e ciabattò rapido sino alla sedia.
Perché mi dà del tu? Io sono il generale Oskar Demetrius Augusto Cacciòmini, ho combattuto in Iraq (o era in Siria?). Ma come si permette?‘ pensò.
«Devo rifare il letto, Oscar? L’hai bagnato anche questa notte?»
«Ehmm… forse.»
«Hai messo il pannolo, come ti diciamo sempre di fare?»
«Ehmm… forse.»
Ma è un oltraggio! La dovrei far arrestare questa mocciosa… farla mettere di corvée alle latrine… Anche se… dunque dunque… cosa avrei dovuto fare esattamente ieri sera? Ah sì… aprire una scatoletta di cibo per Tobia, prendere le compresse per la pressione e il colesterolo oltre l’anticoso giallo e amaro; spegnere la TV e… e, ah ecco, sì… mettere il pannolo. Già. Cosa non ho fatto però di queste cose? Oddio, forse a ben pensarci il gatto Tobia è morto da qualche anno… devo controllare meglio… però il resto… il resto sono arcisicuro di averlo fatto tutto!
«Ah, Oscar…» disse la donna ancheggiando verso la camera da letto. «Hai lasciato di nuovo accesa la TV tutta la notte.»
Ora basta, non si può più andare avanti così‘ pensò lui irrigidendosi sulla sedia. ‘Devo fuggire da questo angusto luogo di detenzione. Devo ricostituire il manipolo dei miei fedelissimi. Non possono più impedirmelo. L’ora del golpe è ormai scoccata nei cieli indomiti della nostra amata Patria‘.
Si alzò deciso e, preso il suo fido bastone, andò alla porta di ingresso.
Colpo di fortuna! La ragazza, quella lì, ma come caspita si chiamava? Aveva lasciato il mazzo delle sue chiavi nella toppa. ‘Che stupidina! Roba da Corte marziale.‘ Però era un chiaro segno del Destino. Aprì piano piano la porta e, senza chiuderla dietro di sé per non attirare l’attenzione, infilò le scale. Ci mise un po’ a farle tutte, un passo alla volta, ma quando finalmente si trovò in strada, il sole gli venne incontro radioso. Gli sembrò anche questo di ottimo auspicio. D’ora in poi sarebbe stato un uomo libero, non più ostaggio di badanti distratte e maleducate. Si sentiva di nuovo vivo. Il mondo era tornato ad essere suo. Respirò a pieni polmoni il gas di scarico del traffico del centro. Era felice.
Fece alcuni passi incerti verso piazza Duomo rimuginando sul testo di un possibile discorso per arringare la folla plaudente. Poi d’un tratto si vide riflesso nella vetrina di un bar. Era in pigiama e con le pantofole.
Azz…‘ pensò. ‘Mi devo organizzare meglio… Ecco cosa vuol dire non avere un attendente degno di questo nome.‘ E tornò indietro con passo sollecito verso casa.
Dunque, devo dare da mangiare a Tobia, prendere le pastiglie per i controcosi, spegnere la TV, dovunque essa sia, mettere il pannolo e… e… buttare giù un piano elaborato per la fuga… Perfetto… Sì sì, così mi sembra davvero perfetto‘ si disse fermandosi davanti al portone sbagliato.

Noah

Viveva nel tombino H4/837SP-5. Così almeno c’era scritto a rilievo sulla fusione in ghisa. Freeber Fonderie 1992, c’era anche inciso.
H4/837SP-5, Freeber Fonderie 1992, Lughi.
Se gli avessero scritto una lettera con quell’indirizzo chissà se sarebbe mai arrivata a destinazione. Si chiese Noah, disteso sul suo pagliericcio di trucioli, le mani dietro la nuca. Il postino ci sarebbe però diventato sicuramente matto a trovarlo. Il tombino, si intende. Lui abbozzò un sorriso in quel buio malato.
Era un tombino anomalo oltretutto perché era abbastanza ampio da far passare le sue spalle larghe. E non aveva un pozzetto: dava piuttosto su una camera sotterranea di pochi metri quadrati che era calda d’inverno per il passaggio di tubature condominiali del palazzo vicino e fresca d’estate per non batterci mai il sole. Si trovava infatti all’interno della stazione ferroviaria della città e questo faceva sì che si mantenesse anche asciutta. L’ideale insomma per viverci. Da barbone, si intende. E qui non sorrise affatto, pensandoci. Probabilmente anni prima si trovava all’aperto, sulla piazza antistante; ma con l’ampliamento della pensilina sul lato sud del complesso la copertura era stata tale che l’unica acqua che ora arrivava era quella della pulitrice dell’addetto. Passava sopra il tombino una volta soltanto nei giorni feriali e unicamente per pochi secondi, intorno alle sei del mattino. Neanche il tempo per far scendere qualche goccia.
E così Noah vi aveva eletto la sua dimora.
Nessuno si era mai accorto di lui quando per la cena risaliva di notte, come uno spirito maligno partorito dalla terra, per andare a frugare nei cestini prima che li svuotassero. Il cestino legato al pilastro a lui maggiormente vicino era il più generoso. Era quello infatti della zona commerciale, dei negozi e dei fast food. Ci si trovava di tutto. Pezzi di pizza, hamburger, dolci e pane. Una sera persino un grasso topo affamato che gli strappò di mano quel che rimaneva di un toast prosciutto e formaggio per poi fuggire a zig zag tra le macchine in sosta. E poi lui andava a dissetarsi nella vasca della fontana dei Fauni. Non era tanto pulita, lo sapeva bene, e puzzava di cloro. Ma lui ci era abituato. Bastava solo non badare troppo a cosa ci finiva dentro.
Ogni tanto giù dal tombino cadevano anche cicche accese, a volte qualche sputo, una volta cinquanta centesimi. Un giorno cadde una pastiglia. Aveva un’aria misteriosa quella pastiglia. Per quel colore strano, l’aspetto rugoso e per la lettera che vi era impressa. La incartò, come fosse una cosa preziosa, e la ripose in un anfratto del muro. Un giorno che si fosse sentito particolarmente giù l’avrebbe presa, qualunque cosa fosse stata. Per sballare di brutto o per il mal di testa o i dolori da mestruazioni; poco sarebbe importato, si intende.
Poi quel giorno di depressione, qualche settimana dopo, arrivò. Si prese una bella sbornia con tutti i rimasugli di birra che aveva pazientemente raccolto qua e là negli ultimi mesi. Furono sufficienti pochi sorsi per catapultarlo in un mondo di silenzio appiccicoso popolato da fantasmi agghiaccianti. Sarebbe rimasto in quello stato di sopore per un giorno intero, lo sapeva bene, ed era meglio così in giorni simili. Che si impiccassero tutti. Pensò constatando con la lingua che gli si stava staccando un molare. Compresa sua madre che lo aveva messo al mondo, si intende. E al beverone stantio aggiunse come leccornia la preziosa pillola. Se fosse stato fortunato avrebbe potuto farsi anche un bel trip.

«Sei proprio sicuro che dobbiamo fare così?» disse il muratore all’altro.
«Certo, ne ho parlato con il capomastro. E va terminato anche entro questa sera.»
«Ma che senso ha stendere qui una soletta di cemento?»
«Ci devono fare un parcheggio per i taxi. E poi cosa ti devo dire? Ho smesso di discutere con gli ingegneri… lo sai, hanno sempre ragione loro!»
«E per il tombino?»
«Ci buttiamo sopra del cemento a presa rapida e stendiamo una specie di tappo. Poi, appena asciutto, ci rovesciamo il cemento per la soletta. Anzi guarda. Portiamoci avanti. Lo faccio subito.»

E questo mentre, due metri sotto i loro piedi, nella sua tranquilla ‘abitazione’, Noah era già da tempo nel mondo degli incubi per l’alcol e la potente benzodiazepina che aveva ingoiato. Non si sarebbe svegliato se non l’indomani mattina.