Un veicolo lento

Il non aver trovato le chiavi di casa proprio mentre stava per uscire gli aveva fatto perdere minuti preziosi. Per andare a prendere la moglie alla stazione di Collefili, ci voleva mezz’ora e questo significava che avrebbe dovuto affrontare i trenta chilometri di curve a velocità sostenuta. Arturo si sentiva già nelle orecchie la moglie che, all’uscita dalla stazione, non trovandolo, lo avrebbe aspramente rimproverato.
Per fortuna la strada si rivelò sgombra e, complici una giornata di sole e l’ora appena postmeridiana, poté premere sull’acceleratore. Giunto al bivio per Bigialli, s’immise però davanti a lui un enorme SUV. Non solo la visibilità della strada fu all’improvviso del tutto coperta, ma il veicolo procedeva molto lento e le curve rendevano impossibile il sorpasso. Per fortuna si stava avvicinando l’abitato e sarebbero presto iniziate tante possibili strade che la macchina davanti a lui avrebbe potuto prendere. Ma il SUV, sempre procedendo come se il conducente si godesse il panorama, imboccava inesorabilmente ogni volta la sua stessa strada, e lo faceva con una metodicità e lentezza esasperanti. Superarlo in mezzo al traffico cittadino era impensabile, chiedergli strada pure: si impose allora di restare calmo. Giunse così all’ultima rotonda che avrebbe immesso in cinque differenti strade: una, la più trafficata, portava all’autostrada, due, anch’esse molto battute, verso le colline, le altre si perdevano nel paese. Le probabilità che il conducente scegliesse proprio corso Garibaldi, la strada cioè da cui si dipartiva quella per la stazione, erano assai remote. Sul viso di Arturo si accese quindi un sorriso non appena vide che il SUV, nell’affrontare la rotonda, aveva messo la freccia a sinistra. Come aveva ipotizzato, la macchina sarebbe andata nella direzione opposta, verso Capaglossa. Scalò la marcia, pronto a sgusciare di lato nell’attimo in cui avesse accennato la svolta. Ma il conducente del SUV ci dovette aver ripensato perché all’improvviso disinserì l’indicatore di direzione per poi proseguire per corso Garibaldi. Ad Arturo montò un nervoso che gli diede alla testa, tanto che mollò un cazzotto al volante. Il pugno gli rimbalzò a mezz’aria facendogli assumere una postura ridicola. Guardò l’orologio. La moglie doveva essere già arrivata in stazione e lo stava sicuramente aspettando sul piazzale. Cercò di farsene una ragione, in fondo era quasi arrivato: ancora cinquecento metri di corso Garibaldi e poi il SUV avrebbe proceduto sicuramente in direzione del mare o tutt’al più per l’Iper. Non era ipotizzabile che, grosso com’era, si potesse infilare per la scorciatoia stretta di via Calabassi. Arrivarono all’altezza del trivio e il SUV, contro ogni previsione, prese la scorciatoia. ‘Non è possibile!’ sbottò stizzito e a voce alta, Arturo: ‘allora ce l’ha proprio con me!’ Per due o tre volte il SUV rischiò di rimanere incastrato tra le macchine. Poi, fuori dalla stradina, come un predatore che si fosse liberato della boscaglia, s’immise prepotente sul piazzale dei treni. Lui, che seguiva a ruota, vide subito la moglie, appena sotto l’orologio, rigida e arrabbiata, le mani conserte. Era successo quel che temeva: era furibonda. Se almeno fosse riuscito a liberarsi di quel monumento su quattro ruote che aveva ancora tra i piedi, avrebbe potuto accelerare, per dimostrare, frenando, che almeno arrivava di corsa, ma quello era ancora lì, davanti a lui, flemmatico e imponente. Procedettero ancora in quel modo per alcuni interminabili metri. Poi il SUV si arrestò. Sua moglie si avvicinò a passo svelto salutando il conducente del SUV con un sorriso; vi salì. E la vettura sgommò via sotto i suoi occhi.

Mi fermo qui

Fredo era proprio contento di aver comprato il regalo per suo figlio. Aveva girato tutti i negozi di Lughi e finalmente, nell’ultimo, aveva trovato quello che cercava: due macchinine sportive (una Ferrari e una Porsche) luccicanti e coloratissime, ma soprattutto elettriche e telecomandate. Quasi ballava mentre saliva sull’autobus, nella piazza principale del paese. Si sedette in fondo per starsene tranquillo anche se non c’era nessuno. Sarebbe arrivato a casa presto, giusto in tempo per nascondere il pacco in soffitta. L’autobus partì persino in orario, le strade erano deserte sicché, in poco meno di dieci minuti, era già alle rampe di Bigialli. Ma l’autista, anziché svoltare a destra, come avrebbe dovuto, girò a sinistra. Fredo si alzò per capire cosa stesse succedendo:
«Guardi che ha sbagliato strada. Doveva prendere a destra.»
«Lo so benissimo dov’è Bigialli» rispose il conducente un po’ seccato.
«E allora?»
«E allora, evidentemente, non sto andando a Bigialli!»
«Ma non è il 14 questo?»
«Certo che è il 14.»
«E allora?»
«E allora, non vado a Bigialli, ma in deposito. Non lo ha visto il cartello sul fronte del bus?»
«No, non l’ho visto» fece l’uomo agitandosi. «Però si fermi qui lo stesso, per favore.»
«Ah… non posso, ho precise disposizioni io, mi spiace. È il regolamento. Una volta partito, la prima e unica fermata è il deposito» disse tutto d’un fiato il guidatore alzandosi la visiera del cappello.
«Oh santo cielo! E adesso come faccio? E il deposito dov’è?»
«A Collefili» ribatté il conducente che fece un gesto della mano come se quello dovesse essere un fatto noto a tutti.
«Ma è a venti chilometri da qui!»
«Più o meno, diciannove per l’esattezza.»
«E io poi come torno?»
«Non saprei, signore, bastava leggere. È scritto bello grosso, proprio in fronte al bus: D E P O S I T O.» Il tono si era fatto odioso.
Fredo ritornò al suo posto. Non solo avrebbe fatto tardi, ma avrebbe anche corso il rischio che il figlio gli vedesse il regalo e allora addio sorpresa. Non aveva però intenzione di mollare. Si preparò come si conveniva e tornò dal conducente, battagliero e deciso a tutto. Si scostò così il cappotto facendo intravedere appena sopra la cinghia dei pantaloni i due rigonfiamenti prodotti dalle macchinine nascoste sotto la camicia; assunta un’espressione un po’ spiritata, disse:
«Va bene, questo pomeriggio, quando mi trovavo ai grandi magazzini, avevo cambiato idea, ma vuol dire invece che mi farò esplodere ugualmente, qui e subito.» In mano, Fredo, aveva il telecomando del giocattolo con il pollice sul pulsante rosso con l’aria di volerlo premere da un momento all’altro.
L’autista inchiodò l’autobus che sbandò pure un paio di volte; poi, pallido in volto e la bocca spalancata, aprì le porte. Fredo dapprima uscì di schiena, quindi scappò più veloce che poté nel buio della notte.

Festa di beneficenza

Avevo acconsentito malvolentieri a dare una mano a don Giorgio per la festa di beneficenza annuale del paese. Non me l’ero però sentita a dir di no a padre Ercole, che me lo aveva chiesto come un favore personale. Così mi ritrovai tra le stradine tortuose e disagevoli di Bigialli, paesino notoriamente abitato da gente scorbutica e asociale. Non mi meravigliai pertanto che, ad una mia bussata, qualcuno, da dietro la porta, mi sbraitasse:

«Vada via, qui non c’è nessuno!»

«Lei almeno c’è» risposi io prontamente. La mia logica dovette sembrare ineccepibile perché l’uomo, sempre senza aprire, mi abbaiò ancora:

«Vada via lo stesso, non sono io quello che cerca!»

«Ma io non l’ho detto chi sto cercando!» Poi mi resi conto che se avessi continuato su quel tono non avrei combinato nulla. Cambiai registro: «Mi spiace disturbarla, ma sono un amico di don Giorgio e padre Ercole. Mi stavo chiedendo se ha qualcosa da darmi per l’annuale festa di beneficenza.»

Per un po’ non si sentì più nulla. Poi risuonò una chiave che girava a fatica nella toppa. Mi apparve quindi, all’altezza della maniglia, un occhio tondo e arrossato che faceva capolino da uno spiraglio della porta.

«È sicuro che lei è un amico di don Giorgio?»

«Certo che lo sono.»

«Allora venga.» La porta si spalancò e l’uomo, alto non più di un metro e mezzo, mi diede subito le spalle. Un tanfo terribile investì le mie narici e un moto di disgusto mi rovesciò lo stomaco. Non riuscii a muovermi. L’uomo, dalla barba grossolanamente tagliata e dai capelli arruffati tanto da assomigliare a Bertoldo, si fermò sul primo gradino della scala vociandomi contro:

«Insomma, vuole entrare, sì o no?»

Mi feci forza e lo seguì. Più salivo e più l’odore di marcio indefinibile mi attanagliava la gola. Giunti al secondo piano l’uomo prese a montare su di un’altra scala, più piccola e sghemba, fino a quando non arrivò in soffitta dove, nella penombra polverosa e malsana, potei distinguere delle stie per galline e conigli. Nel frattempo la mia attenzione era stata attratta da due voluminosi sacchi neri della spazzatura tenuti fermi da legacci e buttati da un lato. Si sarebbero dette delle coperte o dei tappeti.

«Sono due cadaveri» mi sibilò lui mollandomi in mano un coniglio che si divincolava. «Non è che, andando giù, mi aiuterebbe a portarli in giardino, vero? Da solo non ce la faccio.»

Io presi la bestiola per le orecchie, in silenzio; forse l’uomo si aspettava da me una risposta perché, quando mi limitai a scendere senza dir nulla, fece una faccia strana come se avesse voluto compatirmi. Avevo bisogno invece  di uscire di lì il più presto possibile per riprendere a respirare. Mi accompagnò alla porta con il suo passo a saltelli e, nell’accomiatarmi, mi respirò dietro:

«Guardi che scherzavo… non sono due cadaveri.»

L’uomo aveva messo in mostra, nel sorridere, solo qualche dente sul davanti e neppure bianco. E io stavo già per montare in macchina, chiedendomi come avrei potuto guidare con un coniglio vivo tra i piedi, quando l’uomo, nello sbattere la porta di casa, borbottò serio:

«Non sono due cadaveri … il cadavere infatti è uno solo.»