La gita in barca

Il remo si tuffava in modo ritmico nell’acqua trasparente senza fare alcun rumore. Il solco lasciato sulla superficie del lago era solo una increspatura delicata e morbida, una ruga sottile sul viso di una donna bellissima.
La voglia di andare su quel lago era diventata sempre più pressante negli ultimi mesi. Aveva urgente bisogno di ‘staccare’, di ritemprare le proprie forze, ma aveva sempre rimandato. Sino a quel giorno. Mettendo infatti i piedi per terra, quella mattina, anziché vestirsi per l’ufficio, aveva messo qualcosa di comodo ed era partito in gran fretta prima di poterci ripensare e trovare una scusa valida, tra le tante, per poter rinunciare. La giornata del resto prometteva un sole tiepido e un cielo cristallino e già alle 8 del mattino si capiva che la promessa sarebbe stata mantenuta.
Giunto all’imbarcadero, lo scafo, come se già sapesse per abitudine la giusta direzione, si posizionò con la prua verso il centro del lago, sicché bastarono poche spinte gentili per farlo scivolare lungo quel manto di argentea lucentezza.
Davanti a lui si stagliava imponente la catena montuosa ancora innevata; si sdoppiava magicamente nello specchio ingigantendo la profondità del paesaggio e lo spazio attorno a sé.
Uno stormo di canapiglie festose, con il loro buffo ventre bianco, rigò rapido il cielo alla sua sinistra senza curarsi di lui. Era del resto immerso nella natura, vestito del suo silenzio, come una foglia abbandonata dal ramo o una trota guizzante o uno dei miliardi di riflessi che si sprigionavano dalla superficie dell’acqua.
Dopo circa un’ora era oramai lontano dalla riva. Si fermò e socchiuse gli occhi. Provò a sentire i battiti del cuore. Gli parve persino che rallentassero. La sua vita frenetica era un evento remoto che apparteneva forse a qualcun altro o era di un altro tempo o di un’altra dimensione. Il suo respiro aveva trovato il modo per raccordarsi al vento che soffiava tenue quasi fosse il respiro impercettibile della terra.
Poi gli venne all’improvviso una gran fitta alla tempia.
Era un dolore lancinante che lo fece rabbrividire e scuotere di brividi. Da un punto profondo del suo cervello si era accesa una luce via via più intensa sino ad abbagliarlo completamente anche se continuava ad avere gli occhi chiusi. Rimase senza fiato mettendosi subito dopo ad ansimare come se qualcosa attorno a lui stesse risucchiando tutta l’aria del pianeta. Pochi attimi dopo, un’altra ondata di luce ancora più violenta, come un flash in piena notte, quasi lo tramortì obbligandolo a distendersi sul fondo della barca alla ricerca di un poco di sollievo. Se ne stette un po’ così, attonito, sentendosi un pezzo informe di carne.
Poi, attraverso quel bagliore che non accennava a diminuire, gli fu chiaro il significato della vita, della sofferenza e della morte; il perché del bene e del male; delle ragioni dell’infinito, dell’esistenza di Dio; capi il perché degli aneliti dell’anima e qual è il fine ultimo del nostro esistere. Tutto finalmente aveva una sua collocazione, un suo senso, una sua direzione. Ed era un risposta semplice, quasi banale. Aprì gli occhi in preda a una viva agitazione. Cercò il telefonino. Doveva dirlo a qualcuno. A Martha, per esempio, alla sua compagna. Doveva rivelarlo a lei così come era stato rivelato a lui anche se non sapeva bene perché mai proprio a lui e perché mai proprio in quel momento.
Ma la luce nei suoi occhi era ancora così forte che, dopo aver recuperato a tentoni il suo zaino, il cellulare gli sgusciò di mano facendolo finire nelle acque immense del lago. Lo sentì affondare come un sasso, mentre le sue mani erano protese nell’acqua nel vano tentativo di riprenderlo.
Non è possibile!’ disse ad alta voce ‘non può star accadendo, non ora…
Poi si tirò su a sedere nello stordimento di quella luce; inciampò nel banco di legno andando a picchiare la testa contro lo scalmo del remo. Svenne.

Che ci faccio oggi qui?’ si disse risvegliandosi dopo un buona mezz’ora. ‘A quest’ora dovrei essere al lavoro, non su questo lago… Devo avvertire che arrivo in ritardo. Ma dov’è il cellulare?

Approdi di luna

barca«Hai fatto bene a insistere a tornare qui, Julia» disse il marito appoggiato leggermente con la schiena all’armadio. «Festeggiare il nostro decimo anniversario, venendo in questo stesso albergo dove abbiamo passato la luna di miele, è come rinnovare le nostre promesse…»
«Già» rispose lei indaffarata a svuotare le valigie e a riporre gli oggetti nei cassetti e nel bagno.
Lui tirò fuori il pacchetto delle sigarette e l’accendino.
«Se vuoi fumare, vai fuori per cortesia, lo sai che mi dà fastidio l’odore di fumo che ristagna nella stanza…»
«Sì sì, certo… Sai che ho già fame?» fece lui aprendo allegro la porta della terrazza e uscendo all’aperto.
Il blu scuro del mare gli venne incontro. La notte era senza luna e le luci chiare e regolari del pontile si stagliavano come gioielli nella prospettiva immensa distesa verso l’orizzonte. Le onde erano basse, distratte, disegnate all’acquerello e la risacca giungeva morbida all’orecchio come un ritornello dolcissimo. La spiaggia era selvatica, mal tenuta, a tratti dorata con impercettibili schegge di quarzo che riflettevano il bagliore intermittente che le stanze dell’albergo facevano spiovere sull’arenile.
«Vieni Julia, vieni a vedere… è bellissimo!»
«Finisco qui e vengo…»
In quell’angolo di costa cesellata dalla natura e dimenticata dagli uomini, la primavera era già arrivata. Era nell’aria tiepida, nonostante l’ora serale, ma anche nei profumi lievi che giungevano a cavallo di una brezza gentile; gli sembrava già di avvertire i sentori del gelsomino abbracciati a quelli del bergamotto. Sospirò. Non avrebbe voluto essere in nessun altro posto.
E all’improvviso tutte le luci sulla spiaggia si spensero.
«Julia è andata via la luce!»
«Ho visto, tornerà…»
Il buio era diventato ostile, denso, malmostoso. Era una cortina impenetrabile in ogni direzione. Il cielo stellato incombeva da ogni parte sul mare come se lo volesse toccare e cancellare con la propria bellezza. Un uccello della notte emise un verso stridulo che sembrava più una richiesta di aiuto che un richiamo d’amore.
Poi alcuni rumori provenienti dal mare, da leggeri e impercettibili, si fecero più presenti. In quella conca naturale i suoni si ingigantivano rimbalzando tra pietra e cespuglio, tra sogno e irrealtà. Era una barca, una grossa barca a motore. Si sentivano delle voci sia di persone che stavano raggiungendo la spiaggia da terra sia di chi già si trovava sulla barca. Il motore fu spento e si udì il frusciare delicato della prora che divideva l’acqua.
«Vieni Julia, corri… sta succedendo qualcosa di strano…»
Ora la barca aveva attraccato perché gli uomini si erano dati l’un l’altro la voce per spingerla con la chiglia sulla rena. E, dopo ancora, si udì un contenuto tramestìo, un sommesso sciacquìo, un’attività concitata e precisa, ordinata e rapida, scandita da un ritmo che solo qualcuno nel silenzio stava impartendo. Potevano essere dieci, quindici persone, ma tutte si muovevano secondo un copione mille altre volte provato, come se ci vedessero davvero e si conoscessero a occhi chiusi: non una voce di troppo, non un suono che non fosse inevitabile.
Trascorse probabilmente un quarto d’ora, non di più.
Le luci si riaccesero tutte allo stesso istante. Quelle del pontile, quelle delle sparute case avvinghiate alle colline, quelle dell’albergo. La luminosità discreta e soffusa si riappropriò della conca sfidando la notte.
Ma non c’era più nessuno sulla spiaggia. Non si notavano neppure orme né sulla sabbia né sulla battigia; come se nulla fosse accaduto.
«Julia… cosa ti sei persa… non ci crederai mai…» disse lui rientrando nella stanza.
«Julia? Julia?!? Dove sei?»


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La barca e il suo marinaio

La barca era arrivata in porto sul far della sera. Aveva steso i suoi ormeggi, dispiegate le vele, asciugate le sartie. Era una sosta meritata dopo tanto navigare in solitari mari alla ricerca di una identità che era giusto pretendere anche quando si vive soli con se stessi.
E così fu amore a prima vista con quel marinaio dal viso simpatico e dalla barba buffa che l’aspetto di un marinaio poi proprio non aveva. Fu vera passione con quell’uomo che sostava ritto accanto alla sua prua e che raccontava dei suoi viaggi, di un’altra vita e di un’altra morte. Trascorsero giorni intensi cullandosi nella brezza di fine estate, nel risciacquo monotono del porto. La barca ebbe il tempo di ricucire i suoi strappi, i dubbi e il significato compulsivo dei propri sbandamenti. Le parve folle aver bramato gli scogli più aguzzi nel cuore della tempesta per squarciare i giovani fianchi; le parve insensato aver navigato alla cieca alla volta di qualche potente gorgo che tutto inghiottisse: fasciami, ancore, incubi e maledizioni. Il suo marinaio le piaceva, con il suo vestito bianco e l’ombra sottile e le braccia vigorose.
Poi un giorno lei, che si era rifocillata dei suoi pensieri e dei suoi respiri, si sentì di nuovo forte. Le gomene sembravano fili di lana sotto la tensione della chiglia nervosa; le vele si tendevano allo spasmo verso il vento che soffiava ammaliante poco più in là. Decise allora, all’improvviso, di strappare via ogni legame, trascinando in mare la robusta bitta con l’esuberanza cieca di una gioventù da cui non c’è riparo. Si staccò dal molo sotto gli occhi stupefatti dell’uomo dal sorriso gentile e dalla barba buffa. Sballonzolò sicura doppiando il capo e il faro dall’aspetto altero, procedette oltre scivolando sulla schiuma profumata finché non entrò in mare aperto.
Ora è in un oceano senza nome, tra onde ancora più paurose di quelle che non siano davvero.
E grida il nome del suo marinaio, tanto lontano.