No match (seconda parte)

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PUNTATA PRECEDENTE: il comandante Page, durante il viaggio di avvicinamento, sulla sua Unità spaziale E3000, verso la Sedicesima Luna del Cane Maggiore, con il compito di colonizzarla con il suo equipaggio, è stato svegliato dalla sua ibernazione a seguito di un guasto. Accerta infatti al risveglio che qualcuno alla partenza ha sabotato il computer addetto alla navigazione oltre che il sistema di comunicazione verso l’esterno; ora la nave spaziale è diretta verso un buco nero che, tra 156 anni luce, li inghiottirà. Scopre però anche che non tutte le scialuppe di salvataggio sono fuori uso. Una, che era stata spostata per la riparazione e non correttamente riallocata, si è salvata dalla cortocircuitazione. Cerca di pensare a cosa poterne fare per reagire alla situazione venutasi a creare.


Avrebbe potuto piuttosto far caricare sulla capsula superstite di salvataggio le celle di ibernazione di due coloni. Bastava programmare il computer ausiliario che ancora funzionava e il gioco era fatto. ‘Perché no?’, pensò battendo le mani una contro l’altra. ‘Un maschio e una femmina’. Per poi spedirli a destinazione sulla Sedicesima Luna: in fondo erano quasi arrivati, mancavano solo pochi mesi di navigazione. Certo, ci sarebbe voluto molto più tempo per creare una colonia vera e propria e avrebbero incontrato molte più difficoltà da soli, ma era pur sempre un inizio e un modo perché l’operazione avesse comunque successo. Del resto le strutture logistiche erano state già installate da tempo sul posto e tutto era pronto. L’idea era così folle da sembrargli buona.
Che fare invece del resto dell’equipaggio? Svegliarli tutti avrebbe creato solo caos a bordo e un probabile isterismo di massa alla notizia del sabotaggio, soprattutto tra i non militari. Lasciare l’equipaggio in ibernazione poteva essere invece la scelta migliore perché tutti sarebbero andati incontro alla morte senza neppure accorgersene; dopotutto, con il computer di navigazione in avaria, senza alcuna chance di ripararlo o di chiedere aiuto, non c’era nessun’altra opzione possibile da praticare, che fosse stato solo sull’Unità o circondato da altre 1.500 persone a creargli problemi. Forse avrebbe potuto invece svegliare unicamente quello schianto di Annabel Kochinsky, Area Subartica Est, anni 35, Ufficiale di prima classe addetta all’Approvvigionamento. Almeno avrebbe avuto un po’ di compagnia. Ci avrebbe pensato su, con calma e a mente fredda.
Si mise allora subito a riprogrammare il computer per la individuazione dei due coloni; andavano scelti tra soggetti di buona salute tra i 25 e i 30 anni, compatibili tra loro per carattere, competenze e attitudini oltre che per i 158 parametri comportamentali del Protocollo Axel.
Un paio d’ore dopo, quando tutto fu pronto e la scialuppa superstite fu ricollocata sulla sua rampa di lancio, il Comandante Page lanciò il programma ormai completo. Il computer ausiliario non ebbe dubbi sulla scelta che terminò in 5 millisecondi esatti. Individuò un certo Arthur Green di anni 29 della Colonia Vega e una tale Lorna Cooper-Lancaster, del Michigan inferiore, di anni 25. Dalle schede risultava che lei apparteneva a una famiglia facoltosa e molto in vista nel Mondo Interno, con un curriculum di tutto rispetto quanto a istruzione e carriera. Di lui invece non c’era scritto pressoché nulla se non che era stato imbarcato il giorno stesso della partenza con visto provvisorio e nulla osta verbale. Insomma, forse era un clandestino; giù al Comando qualcuno si era dovuto sdebitare per qualcosa.
Certo, una strana accoppiata’ pensò lui grattandosi il naso importante ‘ma è il computer che ha scelto e chi sono mai io per interferire?’ e guardò le foto dei due giovani; erano entrambi di bell’aspetto con una faccia simpatica e sorridente: sembravano voler accettare di buon grado quella sfida.
Il Comandante raggiunse la rampa di lancio della capsula superstite. Vennero caricate senza nessuna difficoltà le due celle di ibernazione; programmò anche il computer di bordo della capsula in modo che avviasse il ciclo di scongelamento una volta arrivata a destinazione. Poi, Page rimase per qualche attimo a osservare, attraverso l’oblò posteriore, quel carico prezioso di vite umane ignaro nel loro sonno artificiale. Era il suo riscatto. Sorrise e, chiudendo gli occhi, trattenne il respiro e premette il pulsante start.
La capsula si mosse, prima lentamente, e poi si fiondò a elevatissima velocità verso il buio siderale; il Comandante fece appena in tempo a scorgere la scia luminosa rossa intermittente lasciata dietro di sé prima che virasse.
Quindi, ancora un po’ commosso da quanto era appena accaduto, tornò al computer ausiliario per interrogarlo sulla sua compatibilità con Annabel. Era solo una formalità, pensò, visto che aveva già notato come lei lo guardava ogni volta che lo incontrava nei corridoi del Comando, ma non voleva avere sorprese, non in quella situazione balorda in cui si era venuto a trovare. Così impostò i dati e fece partire il programma. Anche in questo caso il computer ci mise una manciata di nanosecondi a dare il suo responso. Solo che il nominativo prescelto era quello di Thomas Wolfe, Canada orientale, di anni 42, tecnico di secondo livello, reparto propulsori.
Ci deve essere un errore’ si disse. E fece altri tentativi, badando bene ogni volta che la procedura fosse quella corretta. Il computer proponeva però sempre lo stesso risultato. Provò anche a flaggare in esclusione la scheda di Thomas Wolfe e il programma rispose “NO MATCH”.
Recuperò la scheda di Wolfe. Era un bell’uomo, di colore, un viso franco e simpatico, curriculum ineccepibile. Le rispondenze con la sua scheda avevano dato un punteggio altissimo nel Protocollo Axel; anzi il programma aveva aggiunto persino una “stellina d’oro”  come persona particolarmente raccomandata anche per la compagnia.
Il comandante Page spense il monitor e per un attimo perse il suo sguardo nell’immensità dello spazio.
«Bene!» disse poi sospirando ad alta voce nel silenzio più totale della sua Unità. «Dove sarà il bar?»

No match (prima parte)

Quando cominciò a sentire in bocca il gusto amaro del cluster-detox iniziarono anche a ritornargli in mente, una dopo l’altra, alcune immagini sbiadite della sua vita. Poi come tessere di un unico puzzle si ricomposero con ordine nel suo cervello tanto che, quando ebbe la forza di spalancare il cofano della cella di ibernazione, si rese conto di ogni cosa: era il Comandante Jackson Page e si trovava su una modernissima Unità E3000 con a bordo 1531 persone — tra equipaggio e coloni — diretta sulla Sedicesima Luna della Nana Ellittica del Cane Maggiore. E il fatto che si fosse svegliato dalla ibernazione significava solo una cosa: che era accaduto quello che non doveva accadere e cioè che il programma di indirizzamento verso la meta finale era stato bruscamente interrotto.
Ci mise ancora diversi minuti e una dose supplementare di farmaci adiuvanti per recuperare una motricità sufficiente che gli consentisse di recarsi alla Plancia di Comando; doveva controllare i computer di bordo e cercare di capire di quale anomalia si trattasse e possibilmente correggerla. Ma quello che accertò non gli piacque affatto. L’NGH ovvero il Supercomputer principale di navigazione aveva impresso alla Nave un repentino cambio di rotta. L’Unità E3000 adesso non era più diretta sulla Sedicesima Luna, come previsto, ma, dopo aver eseguito una virata a babordo di 33,7°, stava puntando verso CRO-702008C, un Buco nero di recente formazione che li avrebbe semplicemente inghiottiti.
E dire che di tutto ciò nessuno se ne sarebbe potuto accorgere se lui, poco prima di partire, non avesse fatto installare, per personale pignoleria, un dispositivo accessorio in forza del quale, in caso di avaria, l’NGH avrebbe inviato alla sua cella un impulso di avvio immediato del ciclo di scongelamento svegliandolo. E così era stato. Anche se ora, l’essere seduto al posto di comando, da solo, davanti a un computer in crash fatale lo faceva solo sentire frustrato e inutile. Non c’erano dubbi: la strumentazione elettronica che regolava la navigazione era stata pesantemente sabotata da chi aveva deciso che quella missione avrebbe dovuto fallire; non era possibile in alcun modo riprogrammare il viaggio: il Supercomputer era fuori uso. Sarebbero morti tutti.
Controllò le altre sezioni della Unità: funzionava pressoché ogni reparto. Fatta eccezione per le capsule di salvataggio che erano state manomesse dall’NGH per impedire qualsivoglia forma di esodo dalla nave, così come la strumentazione di bordo per comunicare con l’esterno. Non era più possibile inviare o ricevere messaggi. Chi aveva organizzato quella strage aveva pensato ad ogni evenienza con lucida freddezza. Era come se si trovasse prigioniero all’interno di una costosissima scatola cieca e sorda, in compagnia di 1531 persone addormentate con un destino orribile e ineluttabile davanti; anche se lui personalmente, sull’orlo del CRO-702008C, tra 156 anni, non ci sarebbe ovviamente mai arrivato vivo; la vecchiaia avrebbe fatto prima il suo corso.
Poi guardò meglio la videata di uno dei computer ausiliari davanti a sé. Non tutte le scialuppe di salvataggio erano fuori uso. Una si era salvata. Era stata rimossa dalla sua slitta per alcune riparazioni dell’ultimo momento e poi, per disattenzione del tecnico, non era stata messa nella sua postazione in modo corretto. Quando l’NGH aveva sabotato durante il viaggio le scialuppe non era riuscito a raggiungere anche quella non in linea. Forse, dopo tutto, lui si poteva ancora salvare.
Ma per andare dove?’ Si chiese. ‘Da solo poi!’
Come Comandante non sarebbe potuto mai tornare a casa anche se qualcuno lo avesse recuperato nello spazio aperto. Dopotutto, avrebbero potuto sostenere a buon diritto che, come Responsabile dell’Unità, aveva pur sempre mandato a morire più di millecinquecento persone mentre lui si era salvato. ‘No, non era cosa’, rifletté. Né sarebbe riuscito mai ad arrivare sulla Sedicesima Luna: avrebbe dovuto prima re-ibernarsi, ma era una procedura complicata persino su una Nave sofisticata come quella e non sarebbe stato mai in grado da solo di poterla completare. Sarebbero state necessarie fisicamente più persone.
No, non poteva finire così‘; pensò. Non poteva essere stato svegliato per non poter reagire. Doveva assolutamente fare qualcosa.

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Nel buio profondo

Era stato avvistato dal telescopio spaziale Hubble quasi un anno e mezzo prima. Era come sbucato all’improvviso da dietro la galassia di Andromeda con una traiettoria decisa verso la via Lattea. Si trattava di un oggetto grande come tre o quattro grattacieli insieme e ruotava su se stesso.
«È il più grande meteorite avvistato da nostri dispositivi ottici» disse entusiasta Lars Halvorsen del Centro Studi Dybtrum di Copenhagen «ed è di una rara composizione ferro-rocciosa che potrà darci molte informazioni sullo spazio esterno.» Gli scienziati di tutto il mondo rivolsero così la loro attenzione su quel nuovo oggetto extra galattico che prometteva meraviglie e la NASA progettò una sonda speciale che potesse atterrare sulla sua superficie.
E man mano che HN-Y6629 si avvicinava (così era stato subito battezzato) dava informazioni di sé sempre più stringenti e importanti; fino a quando, appena poco dopo Pasqua, a Pasadena, l’ingegnere spaziale statunitense John Chavez-Brooks scoprì per primo che i calcoli predittivi davano per certo un impatto con la Terra, in poco meno di sette mesi.
L’effetto di questa notizia, che via via veniva confermata anche da altri Centri spaziali sparsi in tutto il mondo, creò il massimo allarme. Sembrava uno di quei film catastrofici cui il cinema ci aveva abituato. Solo che era la vita reale e non vi era alcuna soluzione praticabile per deviare e o distruggere un meteorite di quelle dimensioni. Avrebbe semplicemente impattato con il nostro pianeta e lo avrebbe spaccato in due.
Le reazioni della gente furono le più varie. Ci furono disordini, sommosse, tentativi di golpe. Ma anche conversioni di massa a questa o quella religione o setta; vi furono suicidi rituali, attacchi di panico, manifestazioni di isterismo collettivo, ma anche manifestazioni di agnosticismo, isolamento, atarassia. L’economia ebbe un tracollo mondiale perché la stragrande maggioranza delle persone, consapevoli della fine imminente, aveva perso il senso del proprio futuro cercando piuttosto di vivere alla giornata e nel modo migliore.
Intanto a Pasadena si era formato un gruppo di scienziati, decisi a trovare una via di uscita.

«Non ho buone notizie» disse un giorno Lars Halvorsen ai colleghi entrando nella Sala Quadrata allestita al Centro di Unità di Crisi Permanente di Palo Alto.
Gli altri alzarono lo sguardo chi dal monitor del computer, chi dall’ultimo report giunto dal telescopio, chi dalla parete di fonte.
«Sul meteorite è apparsa una lucina… Non l’avevamo notata prima perché l’Oggetto ha ruotato di due gradi sul suo asse longitudinale.»
«Una lucina? E allora?» fece l’astronomo di fama mondiale Graham Fujisuke posando una ciambella su un foglio che ne assorbì l’unto. «Si tratterà di un riflesso. Lassù è pieno di fonti di luce che arrivano da chissà dove…» fece masticando a bocca aperta.
«Non questa» fece Halvorsen aggiustandosi gli occhiali dorati sul naso. «Non questa… è intermittente e cambia colore.»
«Dio del cielo!» fece un altro scienziato dalla carnagione olivastra e con i capelli lunghi raccolti in un codino. «È un’astronave.»

Anche questa terribile notizia fece in un attimo il giro del globo aggiungendo caos a disordine. La minaccia comune non determinò l’effetto auspicabile di coalizzare tra loro le Nazioni. Anzi, ogni Stato pensò a sé limitandosi a sollevare nei confronti degli altri accuse di ogni tipo e a ridestare antichi e mai sopiti rancori.
Trascorsero mesi terribili. Oramai l’astronave aliena era visibile a occhio nudo ed era immensa e inquietante. Aveva anche aumentato la sua velocità e il suo ingresso nella nostra atmosfera era questione di giorni se non di ore.
Alla rabbia, allo sconforto, all’isteria dilagante era subentrata la rassegnazione generale. Le poche persone in strada vagavano senza meta, come zombie spaesati. Molti altri erano asserragliati in casa come se vi potessero trovare riparo.
E poi l’astronave, poco prima di entrare nella troposfera, passò oltre, perdendosi ben presto nel buio profondo.