Maverick

Il giorno in cui ho incontrato Maverick, era un giorno da tregenda e il vento intervallava mulinelli di foglie tra le radici delle querce a sferzate violente, piene di pioggia, come se volesse giocare a spaventare.

Si faceva sempre più scuro sulla piana, mai i miei compagni di caccia non se ne davano a vedere. Si vociavano l’un l’altro richiamando gli infaticabili cani che rigavano senza sosta il verde smunto della campagna; uno era il bracco di Tonio e l’altro il setter di Bastiano: intersecavano rapidamente le loro traiettorie senza mai toccarsi come in un esercizio provato migliaia di volte.

Ero stanco, zuppo d’acqua e annoiato: mi stavo giusto chiedendo come avessero fatto a coinvolgermi in quella “girata per le colline”, quando Bastiano mi urlò di seguire il setter. “Vai dietro alla Dolly, vagli dietro che sta pipando…”

Non avevo voglia di discutere, nè avevo voglia di chiedergli che cosa caspita significasse che stesse ‘pipando’. Soprattutto, non avevo la forza di spiegargli che c’era stato uno sbaglio di fondo e che io lì non ci dovevo essere: la caccia non mi interessava più e da tempo. Era ora che lo sapessero.

Così mi misi sulla scia del cane che, senza alzare la testa, al trotto, seguiva una traccia che lo tirava a sé fin sulla cima della collina di Poggiobrusco.

Mi misi a correre, ma più per far perdere le mie tracce che per seguire alcunché. Anche perché il fucile l’avevo scaricato fin dall’inizio della battuta, meritandomi le occhiatacce di quegli ‘omini tutte rughe e modi bruschi’ (che chiamano ‘gli indiani’) che l’avevano organizzata in modo impeccabile.

Mi infilai lungo il sentiero sul versante est di Poggiobrusco (ignorando allora che ci fosse anche una strada) e corsi per un po’, sentendomi in qualche modo responsabilizzato dal mio ruolo di comparsa; corsi fino a quando il cuore cominciò a battermi così forte da non riuscire più a sentire in basso le voci degli altri.

Gli stivali affondavano nel fango e all’improvviso mi sentii ridicolo con la cacciatora addosso e la cartuccera piena di munizioni che non avrei mai usato. Mi fermai, mi tolsi il cappello. Controllai che durante la scarpinata non avessi perso caracollando qualcosa, gli occhiali o le chiavi di casa o il coltello, come mio solito. Il cane oramai era lontano, grazie a Dio, e io nutrivo sempre più un gran desiderio di tornarmene a casa, da solo e a piedi, magari senza dir niente a nessuno, per infilarmi nel letto e dormire un po’.

Ero rinfrancato, di non riuscire più a distinguere neppure la coda della Dolly e mi ritenni sciolto dal dovere di inseguirla. Pensavo solo al modo di tornare indietro, per un’altra strada.

Mi girai verso destra, verso la piana. Lo spettacolo era magnifico: le colline degradanti a ulivo, con il verde più tenue delle viti come in un presepe; il paese di Castelmoreno accucciato sul fianco del Monte Raddo avvolto in una luce da fiaba. E più in là, da uno squarcio dal cielo, un fascio di luce a illuminare il campanile di Pievàni come se fosse una rivelazione, mentre Bigialli se ne stava in penombra come se volesse prender sonno.

Mi voltai verso sinistra. E Maverick era lì. Mi stava guardano da un po’. Era immobile sotto la veranda nascosta completamente dal verde; era affondato nella sedia a dondolo con una tazza in mano.

“Un po’ di tè?” mi disse con estrema naturalezza. Non riuscivo a rispondere. Forse perché quell’uomo mi era apparso irreale, inaspettato o peggio improbabile. “È dell’ottimo Bancha, sono sicuro che le piacerà…”

Da quel giorno sono passati diciotto anni. E da allora John P. Maverick, un americano trapiantato in Italia è diventato il mio migliore amico, quello che meglio di altri ha saputo starmi vicino anche nei momenti meno facili.

A forza di recarmi a Poggiobrusco, per andare a trovare lui e la moglie Lucente, ho finito anch’io per trovare casa lì, poco distante, ma in alto, proprio sul cucuzzolo della collina.

È un uomo dolce, reso asciutto dalle mille esperienze consumate ai quattro angoli del globo. Un uomo generoso, di poche e cadenzate parole cariche di un loro preciso peso specifico. Uno che, con semplicità, ti tira fuori ciò che di buono hai nel cuore per farti capire quanto vali come essere umano.

Da giovane faceva il boscaiolo in Canada; è stato ed è un grande pescatore d’acqua dolce (esperto nella pesca con la mosca). Adesso fa l’allevatore di cavalli arabi e appaloosa ed è titolare del maneggio ‘Saska’ appena fuori Lughi.

Sono molto affezionato anche a Phil, il loro figlio di dieci anni nei cui confronti, quando sono a casa Maverick, mi sono assunto l’ingrato compito di raccontare le favole della buona notte per farlo addormentare. Lui mi ripaga con la sua simpatia e chiamandomi zio.

(clicca sull’immagine per ingrandirla)

il disegno è di Supergiovane che puoi contattare visitando il suo sito

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3 pensieri su “Maverick

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