Tulum (prima parte)

«Come ti chiami?»
«Jimmy Border, ma in giro mi chiamano tutti Pelleossa.»
«Pellerossa?»
«No no… Pelle e ossa.»
«Ah… e come mai?» gli domandò Bob appoggiandosi alla staccionata.
«Perché quando ero giovane ero magrolino e allampanato da far schifo.»
«Quando eri giovane? Perché adesso quanti anni hai?» gli chiese l’uomo abbozzando un sorriso storto.
«17, perché?»
Bob preferì non rispondere. Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Cercò di ricordarsi cosa pensava lui del mondo a 17 anni. Ma era passato davvero troppo tempo. Fece due lunghe tirate mentre il ragazzo lo fissava ancora con aria interrogativa, un occhio strizzato per il sole che gli sbatteva in faccia.
«Mi ha detto Turner che vuoi imparare il mestiere e che sei sveglio» gli fece quindi Bob togliendosi con due dita una briciola di tabacco che gli si era fermata sulla lingua.
Il ragazzo fece spallucce.
«Sei proprio sicuro che vuoi fare il ladro come mestiere?»
Pelleossa fece spallucce di nuovo; poi dopo qualche secondo, poco convinto, chiarì: «Spacciare non mi piace.»
«Va bene… si può allora iniziare già da stasera, se ti va» fece Bob estraendo dal giubbotto le chiavi della macchina. «Cominciamo da una cosa facile facile. Tu non dovrai fare niente, devi solo venirmi dietro cercando possibilmente di non fare casini.»
«Ok» fece l’altro.
«Ah… e non portare armi. Non servono e provocano solo guai. Quindi se anche hai con te un coltello a serramanico da difesa lascialo a casa. Lo stesso vale per lo smartphone. Si mettono a suonare nel momento meno opportuno e consentono il tracciamento.»
«Ok.»
«Ci vediamo qui verso le undici di sera. Andiamo con la mia Corvette. Non è vicino ed è meglio usare la macchina, anche se è la mia. La parcheggeremo però alcuni isolati prima.»
«Ok»

Era una villa di lusso, vuota. La famiglia che ci abitava era in vacanza già da qualche giorno a Tulum per una visita ai cenote del luogo. Bob aveva già provveduto, entrando nella rete wi-fi di casa, a staccare le telecamere di sorveglianza e l’impianto di allarme. Gli avevano già fatto avere anche la combinazione della cassaforte a muro. Tutto come da copione. Doveva essere una passeggiata, insomma.
«Rimani dietro di me» gli raccomandò lui, non appena scesero dalla macchina, porgendogli un cappuccio nero e una torcia. «Del cappuccio non ce ne sarebbe in realtà bisogno, ma è una sicurezza in più. La torcia invece accendila quando saremo dentro e non appena lo farò io». Il ragazzo annuì.
Scavalcarono il muro di cinta e, attraversato tutto il rigoglioso giardino al chiarore di una luna quasi piena, arrivarono davanti alla porta di ingresso. Anche se blindata Bob la aprì in pochi secondi. Entrarono. Accesero la torcia. La cassaforte, secondo le indicazioni avute, era situata nello studio dietro a un arazzo. Bob aveva studiato a memoria la piantina della villa e così trovò lo studio al primo tentativo, come se ci avesse sempre abitato. Pelleossa si guardava in giro tranquillo. Aveva un’aria controllata e apatica come se quella situazione non lo riguardasse affatto e fosse solo routine.
Avevano appena fatto ingresso nello studio quando udirono un lieve rumore dietro a loro. Si voltarono entrambi di scatto. Il cuore in gola. Perlustrarono accuratamente la stanza alla luce delle loro torce. Non vedevano nulla di anomalo. Poi, d’un lato, nella zona più buia della stanza, avvistarono un’enorme testa seminascosta da un pianoforte a coda. Un imponente mastino napoletano li stava osservando. E aveva appena cominciato a ringhiare.

La seconda puntata domenica prossima --> Tulum (seconda parte)

Un piano per la fuga

Oscar - un - uomo - in - fugaAveva sentito un rumore e poi subito un altro. Si inquietò e al buio cercò il suo bastone. Lo trovò. Si alzò dal letto, lentamente. Il cuore sembrava ballasse il reggae.
Dei ladri in casa mia?‘ Si chiese. ‘Ma se non c’è nulla da rubare! Oddio… ora non trovano nulla e poi mi danno una botta in testa…
Intanto era arrivato in fondo al corridoio. Intravide una donna in cucina che stava guardando dentro al frigo aperto: era una ragazza di colore, alta, slanciata, capelli ricci cortissimi color oro che facevano pendant con gli orecchini e le zeppe tacco dodici, della stessa tinta.
L’uomo anziano alzò il bastone per colpirla, anche se si trovava ancora a diversi metri da lei.
«Buongiorno Oscar, dormito bene?» chiese la donna rimanendo con la testa tra i ripiani. Ne uscì una domanda con l’eco.
«E lei chi è?»
«Sono Zoe, un’amica di Hanna, che non è potuta venire: mi ha chiesto di sostituirla… oggi bado io a te» disse con un sorriso chiudendo la porta del frigo. Un bel gran sorriso, aperto e contagioso.
«S’è fatta mettere incinta?»
«Ma no… cosa dici? Deve solo andare dal dentista…»
«Si fanno mettere tutte incinta. Vengono per un po’ da me, non faccio in tempo a imparare come si chiamano e… patatrac non le vedo più e al posto loro ne compare subito un’altra, senza che nessuno mi dica mai niente. Proprio come oggi. E lei è incinta?»
Zoe guardò il vecchio come si guarderebbe un bambino.
«Tieni, questo è il cappuccino come piace a te» fece lei cercando di distrarlo con voce suadente «e ti ho portato anche una bella fetta di torta, senza glutine, senza zucchero e senza un mucchio di altre cose…»
«E allora non saprà di nulla…» sbottò Oscar scontroso con l’acquolina in bocca; appoggiò il bastone al muro e ciabattò rapido sino alla sedia.
Perché mi dà del tu? Io sono il generale Oskar Demetrius Augusto Cacciòmini, ho combattuto in Iraq (o era in Siria?). Ma come si permette?‘ pensò.
«Devo rifare il letto, Oscar? L’hai bagnato anche questa notte?»
«Ehmm… forse.»
«Hai messo il pannolo, come ti diciamo sempre di fare?»
«Ehmm… forse.»
Ma è un oltraggio! La dovrei far arrestare questa mocciosa… farla mettere di corvée alle latrine… Anche se… dunque dunque… cosa avrei dovuto fare esattamente ieri sera? Ah sì… aprire una scatoletta di cibo per Tobia, prendere le compresse per la pressione e il colesterolo oltre l’anticoso giallo e amaro; spegnere la TV e… e, ah ecco, sì… mettere il pannolo. Già. Cosa non ho fatto però di queste cose? Oddio, forse a ben pensarci il gatto Tobia è morto da qualche anno… devo controllare meglio… però il resto… il resto sono arcisicuro di averlo fatto tutto!
«Ah, Oscar…» disse la donna ancheggiando verso la camera da letto. «Hai lasciato di nuovo accesa la TV tutta la notte.»
Ora basta, non si può più andare avanti così‘ pensò lui irrigidendosi sulla sedia. ‘Devo fuggire da questo angusto luogo di detenzione. Devo ricostituire il manipolo dei miei fedelissimi. Non possono più impedirmelo. L’ora del golpe è ormai scoccata nei cieli indomiti della nostra amata Patria‘.
Si alzò deciso e, preso il suo fido bastone, andò alla porta di ingresso.
Colpo di fortuna! La ragazza, quella lì, ma come caspita si chiamava? Aveva lasciato il mazzo delle sue chiavi nella toppa. ‘Che stupidina! Roba da Corte marziale.‘ Però era un chiaro segno del Destino. Aprì piano piano la porta e, senza chiuderla dietro di sé per non attirare l’attenzione, infilò le scale. Ci mise un po’ a farle tutte, un passo alla volta, ma quando finalmente si trovò in strada, il sole gli venne incontro radioso. Gli sembrò anche questo di ottimo auspicio. D’ora in poi sarebbe stato un uomo libero, non più ostaggio di badanti distratte e maleducate. Si sentiva di nuovo vivo. Il mondo era tornato ad essere suo. Respirò a pieni polmoni il gas di scarico del traffico del centro. Era felice.
Fece alcuni passi incerti verso piazza Duomo rimuginando sul testo di un possibile discorso per arringare la folla plaudente. Poi d’un tratto si vide riflesso nella vetrina di un bar. Era in pigiama e con le pantofole.
Azz…‘ pensò. ‘Mi devo organizzare meglio… Ecco cosa vuol dire non avere un attendente degno di questo nome.‘ E tornò indietro con passo sollecito verso casa.
Dunque, devo dare da mangiare a Tobia, prendere le pastiglie per i controcosi, spegnere la TV, dovunque essa sia, mettere il pannolo e… e… buttare giù un piano elaborato per la fuga… Perfetto… Sì sì, così mi sembra davvero perfetto‘ si disse fermandosi davanti al portone sbagliato.

Noah

Tombino - rifugio - barboneViveva nel tombino H4/837SP-5. Così almeno c’era scritto a rilievo sulla fusione in ghisa. Freeber Fonderie 1992, c’era anche inciso.
H4/837SP-5, Freeber Fonderie 1992, Lughi.
Se gli avessero scritto una lettera con quell’indirizzo chissà se sarebbe mai arrivata a destinazione. Si chiese Noah, disteso sul suo pagliericcio di trucioli, le mani dietro la nuca. Il postino ci sarebbe però diventato sicuramente matto a trovarlo. Il tombino, si intende. Lui abbozzò un sorriso in quel buio malato.
Era un tombino anomalo oltretutto perché era abbastanza ampio da far passare le sue spalle larghe. E non aveva un pozzetto: dava piuttosto su una camera sotterranea di pochi metri quadrati che era calda d’inverno per il passaggio di tubature condominiali del palazzo vicino e fresca d’estate per non batterci mai il sole. Si trovava infatti all’interno della stazione ferroviaria della città e questo faceva sì che si mantenesse anche asciutta. L’ideale insomma per viverci. Da barbone, si intende. E qui non sorrise affatto, pensandoci. Probabilmente anni prima si trovava all’aperto, sulla piazza antistante; ma con l’ampliamento della pensilina sul lato sud del complesso la copertura era stata tale che l’unica acqua che ora arrivava era quella della pulitrice dell’addetto. Passava sopra il tombino una volta soltanto nei giorni feriali e unicamente per pochi secondi, intorno alle sei del mattino. Neanche il tempo per far scendere qualche goccia.
E così Noah vi aveva eletto la sua dimora.
Nessuno si era mai accorto di lui quando per la cena risaliva di notte, come uno spirito maligno partorito dalla terra, per andare a frugare nei cestini prima che li svuotassero. Il cestino legato al pilastro a lui maggiormente vicino era il più generoso. Era quello infatti della zona commerciale, dei negozi e dei fast food. Ci si trovava di tutto. Pezzi di pizza, hamburger, dolci e pane. Una sera persino un grasso topo affamato che gli strappò di mano quel che rimaneva di un toast prosciutto e formaggio per poi fuggire a zig zag tra le macchine in sosta. E poi lui andava a dissetarsi nella vasca della fontana dei Fauni. Non era tanto pulita, lo sapeva bene, e puzzava di cloro. Ma lui ci era abituato. Bastava solo non badare troppo a cosa ci finiva dentro.
Ogni tanto giù dal tombino cadevano anche cicche accese, a volte qualche sputo, una volta cinquanta centesimi. Un giorno cadde una pastiglia. Aveva un’aria misteriosa quella pastiglia. Per quel colore strano, l’aspetto rugoso e per la lettera che vi era impressa. La incartò, come fosse una cosa preziosa, e la ripose in un anfratto del muro. Un giorno che si fosse sentito particolarmente giù l’avrebbe presa, qualunque cosa fosse stata. Per sballare di brutto o per il mal di testa o i dolori da mestruazioni; poco sarebbe importato, si intende.
Poi quel giorno di depressione, qualche settimana dopo, arrivò. Si prese una bella sbornia con tutti i rimasugli di birra che aveva pazientemente raccolto qua e là negli ultimi mesi. Furono sufficienti pochi sorsi per catapultarlo in un mondo di silenzio appiccicoso popolato da fantasmi agghiaccianti. Sarebbe rimasto in quello stato di sopore per un giorno intero, lo sapeva bene, ed era meglio così in giorni simili. Che si impiccassero tutti. Pensò constatando con la lingua che gli si stava staccando un molare. Compresa sua madre che lo aveva messo al mondo, si intende. E al beverone stantio aggiunse come leccornia la preziosa pillola. Se fosse stato fortunato avrebbe potuto farsi anche un bel trip.

«Sei proprio sicuro che dobbiamo fare così?» disse il muratore all’altro.
«Certo, ne ho parlato con il capomastro. E va terminato anche entro questa sera.»
«Ma che senso ha stendere qui una soletta di cemento?»
«Ci devono fare un parcheggio per i taxi. E poi cosa ti devo dire? Ho smesso di discutere con gli ingegneri… lo sai, hanno sempre ragione loro!»
«E per il tombino?»
«Ci buttiamo sopra del cemento a presa rapida e stendiamo una specie di tappo. Poi, appena asciutto, ci rovesciamo il cemento per la soletta. Anzi guarda. Portiamoci avanti. Lo faccio subito.»

E questo mentre, due metri sotto i loro piedi, nella sua tranquilla ‘abitazione’, Noah era già da tempo nel mondo degli incubi per l’alcol e la potente benzodiazepina che aveva ingoiato. Non si sarebbe svegliato se non l’indomani mattina.

L’uomo che fuma

Paolo andava di fretta, come al solito. E dire che avrebbe avuto tutto il tempo per procedere a passo lento. Aveva infatti puntato la sveglia con congruo anticipo, giusto per fare le cose con calma, secondo i suoi ritmi. Ma era più forte di lui: non appena il portone di casa sbatteva forte dietro alle sue spalle, gli prendeva la frenesia di arrivare in stazione il più presto possibile. E così si trovava a camminare svelto, in modo meccanico, qualunque ora fosse. Come quel giorno.
Dopo aver attraversato la piazza, all’altezza del Bar del Cinghiale ancora chiuso, intravide nella semioscurità un uomo che, in piedi, stava fumando una sigaretta. Non che potesse essere inusuale che qualcuno fosse in attesa che il bar aprisse, ma perché era tutto sommato troppo presto persino per quello; era, piuttosto, l’ora dei netturbini distratti, dei solerti fornitori di brioches ancora calde, degli oscuri pulitori di strada, visto che i nottambuli irriducibili erano appena andati a letto e i turisti di giornata ancora non avevano abbandonato il confort delle loro stanze d’albergo.
Ma l’uomo che fumava lo guardava fisso, con insistenza, come se reclamasse di essere notato. E invece Paolo gli passò davanti senza incrociare il suo sguardo, facendo persino  il minor rumore possibile con i tacchi delle scarpe, come se potesse diventare all’improvviso davvero invisibile.
Percorse tutta la via, senza voltarsi, anche se il disagio per quello sguardo inopportuno gli si era appiccicato addosso. Superò la gelateria, anch’essa chiusa a quell’ora, superò il monumento equestre al Gattamelata con sulla testa il grasso piccione di turno.
Poi si accorse che sul marciapiede di fronte, c’era una coppia di persone che lo fissava attentamente. Cominciò a preoccuparsi. Vide con la coda dell’occhio che la donna bisbigliava qualcosa all’orecchio dell’altro. L’uomo aveva preso a indicarlo.
Paolo accelerò ancora. Traguardato lo spigolo del palazzo nobiliare dei Gentiloni-Severi s’imbatté in un gruppo di persone che, vedendolo, si alzò dai gradini per andargli incontro. La stazione ferroviaria era ormai vicina, ma non voleva mettersi a correre. Sarebbe stato come ammettere di avere paura. E a lui non piaceva avere paura.
Ma le persone che presero ad avvicinarsi, adesso, erano sempre di più. Sbucavano da ogni dove, come se fosse la sua stessa angoscia a partorirle. Uomini, donne, persino bambini. Tutti lo squadravano con intensità, la faccia seria, imbronciata, quasi dolente.
Ecco la stazione. Si disse a voce alta per rincuorarsi.
Oramai attorno a lui si erano formate due ali inquietanti di persone che gli stavano lasciando libero solo un corridoio talmente  stretto che, se avessero voluto, avrebbero potuto aggiustargli la cravatta.
«Cosa volete?» si mise a gridare. «Lasciatemi in pace… non avete nient’altro di meglio da fare?»
Nessuno gli rispose. Il loro volto, i loro occhi, le labbra serrate erano la loro risposta.
Riuscì a raggiungere finalmente l’atrio della stazione. Era vuoto, come era normale che fosse a quell’ora. Anche se si sarebbe aspettato che non lo fosse affatto, considerate quante persone aveva incontrato fino a quel momento. In realtà, notò ben presto, non c’erano neppure altri passeggeri, né il personale ferroviario né un addetto alle pulizie. Il varco per controllare i biglietti non era presidiato. Lo oltrepassò di corsa e, arrivato nello spazio antistante i binari, si accorse che i display dei cartelloni elettronici erano spenti. Ma ciò che più era grave era l’assenza totale dei treni.
«Oddio, cosa è successo? Adesso come farò a raggiungere l’ufficio?»
Forse tutta quella gente che aveva incontrato voleva avvertirlo. Forse loro sapevano cosa era accaduto o cosa stava per accadere.
Senza pensarci un attimo tornò indietro.
Fuori dalla stazione non c’era però più nessuno.

Poi la moglie lo scosse da sotto le coperte.
«Svegliati, Paolo, svegliati. Non ti deve essere suonata la sveglia. Fai presto o perderai il treno.»

Standing ovation

Si guardava il viso riflesso nello specchio alla luce delle lampadine che lo attorniavano. Era una luce spietata che metteva in risalto il tappeto di rughe che tagliavano in ogni direzione la sua pelle spessa a ricordargli gli eccessi e le sregolatezze da rockstar d’annata.
Interrogandosi con gli occhi si domandava soprattutto se fosse stata una buona idea quella di esporsi in una serata unplugged e da solo, per giunta, senza la sua band. Anche se ci aveva riflettuto sopra, poteva essere davvero un azzardo. D’altronde doveva recuperare la sua immagine offuscata. Dicevano che non aveva più nulla da dire sulla scena internazionale. Che oramai suonava sempre gli stessi riff, senza inventiva e senza entusiasmo.
Ma lui sapeva bene che non era così. Lui era un grande, aveva inciso brani che avevano fatto la storia della musica, aveva uno stile che aveva influenzato profondamente le nuove generazioni, aveva contribuito a evolvere il rock percorrendo strade innovative e di successo. Non potevano criticarlo così. Poteva ancora dare molto. Avrebbe fatto veder loro quale razza di solida tecnica possedeva e quale era il suo livello di creatività raffinata. Sì, si dovevano ricredersi. Certo, aveva attraversato in passato periodi davvero bui, non lo negava, e un paio di volte (forse qualcuna di più) aveva anche pensato di aver superato il punto di non ritorno e che non si sarebbe più ripreso. Ma ora il consumo di droga era sotto controllo ed era il momento della rivincita.
«Cinque minuti…» sentì dire da dietro la porta chiusa dopo un rapido bussare.
Si alzò dalla sedia. Staccò la sua fedele Martin D-200 dal supporto e impugnò la maniglia senza aprire però la porta. Tornò lentamente indietro. Aveva bisogno di qualcosa di forte per affrontare quella prova così importante. Nonostante le migliaia di ore di concerti in tutte le parti del mondo e nei più prestigiosi tempi del rock, sembrava sempre un debutto. Se ne ristette così, immobile, per qualche secondo, indeciso. Poi, rapido, tirò fuori da una busta di plastica stropicciata una pasticca e, con un colpo secco del polso, la mandò giù.
Quando titubante arrivò sul palco ci fu un’ovazione. Si alzarono tutti in piedi ad applaudirlo e a gridare il suo nome. Il teatro, il più grande che avesse trovato nella sua città, era gremito e c’erano molte persone anche in piedi. Si sentì rincuorato e felice di aver avuto il coraggio di esibirsi.
Eseguì diversi pezzi creati per l’occasione. Li aveva provati e riprovati sino allo sfinimento. Ma ne era valsa la pena, perché se ne uscivano dalle corde fluidi, accattivanti, incisivi. Il pubblico era in delirio, stregato dalla sua musica. Ogni tanto gli arrivava sul palco, lanciata dalla platea, una rosa o dei cappelli e persino indumenti femminili… come ai vecchi tempi, insomma.
Poi pensò a qualcosa di veramente rischioso. Si sentiva in forma, in stato di grazia e voleva farlo: voleva improvvisare. Suonò così un brano inventato pressoché lì per lì, un groove potente, magistrale, di classe e fu un trionfo. La gente aveva capito finalmente tutta la sua grandezza.
Al termine, gli applausi furono scroscianti. Una standing ovation senza fine che lo accompagnò, dopo il consueto bis, sin dietro le quinte.
«Allora cosa ne pensi del concerto, Mitch?»
Chiese al suo manager di sempre, appena lo intravide, nel mentre guadagnava il camerino.
«E me lo chiedi?»
Lui lo guardò, perplesso. Non capiva il tono della domanda e l’espressione del suo volto.
«Hai fatto pena, ecco cos’hai fatto» gli fece il manager arrabbiato. «Ti sarai impasticcato come al tuo solito, con tutte quelle porcherie che prendi. Te l’ho già detto mille volte: non calarti niente prima di un concerto che poi non riesci a mettere una nota vicino all’altra che abbia un senso. Non hai finito un pezzo che sia uno, hai alternato stonature a silenzi imbarazzanti e fissità nel vuoto. Non hai neppure accordato bene la chitarra. Ormai sei uno scoppiato e sarebbe bene che ti ritirassi. Hai tanto insistito per fare questa genialata, contro il mio parere, e sei riuscito solo nell’intento di scavarti definitivamente la fossa. Non ti sei neppure accorto che non hanno fatto altro che fischiarti e insultarti. Ti hanno tirato persino i bicchieri delle bibite con annessi popcorn. Ce li hai anche tra i capelli. Qualcuno addirittura ti ha lanciato una dentiera. Per fortuna c’era poca gente. Ma io ho chiuso con te.»