Conclusioni

L’uso di un tempo verbale determinato, in sentenza, non viene di solito avvertito come un problema dagli operatori del diritto, né sul punto sono reperibili linee guida da parte della Corte di Cassazione pur nei recenti sforzi di dare un ordine formale e contenutistico ai provvedimenti a contenuto decisorio; la scelta redazionale del tempo verbale è lasciata pertanto alla sensibilità linguistica (e all’arbitrio intellettuale) del giudice.

In realtà, la scelta del tempo verbale, nella parte della sentenza in cui essa appare facoltativa, diviene determinante nell’ottica del significato che si vuol attribuire al profilo contenutistico del provvedimento comportando infatti la scelta dell’uno o dell’altro tempo uno scarto di senso non di poco conto.

Verificati i limiti semantici propri dei tempi verbali utilizzabili, il passato prossimo e l’imperfetto, pur nella loro specificità e nella diversità delle difficoltà di utilizzo, si profilano come i preferibili e consoni al contenuto proprio della sentenza, mentre gli altri tempi (come il passato remoto o il presente) costituiscono una forzatura significazionale se non una distorsione del piano narrativo rispetto al momento attuale e decisorio della sentenza.
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