Silenzio, si giudica

giustizia«Perché vede signor Giudice, il Cielo mi è testimone…» esordì l’Avvocato puntando il dito in direzione di una macchia di umidità che occhieggiava innocente dal soffitto affrescato «… questo povero disgraziato non è che il prodotto dello stesso fallimento della nostra Società. Non è lui infatti che vuole essere uno spacciatore di eroina, non è lui che vuole vivere di espedienti rubacchiando sugli autobus e nelle stazioni ferroviarie, non è lui che si avvantaggia delle grazie di quelle signorine che, passeggiando con atteggiamenti improvvidi e provocanti, mettono in bella mostra le loro peccaminose femminee attrattive: insomma non è lui!»
«In che senso non è lui?» chiese con finta preoccupazione il Presidente Anaspasio Trillozzo, riemergendo accigliato da un cruciverba che si era impuntato al 6 verticale «non è stato arrestato in fragranza di reato ?»
«Certamente Presidente, certamente. Ma ecco, mi fa piacere che proprio la Vostra Signoria Illustrissima, la cui Saggezza, Sapienza e profonda Umanità informano il Sapere giuridico costituendone, nel contempo, lo Spirito e l’Alta Guida. Mi onora, dicevo, che abbia a degnarsi di sollevare, con estremo garbo e in modo più che opportuno, tale spinosa questione… ecco.… dunque… non è lui, bensì appunto la Società delle Inefficienze, la Società delle Storture burocratiche e delle spietate Leggi dell’economia, è piuttosto il Vischiume razzistico del perbenismo imperversante che spinge questo rottame d’uomo, questo rifiuto abbietto delle severe ed inesorabili regole del vivere civile, a galleggiare ai margini del Lecito… del Bene… della Rettitudine… inducendolo, lui nolente, si badi bene o Signori dell’Eccellentissima Corte, lui nolente, ad esplorare il territorio oscuro ed inappagante della Delinquenza per poi trovarsi alla Deriva della Turpitudine e del Vizio…» e terminò la frase sollevando appena appena il mento, onde ammirare il decollo metaforico del proprio aulico concetto.
Nel frattempo, Abdul Tarek Jamal alias Farouk Mohammed Habibi alias Thalmud Alì Lassad seduto, con i gomiti sulle ginocchia, tra due Carabinieri impettiti che sembravano gustarsi ogni aspetto della scena, stava concentrandosi pulendo, meticolosamente, con un’unghia sciaboliforme, la narice destra.
«… ma poi è forse la Giustizia di questo mondo così fariseo, così materialistico, così avvinghiato nelle mortali spire del dio danaro a dover riecheggiare tra cotante solenni mura che hanno udito ben altre tragedie e ben altre disperate grida di dolore? Ahi!»
«S’è fatto male Avvocato…?!?» chiese Anaspasio senza levare il capo dalla rivista di enigmistica tutta stropicciata per il nervoso.
«… no… volevo dire… ahi… a quello sventurato Uomo che vuol sovrapporsi con il proprio fallace giudizio a quello divino, promanazione del Respiro dell’Eterno che instancabilmente ci indica quali siano gli immortali Principi etici da seguire, ma che sempre più spesso, signori della Venerabile Corte, le nostre caduche, quanto ahimè vili esigenze umane (non le Sue, Presidente, ben inteso) travolgono in una torbida ed irrefrenabile spirale del Vizio e della Perversione…» a quel punto il difensore aprì con aerea leggerezza le braccia sottolineando il gesto con una sofferta espressione di accasciamento morale e di misurata capitolazione all’evidenza delle sue argomentazioni.
Dopo oltre un’ora di appassionata arringa che spaziava oramai dalla filologia epistemologica alla matematica quantica, con brevi accenni ad alcune curiosità circa i rituali di accoppiamento della formica anfibia dell’Amazzonia, l’Avv. Oronzo Passiflora, che durante il torrenziale sproloquio non aveva fatto altro che abbottonarsi il panciotto con la mano sinistra per poi sbottonarlo con l’altra mano, ebbe, ad un certo punto, un attimo di esitazione nel cercare di ricordarsi almeno uno dei numerosi capi di imputazione contestati al suo cliente. Il momentaneo silenzio fu interpretato, tuttavia, quale termine dell’appassionata difesa, cosicché il Presidente e i due giovani Giudici a latere, con un tramestio che risuonò cupo sulla pedana di legno, cosa che fece sussultare il pubblico ormai assopitosi senza ritegno, si alzarono all’unisono come tirati da un unico filo invisibile per poi infilarsi, in un vortice di toghe e cordoni, nell’angusta vicina Camera di Consiglio. Questa improvvisa e concertata manovra lasciò il Passiflora con un braccio ancora a mezz’aria nella tipica posa della declamazione .
Il tunisino che, per la noia dell’attesa sembrava finanche scolorito, usando un rugoso e robusto indice che emetteva un vago rumore di lima, era passato adesso a pulirsi con massima dovizia, entrambe le ascelle controllando di tanto in tanto, con generose annusate, l’esito della sua perlustrazione e dei suoi pervicaci progressi. Dietro a lui il Carabiniere più alto, approfittando dell’aria mite dell’extracomunitario, curvatosi con sussiego sul collega, gli chiese in un sospiro:
«Senta, La Martora, sa per caso quand’è che parlerà l’Avvocato della difesa?»
Intanto l’Ufficiale giudiziario Luana Ciccotti, moracciona dalle labbra a sturalavandino e con la maglietta rigonfia di un mucchio di roba buona, sempre così attillata che ad ogni respiro riusciva a mostrare un vertiginoso ombelico a tortellino, intratteneva gli spettatori maschili presenti in sala appianando, con movimenti lenti e sinuosi, inesistenti pieghe delle calze a rete.
I fischi di approvazione erano ormai cresciuti d’intensità (oltre il tollerabile ad essere sinceri), allorché il rimbombo sull’assito dietro i banchi, richiamò l’attenzione sul Collegio che, con finta premura, era rientrato in aula per la lettura del dispositivo della sentenza.
E fu così che il tunisino, grazie all’assistenza del brillante difensore, il quale era riuscito con abilità e sagacia invidiabili a valorizzare le poche prove a carico e a sfumare i molti aspetti a favore, prese il massimo della pena prevista, oltre addirittura i limiti consentiti dalla Convenzione di Norimberga del ‘42 in tema di crimini nazisti.
Il figlio del Maghreb, che non aveva capito nulla di quanto accaduto fino a quel momento, forse perché a conoscenza del solo dialetto di ‘Ngo ‘Ngo, agglomerato di capanne tre, distante quattrocento chilometri a dorso di dromedario dalla più vicina oasi semiselvaggia nel soffocante stomaco di quel paradiso di sabbia e scorpioni che è l’alto Marocco, nel guadagnare l’uscita, spintonato con delicatezza dai militi dell’Arma, si rivolse con aria interrogativa al Passiflora per chiedergli come fosse andata. Questi, asciugandosi la fronte con un vistoso fazzoletto a quadrettoni rossi e bianchi, della grandezza di una tovaglia da picnic, abbottonandosi/sbottonandosi il panciotto, sorrise di circostanza nell’espressione caratteristica del tipo ‘tutto bene, dopo le spiego…’
Quindi il professionista, dopo ampi inchini e genuflessioni all’indirizzo dell’Eccellentissimo, raccogliendo una borsa in pelle floscia e sudaticcia, si tolse di torno.
«Ottimo! » fece il dr. Trillozzo, diafano e smorto in volto «passiamo oltre…»
In quel medesimo istante, l’Avvocato di chiarafama e Presidente (a vita) dell’Ordine degli Avvocati di Lamarmora, dr. Reginaldo Maria Serpi-Colonna, con pizzetto e baffi alla moschettiera, spandendo intorno a sé uno smagliante (e rifatto) sorriso in dentavision, si avvicinò ad Anaspasio e, con voce calibrata e melliflua, proluse:
«Illustrissimo signor Presidente, pregressi e improcrastinabili impegni presso la locale Corte di Appello, mi costringono ad instare, mio malgrado, la sollecita celebrazione del procedimento che vede quale indegno protagonista il mio assistito…»
«Avvocato… ma cosa crede lei… qui abbiamo una valanga di processi da celebrare prima del suo… » se ne uscì con inusuale tono fuor dalle righe Anaspasio Trillozzo, mentre una briciola di sandwich, staccatasi dal labbro inferiore, aveva preso ad ondeggiare nel vuoto.
«Mi consenta di insistere, ma si tratterebbe di vicenda di poco conto… una quisquilia, una boutade, una questione, oserei aggiungere, bagatellare» reiterò sommesso il Principe del Foro con quell’autorità che gli conferivano i capelli ondulati appositamente tinti di bianco.
«Trattasi di processo per una tangente di 854.365.321 euro (circa), signor Presidente…» interruppe querula nella sua botolosità di un metro per un metro la PM Albadea Bambi digrignando i denti e lanciando in ogni direzione velenose occhiate bistrate di viola pallido.
«Un malinteso, Presidente, solo uno spiacevole equivoco che saremmo più che lieti di chiarire…» precisò il professionista abbozzando (all’unisono con il suo cliente) un secondo sorriso stavolta a capo lievemente reclinato come per discolparsi.
«Prove schiaccianti… solo prove schiaccianti…» latrò la Bambi sforzandosi di non far caso al Serpi-Colonna di cui sembrava già masticare un orecchio, giusti i rapidi e secchi movimenti delle sue corte, ma poderose mandibole.
Poi Anaspasio, vinto da un’interiore e profonda stanchezza, biascicò con repentina condiscendenza:
«D’accordo, Avvocato… se non ci sono opposizioni da parte degli altri suoi colleghi e del PM… faremmo ora il suo processo » e, voltatosi verso il Giudice a latere e compagno delle elementari Primo Fante, che con l’eterno mozzicone di sigaro in bocca assomigliava in maniera impressionante ad un flaccido fondoschiena sotto sforzo, ricevette un lieve cenno di assenso.
«Avanti il primo coso… sì il coso… quell’affare lì…»
Un’espressione perplessa si stampò sul viso degli astanti.
«Sì… il coso… che si cosa… come dite voi in italiano?» perseverò Anaspasio annaspando.
«Il teste!!!… Si chiama teste!!!» bisbigliò untuoso Fante nell’aulico orecchio del Presidente per trarlo d’impaccio.
«Ah sì… certamente… un teste… e cos’altro?!?! Fate venire un teste…»
«Quale…?» chiese sgarbatamente la Ciccotti che, le mani sui fianchi e il petto in fuori, Lo squadrava masticando rumorosamente una cicca.
«Uno qualunque…» sospirò «… il primo coso della lista…»
Seguì un po’ di confusione, quindi l’Ufficiale giudiziario, tra i fischi di incitamento del pubblico maschile (si sentì persino un mal sopito nu-da, nu-da), con una camminata sui tacchi a spillo da beccheggio di nave in tempesta, ritornò in aula tenendo per la giacca un signore anziano con un foglio in mano.
«Si segga là» ordinò il Sommo Anaspasio con un piglio che non avrebbe ammesso repliche «lei si chiama?»
«Baldo Pozzolatico e…»
«Ottimo, ottimo… quando è nato?»
«Nel 1909, nel giugno, il diciassette e…»
«… e dove?»
«A Frattamignatta della Mulazzoppa e…»
«Davvero ottimo… a lei signor Pubblico Ministero…»
«Signor Pozzolatico» sibilò la PM che non si capiva se fosse in piedi o piuttosto sdraiata sulla sedia «è vero o non è vero che il 16 marzo dell’anno scorso verso le ore 17.21 (circa) siete entrato nell’ufficio dell’assessore Agostino Agosti, presente oggi in questa sala d’udienza, poiché intenzionato a richiedergli l’autorizzazione amministrativa per l’apertura dell’Ipermercato denominato ‘Alla buona patatina fritta’?
«Ma veramente…»
«Signor Pozzolatico…» incalzò ancora quella digrignando i denti e frugando nello sguardo ceruleo e spaurito del suo interlocutore «è vero o non è vero che nella medesima data di cui sopra, lei recava con sé un contenitore a forma di valigetta con 300 milioni in contanti occultati all’interno, che intendeva consegnare, come acconto di una maxitangente, al predetto Assessore, giusta la richiesta esplicita inoltratale da quest’ultimo alcune settimane addietro l’abboccamento di cui è causa…???»
«Ma io…»
«Signor Presidente!!!» sbottò Albadea puntandosi sul banco con le bracciotte grassocce e cellulitiche «il teste appare evasivo e reticente… ne suggerirei l’arresto immediato (e una frustatina leggera leggera)…»
«Ha sentito signor Pozzolatico?» domandò grave il Trillozzo cercando invano di cambiare la cartuccia alla stilografica «io l’ammonisco dal dire la Verità, tutta la Verità, tutt’altro che la Verità… volevo dire nient’altro che la Verità» commettendo in tal modo un altro errore che nessuno avrebbe creduto per Lui possibile.
«Ma veramente…» farfugliò il vecchietto che tentava di nascondere la testa dentro le spalle cifotiche «io passavo nel corridoio per farmi fare un un certificato dall’Ufficio Copie quando quella signorina, tanto dolce e gentile, mi ha detto di entrare qui… spingendomici persino… e… io sa… non ho saputo dirle di no… è… è… Lei che rilascia i certificati signor dottore? Sa mi servirebbero per la pensione e…»
«COSAAA?!?» urlò Anaspasio balzando in piedi e incespicando nella toga rimastaGli sotto la scarpa «quando avrete finito di giocare e sarete davvero pronti per questo maledetto processo fatemelo sapere!…»
«MERDA!» esclamò il Serpi-Colonna irritato dalla scena isterica; quindi, cercando di darsi un tono, sperando che nessuno l’avesse sentito, si corresse: «volevo dire, OPPERBACCO!»
Lasciando i presenti esterrefatti per tale scomposta reazione in pieno contrasto con il Suo proverbiale senso della misura, tallonato dai giudici a latere che Lo seguivano come trascinati dall’impalpabile filo cui prima si faceva cenno, il Presidente s’introdusse, con gran pestar di scarpe, nell’adiacente Camera di Consiglio dove l’aspettava il secondo tramezzino marmellata di albicocche e acciughe (il Suo preferito).
Un brusio sottile, ma insistente, situazione straordinaria per le ordinatissime udienze del Sommo più simili a funzioni religiose che non a giudizi dibattimentali, rimase ad aleggiare nell’aula nel disorientamento generale.
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–> Una pettorina per la vita –> capitolo secondo

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