Sassi nell’acqua

 In un tardo pomeriggio, fin troppo caldo per essere l’iniziale scorcio di una primavera incipiente, non lontano dal Ponte Ovale, ove il Sommo stava meditando di raggiungere i Suoi Avi, Nunzio e Pinolo si trovavano a chiacchierare seduti sulle rive del placido fiume Bu.
«Quando pensi che potremo tornare alle nostre ordinarie occupazioni, Pinolo?»
«Non lo so, Nunzio, non lo so davvero! La situazione mi pare molto confusa e non so darmi alcuna giustificazione plausibile per quanto è accaduto… ti rendi conto? Per un pelo non ci arrestavano… ma cosa volevano da noi i Carabinieri…? E quella strana vecchietta, chi era mai?»
«Ritieni che tutto ciò sia dovuto a quei giochini che abbiamo fatto di recente con le bare…? Magari qualcuno si è lamentato e noi non lo sappiamo…»
«Forse…»
«Mi mancano tanto quelle croci bianche, quella beata tranquillità… quella calma appagante…» sospirò Nunzio afflitto con la faccia più contrita del solito.
«Pensa a me! Chissà per quanto tempo non potrò più dedicarmi allo Scarafobos. I campionati internazionali di Brisbane si terranno fra meno di un mese e mezzo e io sono indietro con gli allenamenti…»
Il tramonto stava sbizzarrendosi per l’occasione in uno dei suo exploit cromatici migliori, sciorinando, un po’ ovunque, sfumature tenui color pastello che spaziavano dal verde vivace al rosa screziato, creando, qua e là, originali e inaspettati mélanges di rara suggestione (le foglie di un frassino divenute un po’ troppo viola e una lumachina troppo blu devono, però, considerarsi il risultato di un eccesso di eccentricità e di entusiasmo).
Poco distante, un ramo di salice piangente schiaffeggiava con delicatezza la cresta delle onde determinando piacevoli gorgoglii sommessi. Le onde, che non gradivano, né gli schiaffi, né i gorgoglii sommessi interpretati come fastidiosi disturbi intestinali del salice, se la presero, a loro volta, con una lattina vuota di pomodori pelati che, prigioniera di un mulinello sornione, veniva ripetutamente sbatacchiata contro un masso affiorante. La lattina, andando in su e in giù nello sbatacchiamento panroccioso, finì con il picchiare con imbarazzante insistenza la testa di una trota fario che, per tutta risposta, non sapendo di preciso con chi prendersela, si mise a polemizzare con il salice piangente.
Nell’armonia di una natura tanto romantica, nel riverbero tiepido d’un sole che non aveva nessuna voglia di oltrepassare la linea dell’orizzonte, anche la fiabesca Polpot, parcheggiata qualche metro più in su, se ne stava a guardare, incantata, il panorama. Vinta dall’irrefrenabile malinconia (del resto, così tipica di questa sensibile vettura), non resistette alla tentazione di sistemare sul piatto del giradischi (quello anteriore) uno struggente e viscerale slow anni Sessanta, che si diffuse soave nella campagna circostante. Soltanto un grillo dalle antenne rosse, desiderando, al contrario, riposare, manifestò uno scarso gradimento per l’esordio musicale assestando energiche pedate ad un pneumatico. Ma la Polpot, rapita dalla melodia spappolacuori, non se ne accorse (o fece finta di accorgersene).
Ogni cosa, d’altronde, se non fosse stato per la sparizione della pettorina, sembrava aver recuperato finalmente la propria esatta collocazione in seno all’Armonia universale: il tramonto iridescente, la serata che si prospettava dolce, la musica straziante. Anche i due amici, in fondo, erano felici, in apprensione forse per il loro incerto avvenire, ma non di meno profondamente appagati per lo scoprirsi ancora uniti anche nella disavventura. Accovacciati sull’arena minuta e chiara, con il volto verso la corrente, entrambi gettavano, in un infinito parlocchiare, ciottoli nel fiume.
Solo che Nunzio scagliava sempre il medesimo sasso, che, toccato il pelo dell’acqua, se ne schizzava a ritroso direttamente nel suo pugno.
«Mi sono sovente domandato come tu riesca a far di queste cose» gli chiese Pinolo sorridendo.
«Non me lo spiego neanch’io, Pinolo. Sin da piccolo mi sono accaduti episodi strani come questo. Mi viene in mente, per esempio, quando aprivo il rubinetto del lavandino del bagno: l’acqua fuoriusciva impetuosa e, dopo aver eseguito una curva a gomito, finiva al di sopra della mia testa. Il guaio era che non riuscivo a spiegarlo a mia madre che mi menava di santa ragione perché, secondo lei, mi ostinavo a bagnare il soffitto.»
«…»
«Ricordo pure quando rinunciai a portare a spasso il mio cane: arrivati sul marciapiede, non so per quale motivo, quello cominciava a sollevarsi in aria, pareva un palloncino. Come guaiva, una pena!»
«Uhm, una faccenda proprio curiosa…» disse Pinolo blandendosi la peluria rada del mento.
«Per non parlare delle mie scarpe!!!»
«Cos’hanno di speciale le tue scarpe?» seguitò Pinolo divertito.
«C’è poco da ridere sai!» sbuffò contrariato «non ne hai idea! Se ne stanno zitte per settimane, poi, di punto in bianco, appena le calzo, si mettono a litigare tra loro come forsennate. Per lo più bisbigliano, spettegolano, confabulano quindi, all’improvviso, bisticciano come due comari e per delle sciocchezze poi! Oltre agli insulti si tirano anche i calci, l’un l’altra, scambiandosi ogni sorta di dispetto. Un pomeriggio, mentre stavo camminando, figurati, la scarpa sinistra voleva andare a destra e quella destra a sinistra e così sono finito contro un albero!!!»
Pinolo, coprendosi la bocca con una mano, stava facendo grossi sforzi per non sghignazzare.
«Invece non è per nulla divertente…» proseguì Nunzio indispettito.
«Sì perdonami Nunzio… non volevo… è così buffo sentirti raccontare questi episodi…» e ricominciò a tirare sassi nell’acqua.
La leggera risacca del fiume dondolava ai loro piedi il coperchio arrugginito di un vasetto di marmellata di mirtilli rossi del Vermont su cui era atterrata, cappottando, una libellula inesperta; il salice, sempre più privo di contorni definiti, si confuse invece, piano piano, con il fondo scuro del Monte Cangiante. La fiabesca Polpot, dal suo canto, raggiunta dalle prime avvisaglie delle tenebre incombenti, aumentò la brillantezza del giallo della sua carrozzeria.
L’amico, accortosi del disappunto di Nunzio, preferì così cambiare argomento:
«Ascolta, a proposito di tua madre… non mi hai mai raccontato nulla di lei… e neanche di tuo padre…» domandò grattandosi una tempia (che trattandosi di una testa a pinolo, era situata assai in alto).
Nunzio, attraversato da un fremito nervoso, alzò il capo per nascondere lo sguardo tra i canneti della sponda opposta che, nel chiarore debole della luna, immaginava disordinata e piena di immondizia.
«Non ne parlo volentieri…»
«Scusa… non era mia intenzione turbarti…»
La lattina di pomodori pelati, approfittando di un attimo di disattenzione della roccia, ormai libera dalla morsa acquosa, fischiettando la nota ballata country ‘Brigidina per sempre ti amerò…’ riguadagnò, tranquilla, la direzione del mare.
«Non ti crucciare, magari, invece, mi fa bene… cosa vuoi sapere? Di mia madre…? Sì… sì… mia madre… si chiamava Immacolata Crocifissa Annunziata Dina… una bellissima donna, capelli scuri, occhi scuri, carnagione scura…»
«… mulatta?»
«… no piuttosto abbronzata… faceva la contadina, sedici ore nei campi, tutti i santi giorni, qualunque tempo facesse… in qualunque stagione dell’anno, senza mai fermarsi, senza mai fiatare o lamentarsi, che donna… che donna… puro granito, poi il giorno di Natale di qualche anno fa, ahimè è… è… mancata.»
«Oh… mi spiace, mi spiace davvero… presumo che si sia stremata di fatica allora…»
«Per nulla! Stava preparando il minestrone (allora mangiavamo, in verità, unicamente minestrone di verdure, a pranzo e a cena, a cena e a pranzo, persino a colazione spalmato freddo sul pane) allorquando fu vittima di un attacco acuto di allergia da fieno cui, poverina, era soggetta. Il dì fatale starnutì e starnutì una, dieci, cento volte, fino a che, per uno starnuto più violento degli altri, infilò il viso nel tegame del minestrone e… e… morì affogata. Noi eravamo nei campi e non ci siamo accorti di nulla.»
«E’ terribile!» fece Pinolo posando un avambraccio sulla spalla di Nunzio che aveva assunto un’espressione tristissima.
«Sì, fu terribile… quella sera rimanemmo senza cena… il minestrone era diventato immangiabile!»
Il rumore dell’acqua introversa ed annoiata del fiume Bu riprese per un istante il sopravvento, il che coprì l’urlo di gioia lanciato dal barattolo di marmellata di mirtilli rossi del Vermont che aveva ritrovato il coperchio (urlo che soverchiò, a sua volta, quello di panico della libellula che, non riuscendo a riprendere il volo, si vedeva ormai in balia della corrente).
«… e Dina cos’è… forse il diminutivo di Fernandina, Edmondina…»
«No, di Lampadina… il nonno non ci sperava più di avere dei figli, cosicché, allorquando ebbe mamma, disse che lei era e sarebbe sempre stata la luce delle sue pupille, la sua lampadina appunto…»
«… ah capisco… e lo è stata?»
«… in un certo senso sì… mia mamma, era già grandicella quando una notte… per fare uno scherzo al nonnino bello, ha infilato il cavo scoperto della lampada del comodino nel bicchiere d’acqua dove lui aveva messo a mollo la dentiera…»
«… e cosa successe poi???»
«… successe che al mattino, infilandoci le dita, il caro vecchietto restò fulminato!»
«… non ci posso credere!»
«… non ci poté credere neppure l’elettricista che ci impiegò tre giorni per ripristinare l’impianto di illuminazione…»
«… e rimanesti da solo con tua nonna…»
«Sì maledettamente solo… con la povera nonnina… ma per poco, per mia disgrazia: morì ben presto pure lei.»
«NOOO! E’ una tragedia senza fine questa!» esclamò sconvolto Pinolo.
«… la mia vecchierella… eh sì… morì nel suo giaciglio…»
«… ah be’ di vecchiaia allora!»
«Purtroppo no. Devi sapere che nonna aveva il terrore che, durante il sonno, il letto si potesse ribaltare schiacciandola. Quand’era piccola aveva subìto, infatti, il trauma di cadere dalla culla, che, urtata dal gattone di mamma, si era rovesciata con lei dentro. Sventurata donnina! Passava delle nottate d’inferno! Spesso la udivo strillare in modo agghiacciante. Più trascorrevano gli anni e peggio stava e più spaventosi erano i suoi incubi. Così una mattina l’ho sorpresa stesa a ics, i denti serrati in una smorfia di dolore, con i piedi e le mani aggrappate alle lenzuola e le unghie di tutte e ventidue le dita (sì ne aveva due in più) conficcate nei materassi; era rigida e stecchita, morta di paura, probabilmente per un incubo più intenso degli altri. Non c’è stato verso di schiodarla da lì… ho dovuto farla seppellire con tutto il letto, baldacchino incluso.»
«E’… è… tremendo!!!»
«Hai proprio ragione era un mobile antico… un cimelio di famiglia!»
Nunzio tacque… era rimasto sopraffatto dai fantasmi del proprio infelice passato. Poi, inspirando a pieni polmoni, continuò:
«… e allora ho pensato di partire per non sentirmi in balia delle mie disavventure… ho fatto su le mie modeste cose… e ho chiuso per sempre, dietro di me, la porta…»
«… beh… per sempre… ogni qual volta vorrai, potrai pur sempre far rientro alla tua casa natale e…»
«… fosse vero!» disse Nunzio cercando vanamente di mordicchiarsi le labbra «tu non ci crederai, ma appena ho accostato la porta, la cascina è letteralmente crollata su se stessa, tale e quale un soufflé andato a male: sembrava che una mano gigantesca l’avesse spiaccicata con rabbia al suolo… »
Pinolo se ne ristette a corto di parole.
«… il mio papà, invece, non l’ho conosciuto…»
«… ma non è tedesco? Per via del tuo cognome voglio dire…»
«Biedermeier? No Friedrich Heinz Biedermeier, era un lontano zio, tedesco appunto, ma pur tuttavia solamente uno zio che, per salvare l’onore della mia famiglia decise di adottarmi, affinché io avessi un cognome onorato e rispettabile. Mia madre, infatti, era nubile all’epoca in cui ebbe me e non volle rivelare mai a nessuno chi fosse il mio vero padre.»
Pinolo si riammutolì.
«Alcuni mesi dopo il nobile gesto, lo zio Friedrich nel corso di un viaggio di affari in Africa, addormentatosi all’ombra di un baobab, è stato lapidato a morte a colpi di banana da uno branco di scimmie catarrine che si erano spaventate per il suo russare. Una triste storia…»
«E’ incredibile!»
«Pare che questo sia stato pure il commento delle scimmie catarrine… non si può russare in quel modo, neppure in piena savana…»
Un silenzio pesante calò tra i ragazzi.
Pinolo si sentiva affranto e scombussolato per il fatto che tanta sfortuna potesse essersi abbattuta su di una persona così delicata e fragile come il suo amico.
La Polpot, per osservare il decoro e la dignità di quel momento madido di vibranti emozioni, staccò il giradischi con buona pace del grillo dalle antenne rosse che, giusta l’ora tarda, poté, finalmente, andare a dormire.
Ma la quiete durò pochissimo giacché, in lontananza, proveniente dalla Foresta Cupa, l’Anima vagante e irrequieta di J. K. Günther (un centravanti della nazionale austriaca ucciso da ignoti tifosi con ottantacinque colpi di ascia ad un piede per aver sbagliato un rigore determinante nella finale della Coppa internazionale del 1919) si mise, zoppicando, a suonare, con commovente bravura, il violino.
«Se almeno avessi un indizio del mio papà… un segno, una traccia che mi mettesse sulla buona strada…» mormorò fra sé e sé il bambino con i lucciconi agli angoli degli occhi.
In quel preciso istante un corpulento gabbiano reale, dopo essersi fatto ninnare a lungo dalla leggera brezza serotina, planò sulla spalla destra di Nunzio che non sembrò, però, farci molto caso. Pinolo, al contrario, spostandosi preoccupato a quella vista, non nascondendo una certa inquietudine, si interrogò su dove avesse già visto un simile binomio uomo-uccello.
Poi gli sguardi di tutti (compreso quello del gabbiano) si posarono di nuovo sul filo della corrente pigra che, sotto i raggi d’una luna insonne, mandava intermittenti bagliori di perla.
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