Dura l’ex sed l’ex

Sorretta da quattro Avvocati lucidati a lutto, una pesante corona a forma di codice, su cui spiccava la frase scritta in rose scarlatte:

DURA L’EX, SED L’EX

fu depositata sulla scrivania che già era stata di Primo Fante.
Ma non era l’unica.
Molte altre facevano bella mostra di sé ammonticchiate sulla poltrona e alle pareti della stanza. Vi era quella dei colleghi della Procura della Repubblica, impreziosita di splendide strelitzie arancioni e gialle su cui capeggiava l’amorevole epitaffio:

ERA ORA!

o quella intrecciata di lauroceraso (velenoso) incastonato in una corbeille di meravigliosi fiori di oleandro (velenosi), donata dalla Cancelleria penale, ove poteva leggersi il commovente pensiero:

NON ERA GRANCHE’, MA TANT’E’…

L’Avvocato Oronzo Passiflora aveva appena fatto in tempo a cavare dalla capace tasca dei pantaloni uno dei suoi pittoreschi fazzoletti-tovaglia a scacchi bianchi e rossi (gesto che, insieme alla traslazione della corona, non lo aveva tuttavia consigliato di mollare l’extracomunitario che portava appeso al braccio come un asciugamano), che l’allergia al polline gli saturò il naso facendogli scaricare, sotto il cipiglio severo ed ammonitorio del Presidente dell’Ordine Reginaldo Maria Serpi-Colonna, un vigoroso starnuto in grado di decapitare, in un colpo solo, i lillium e i nasturzi della principesca ghirlanda.
Il Serpi-Colonna, senza che una minima piega in volto tradisse quanto andava rimuginando, estrasse dalla onnipresente toga, il noto quaderno nero a righe grosse della Vª elementare, vergando in bella grafia:
«P-a-n-z-a-r-o-s-a, c-i-n-q-u-e n-o-t-e d-i d-e-m-e-r-i-t-o.»
«Non si potrebbe sorvolare per questa volta?» scongiurò il Passiflora abbottonandosi/sbottonandosi nervoso il panciotto «in fondo non è tutta colpa mia!»
«Il Consiglio dell’Ordine deve sapere…» grufolò quello chiudendo gli occhi e corrugando la fronte bombata «e poi, per favore, giuste le tristi circostanze, non poteva lasciare in ufficio quel povero tunisino!»
«Non è un tunisino» notò rispettosamente il professionista «bensì un algerino.»
«Insomma quello che è!!!» sbuffò il Principe facendo la mossa di ritirar fuori il libretto nero.
Si udì un tonfo.
L’extracomunitario, crollato a terra come un fico troppo maturo, rotolò su se stesso sino a piombare sulle galosce extralucide del Serpi-Colonna, su cui sparò un rigurgito ancora tiepido di riso al curry.
«MERDA!» si sfogò quello; poi, correggendosi e raschiandosi l’ugola per l’imbarazzo, «volevo dire, POFFARBACCO!»
Anche Trito Acàntore, riammesso eccezionalmente al cospetto del Foro, dopo la penosa figuraccia con la Melapà del giorno antecedente, sfoggiando una faccia larga da forma di grana padano e la labbra imbrattate di pizza alla mortadella e rucola, ansimava vistosamente per l’impegnativo trasporto, decisamente eccessivo per la sua mole a mappamondo. Lo stato di prostrazione non gli impedì, però, di lanciare occhiate di viva apprensione sia al de’ Macci che, al centro della stanza, stava facendo dello stretching allungandosi sulla libreria del caro estinto, sia alla medesima Melapà che, a distanza di sicurezza dall’Avvocato-esibizionista, si era posta alle spalle del PM (di cui, non vista, tastava i bicipiti e non solo quelli).
Dall’altro lato dell’ufficio, sotto un’impenetrabile campana di velluto nero che la faceva assomigliare ad un involtino bruciacchiato, la dr. Albadea Bambi piangeva e si disperava, si disperava e piangeva stillando dappertutto lacrime bistrate di viola pallido. Attraverso la plumbea coltre (anche di palpabile cordoglio), per ringraziare i partecipanti che attestavano, con la loro presenza, l’affezione per il suo diletto immaturamente scomparso, sospingeva una mano salsicciosa e umidiccia che un po’ tutti provavano schifo a stringere sembrando il fapipì gocciolante di un cane san bernardo.
C’era altresì Enea Frangi che, chiedendo scusa per la propria partecipazione a quell’occorrenza così funesta, aveva cominciato a controllare se, caso mai, ci fosse qualcuno di sospetto sotto ai quadri e dietro alle porte.
L’Orlando Raucubba, ormai prossimo al ringiovanimento definitivo, stava, invece, trastullandosi con un palloncino che si era legato al polso per meglio mangiare lo zucchero filato.
Era intervenuta pure la Matilde Spazzamare che, per onorare la luttuosità della circostanza, aveva lasciato a casa qualunque gioiello potesse in qualche modo tintinnare o trillare, ripiegando così soltanto su di un semplice diadema tempestato di diamanti, topazi e rubini dal peso complessivo di chili cinque.
Ognuno aveva sopportato (chi più, chi meno) Primo Fante in vita. Ora tutti lo amavano.
La stanza era tale e quale lui l’aveva lasciata: alle pareti, centinaia di piccoli e grandi quadretti di ogni possibile foggia e colore incorniciavano la sua persona con il sigaro in bocca; c’era inoltre un’incredibile gigantografia che lo raffigurava con la gallina Padovina accovacciata sulla testa ed una foto ove il de cuius sorrideva con in pugno un portaritratti incorniciante la sua stessa fotografia che incorniciava, a sua volta, un portaritratti incorniciante una sua fotografia che…
Ancora lo aspettava, ahimè ignaro della tragica fine, il suo pittoresco zoo: il cobra Giambologna, la tartarughina Uga, i deliziosi coniglietti Trippola e Gianlattuga, le ovaiole Ludovica e Beccagatti (per la comprovata carenza di feeling con i felini) oltre alla sunnominata Padovina; tutti liberamente razzolanti.
All’appello mancava la sola pecora Clementina che, stroncata dall’insostenibile dolore, aveva trovato ultimo conforto nel divorare a morte le annuali scorte di sigari dell’adorato padroncino.
«Qualcuno dovrà pur accudire queste dolci bestiole…» modulò il de’ Macci d’un tratto ricolmo di tenerezza per quella scenetta bucolica «non possiamo consentire che muoiano d’inedia!»
Non aveva finito di pronunciare questa frase che la tartarughina, librandosi nell’aria con un poderoso salto di circa un metro di altezza al di sopra dell’ampolla, afferrò al volo un’incauta zanzara di passaggio, deglutendola prima ancora di essere ricaduta nell’acqua.
«Sì, forse hanno fame!» esclamò qualcuno (probabilmente il Trito, che ben comprendeva il problema).
Gli astanti annuirono solidali.
«D’accordo signori…» esordì gaio l’Acàntore cercando di infilare la porta un po’ troppo precipitosamente «mi ha fatto davvero molto piacere la vostra compagnia… arrivederci, grazie a tutti… mi rincresce per il morto… e buonanotte!»
I presenti rimasero interdetti. Erano le undici di mattina.
«ALTOLA’!» dardeggiò stentoreo il Maresciallo Cassiodoro che, sbucato da dietro una lampada alogena, sbarrò la strada al professionista standosene a gambe divaricate con le mani sui fianchi «… sono in grado di poter affermare, con rigorosa certezza, suscettibile non di meno di ulteriore verifica, che lei, in questo preciso momento, occulterebbe un corpo estraneo, non meglio identificato, sotto la di lei giacca, un oggetto cioè di cui non può vantare alcuna legittima proprietà e/o possesso, se mi consente…»
«Maccheddice Maresciallo, trattasi di un voluminoso incarto processuale che ho portato con me dallo studio…»
In quel medesimo istante, il musetto rosa di un coniglio primuleggiò da un risvolto del Principe di Galles unto di coda alla vaccinara del Trito al che questi, colto in piena flagranza di reato, arrossito e confuso, balbettò:
«…ci-cioè… stavo pe-pensando che… con il rosmarino e le pa-patate novelle…»
«Posi subito il maltolto, Avvocato!» minacciò fiero Cassiodoro la cui destra guantata aveva slacciato la fondina «non faccia sì che gli eventi si evolvano nei di lei confronti verso un epilogo che oserei definire alquanto spiacevole, sebbene in ottemperanza alla normativa vigente in questo Paese (come da informative assunte)…»
«Certamente, certamente…» rispose quello sempre più disorientato, sfilando l’animale per le orecchie e posandolo sul pavimento… «… e se lo scambiassi con un pollo?!? Con uno di questi piccoli, insignificanti spennacchiati pollastri? Sono, tutto sommato, in stato di avanzato abbandono e io potrei restituirli, come dire, alla loro fondamentale funzione (quella alimentare) e…» poi, visto lo sguardo di disapprovazione generale, borbottò: «certamente, niente pollo, assolutamente niente pollo!» e scappò via sforforeggiando.
«OK!» proluse Morozzo assumendo un tono da predicatore protestante e schiarendosi alcune volte la voce per richiamare su di sé l’attenzione di tutti «in qualità di Magistrato decano, mi corre l’obbligo di pronunciare una breve commemorazione in ricordo di Primo Fante» e, accertatosi, sottecchi, che nessuno avesse mutato la propria posizione di ascolto, reclinando un poco il capo sulla sinistra, congiunse le mani sul grembo a mo’ di preghiera «a voi qui riuniti, vorrei dire… che il nostro caro Primo Fante… l’Amico, il Collega, l’Uomo… il Fessacchiotto» un’atmosfera mistica e intima aleggiò sugli astanti che, per contagiosa emulazione, reclinarono lievemente la testa da un lato intrecciando le dita sulla pancia «vorrei dire… che il dr. Fante era… era… che lui era… che era…» e quindi, non riuscendogli di inventare nulla di positivo, disse d’un fiato «… assegnatario di una confortevole stanza e presumo che mi trasferirò qua.»
«EH NO! MI SPIACE PROPRIO!!!» esordì impetuosa la Melapà, che aveva rinunciato al suo nascondiglio (a malincuore non potendo continuare il palpeggiamento) «ho già dato disposizione ai Piani Alti che questo ufficio sia da ritenersi MIO, indiscutibilmente MIO, e ad ogni effetto di legge: dove sono adesso non ho spazio sufficiente per allestire il nuovo plastico della famosa battaglia del Lago di Curno testé arrivatomi!»
«Credo che, invece, in tale sito, troverebbe adeguata sistemazione la locale stazione di Polizia Giudiziaria di cui ho l’onore di appartenere… se mi si consente…» reclamò il Milite stirandosi sulle dita i guanti immacolati da parata.
«Ma quale onore e onore, mi faccia la cortesia…» sbottò l’Avvocato Reginaldo Maria Serpi-Colonna scuotendo la vasta e ondulata capigliatura eburnea «… ma se voi Carabinieri non sapete distinguere un cannolo da un siluro! Potrà, al contrario, trovare qui convenientemente dimora la saletta riunioni degli Avvocati, la degna e meritoria Sede del Consiglio dell’Ordine, questo sì l’unico e vero vanto del Tribunale di Lamarmora…» e, così declamando, non resistette all’impeto di montare sopra la panca per gli addominali del Morozzo.
«Non le permetto Avvocato…» ribatté il Milite prendendolo di mira con l’indice inguainato… «io ho avuto cinque conflitti a fuoco, la medaglia alla memoria e una telefonata di congratulazioni del Presidente della Repubblica…»
«E CHISSENEFREGA?» proruppe digrignando i denti la dottoressa Albadea Bambi, sbarazzatasi della calotta nerovellutata e del trasudante fapipì «é inutile che sbraitiate!!! Primo Fante l’aveva promessa a me la stanza, soprammobili compresi (ma le bestie ve le potete pure tenere). La povera Anima mia mi sussurrava sovente che lo scorcio sul viale alberato si sarebbe intonato stupendamente al colore dei miei capelli.»
«Siamo seri… perché quelli li chiama capelli?!?» rintuzzò l’Avvocato Passiflora gesticolando nevrotico e brandendo l’algerino come se volesse tirarlo.
«Come si permette?!? Brutto mercenario venduto agli arabi!» querulò isterica la PM digrignando anche le vertebre cervicali.
Ne seguì, per un quarto d’ora buono, un fragoroso pandemonio, durante il quale, volarono in aria frasi da bassa osteria, lillium capitozzati, oltre a quadri, conigli e pollame vario.
Enea Frangi, che più non reggeva la tensione emotiva, svenne esattamente addosso alla Spazzamare, il cui diadema volò nel bel mezzo del guano del pollaio.
Al culmine della canea, all’improvviso, si spalancò la porta.
Era Lui!
Con passo flemmatico e felpato, fece trionfale e superbo ingresso, proprio in quell’ufficio, il dr. Anaspasio Trillozzo.
Sì, il Sommo.
Raggiunto, durante il Suo forzato soggiorno alla prima arcata del Ponte Ovale (il più caratteristico fra i ponti sul fiume Bu) dalla mestissima notizia della dipartita di Primo Fante, benché minato nel fisico e nell’animo per le traversie delle pregresse settimane, si era sentito in dovere di rendere omaggio al collega e amico scomparso, risolto più che mai a scacciare dalla Sua Mente qualunque risentimento nutrito nei riguardi di quello e che avrebbe dovuto reputarsi indegno della proverbiale magnanimità dell’elevato Suo Spirito.
Al Suo apparire sulla soglia, immediatamente calò sui presenti, come una calda coltre rincuorante, un deferente silenzio .
Dopo un impacciato tentennamento, il Serpi-Colonna, forte dell’usurpato ascendente sugli altri professionisti, anche per via delle sullodate candide ciocche, Gli andò incontro dando fiato ad un sottomesso:
«Presidente!… Lei… tra noi…!?!»
La maggior parte delle persone si genuflesse (tranne la Spazzamare che, a carponi nel recinto delle avicole, stava rovistando negli strati densi di cacca di gallina alla ricerca del diadema). Altri Gli corsero incontro baciandoGli le mani (assai più richieste furono però le estremità inferiori).
Anaspasio, con ampio gesto ieratico e benedicente, di chi rimette gli altrui peccati, alzò chi si era prostrato al pavimento e quindi, dopo una lenta e studiata panoramica ai muri ed ai miseri oggetti che arredavano la stanza, con voce ferma, perché da ciascuno fosse ben udita, scandì le seguenti parole:
«Quest’ufficio rimarrà chiuso e sigillato ad æternum, in rimembranza del collega deceduto…»
«Inconfutabilmente» asseverarono gli Avvocati.
«Ineluttabilmente» sbracarono i colleghi.
«Ovviamente, se mi consente…» rassicurò il Maresciallo Cassiodoro scattando sull’attenti e battendo i tacchi, imitato in ciò dalle galline e dalla tartaruga (mentre i conigli si limitarono a drizzare le orecchie).
«Ottimo!» continuò l’Illuminato arricciando l’aristocratico naso «… naturalmente le orrende bestiacce dovranno sloggiare…»
«… senza ombra di un qualsivoglia ragionevole dubbio!» rafforzò Reginaldo Serpi-Colonna che, vincendo l’ingombrante pinguedine, era riuscito finalmente a genuflettersi in tanto che gli altri si erano ormai rialzati.
«Saranno passati per le armi» dichiarò il Sottufficiale estraendo la pistola e inserendo il colpo in canna.
Poi Anaspasio si chiuse per qualche minuto in un dignitoso raccoglimento.
Fu un attimo memorabile.
I pochi fortunati, muti testimoni di quel magico frangente, poterono serbare in perpetuo, nel profondo del cuore, l’immagine radiosa di Lui che, a occhi socchiusi, con appena due dita appoggiate delicatamente alle tempie e con l’altra mano posata sul tavolo di Primo Fante, era sprofondato in inaccessibili (ed eccelsi) pensieri.
Quindi il Sommo, ritornato alle cose terrene e mortali, fu fatto sedere sulla poltrona che già era stata di Scorreggina ma, ovviamente, solo dopo che la corona codiciforme, e via via anche le altre, furono in gran fretta gettate o contro il muro o in mezzo alla stanza, sgangherandosi e disfacendosi in una nuvola di petali e di foglie. Il Passiflora, per non starnutire una seconda volta, mise la testa nell’ampolla della tartaruga mettendo seriamente a repentaglio la vita della bestiola che non sapeva da che parte sfuggire a quella mostruosa apparizione.
Anaspasio, usando Enea Frangi a mo’ di poggiapiedi, fornite brevi e convincenti rassicurazioni circa le proprie condizioni di salute a coloro che, acciambellatisi sulle sue scarpe, erano riusciti a trovare posto vicino a Lui, avuta una parola buona per ciascuno di loro , accondiscese in maniera amabile (a Lui del resto adusa) a raccontare vari aneddoti sulla Storia della Sua Vita, cosa che non mancò di accrescere, in modo considerevole, la Sua Leggenda.
C’è chi prese appunti e chi non visto, qualche filo del Suo pullover.
I favoriti dalla sorte riuscirono addirittura a toccarLo.
Una giornata epica e, per tanti versi, indimenticabile.
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