Una musica divina

Pioveva forte. In alcuni momenti scrosciava così rapidamente che, pur all’interno della mia macchina, avevo la precisa sensazione di affogare. Il tergicristallo mi gridava di non poterne più, ma i miei pensieri erano altrove.
Appena dopo il confine, una frana si era portata via mezza collina. Un uomo con una mantella gialla che gli copriva tutto il corpo lasciando scoperto solo l’ovale di un viso fradicio, era sbucato dal muro d’acqua come un sopravvissuto: mi fece un segno confuso di quale fosse strada che dovevo prendere. Ubbidii rassegnato. Mi inoltrai con poca fiducia fino a quando la strada, diventata ancora più stretta, si incuneò in una gola a perdersi nel buio. L’acqua continuava a scendere impietosamente e le falde spioventi dei monti sembravano volersi spingere in avanti a volermi toccare. Il cartello dell’autostrada, nonostante i chilometri percorsi, era introvabile; a sera, sotto un cielo rancoroso e vendicativo, mi arresi. La locanda che intravidi sulla mia sinistra, sembrava la risposta alla mia stanchezza, e mi fermai.
La signora che mi aprì la porta fu molto cordiale. Anche se ciò che subito mi colpì di lei fu un’intima tristezza. Traspariva non dalla voce o dal portamento, ma dallo sguardo spento.
Dopo cena, nell’ampia sala della colazione (perché scoprii solo successivamente che la locanda era ricavata al primo piano di un palazzo antico) donna Matilde, così si faceva chiamare la signora, mi raccontò di essere rimasta vedova tempo addietro del famoso concertista Markus Akai Novich, spentosi qualche anno prima dopo una lunga malattia. Sapevo dai giornali che il Maestro si era ritirato misteriosamente al culmine della sua carriera, ma le vere motivazioni non si erano mai sapute.
«Ebbe un incidente terribile» mi disse a un certo punto donna Matilde come se rispondesse a una precisa domanda del suo cherry che mandava bagliori di luce nel bicchiere.
Non sapevo se incoraggiare o meno quella discussione, rendendomi conto che l’argomento era delicato e doloroso per quella donna. Decisi di non muovermi e non dire nulla, anche perché sembrava che lei parlasse più con se stessa che con me. Nel frattempo, il frastuono della tempesta riempì gli spazi increspati di silenzio e i lampi colsero le querce in giardino nello sforzo di inchinarsi verso l’erba lucida di pioggia quasi volessero sradicarsi per correre al riparo. Chiusi istintivamente gli occhi e la claustrofobia della giornata mi si rovesciò nella mente.
«Tornando da Vienna da un fortunato concerto, mio marito pensò di prendere un po’ d’aria dal finestrino del compartimento. A volte soffriva di apnee per lo stress da lavoro. Succedeva così, all’improvviso: gli veniva a mancare l’aria; neanche i medicinali gli davano oramai più sollievo. Quella volta non c’era nessuno con lui, viaggiava solo: così ne approfittò per far scendere, come dicevo, il finestrino. Purtroppo, quello, fu anche il momento in cui, sul binario parallelo al suo, incrociò un altro treno che transitò velocissimo nel senso opposto. Quando fu passato, solo allora mio marito si accorse di non avere più entrambe le mani. Forse qualcuno, dall’altro treno, aveva gettato una bottiglietta o chissà cos’altro di tagliente. Sta di fatto che si ritrovò entrambe le mani amputate e un po’ per lo shock, un po’ perché senza mani non poteva tirare il segnale d’allarme, ci volle molto tempo per tornare sul posto della disgrazia… e non furono più ritrovate.»
A questa confessione mi sentii in profondo imbarazzo. Comprendevo che aveva fatto fatica a pronunciare quelle parole. Era come se, dopo tanti anni, avesse voluto liberarsi di un peso con il primo sconosciuto. Non sapevo che fare. Se consolarla, se cambiare discorso, se stare zitto.
Fuori, intanto, il vento scuoteva le finestre quasi volesse entrare nella casa a frugare come un ladro maldestro; sferzate di pioggia benedicevano i vetri come una estrema unzione.
Poi donna Matilde mi guardò: «Mi scusi, non volevo rattristarla, ma fu una disgrazia terribile. Ha segnato per sempre le nostre vite. Soprattutto quella di Markus. Da quel giorno, come può ben capire, non potendo più suonare, si è ammalato gravemente e dopo pochi mesi è morto. Abbiamo cercato di non far trapelare la notizia dell’incidente, per non farlo soffrire ulteriormente; ma è morto lo stesso, di crepacuore. La musica era tutto per lui.»
«Sì, capisco.» Fu l’unica cosa che seppi dire. Poi la donna si alzò e, dopo aver appoggiato sul tavolino il bicchiere, peraltro ancora mezzo pieno, mi chiese ancora scusa e, senza più guardarmi, mi diede la buonanotte.
Devo essere sincero: mi sentii sollevato quando se ne andò, anche se, a quel punto, non avevo più sonno. Cercai di convincermi che mi sarei dovuto sforzare di dormire perché l’indomani il viaggio sarebbe stato ancora lungo. Ma preferii accendermi una sigaretta, rimanere un po’ da solo e non pensare a nulla. E poi quella ‘Polacca’ di Chopin, in sottofondo, era un toccasana.
Musica? Mi domandai saltando sulla poltrona. Da dove viene la musica a quest’ora? Donna Matilde si è svegliata? Mi alzai. Il suono proveniva dal pianoforte nello studio. Mi avvicinai. Scostai la porta socchiusa. Sulla tastiera scorrevano veloci due mani mozze colando sangue sul tappeto.
«Senta, senta…» disse la signora che si era affacciata dalla sommità delle scale, gli occhi socchiusi in un’espressione estasiata. «Non è divina questa musica?»

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Il racconto creepypasta ‘Una musica divina’ è stato pubblicato, in via esclusiva, per la prima volta il 3 ottobre 2014 all’interno della rubrica “Quel Post In Cantina” sul blog:

–> L’uomo di Mezzanotte

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17 pensieri su “Una musica divina

  1. Cmq io taglierei la lingua alle persone cattive ed invidiose e spero che questa, come nel racconto, appaia per bruciarsi in ogni fuoco!

  2. Un commento lo posto anche qui: chi vive con la musica trova nella musica ogni risposta e lei trova il modo di venirne fuori, comunque!
    Ciao

  3. sì, orribile, certo, metaforicamente è destino di ogni arte staccarsi dal proprio autore, e dunque mai destino fu più compiuto, e poi, forse, ancora peggio sarebbe stato per un concertista come Markus perdere l’orecchie o l’orecchio no? eheheh

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