Non è poesia

Leggendo qua e là sui blog (ma anche sulla carta stampata, visto che oramai chiunque può pubblicare, a proprie spese, un libro) ci si imbatte spesso nella forma letteraria della poesia.

Le persone trovano più facile scrivere poesie piuttosto che cimentarsi in racconti o romanzi perché le poesie sono ritenute ‘immediate’ e hanno bisogno di poche righe per poter essere finite; inoltre si prestano alla licenza poetica e alla non concretezza, non hanno una trama con cui fare i conti, non hanno personaggi da far interagire tra loro e non c’è una coerenza stilistica da dover rispettare.

La poesia prescinde inoltre da un inizio e da una fine ed è ritenuta lo strumento più adatto (forse proprio perché ‘a schema libero’) per dar sfogo a una emozione o a un sentimento del tutto estemporanei. Ma ovviamente non è così.

È molto più difficile in realtà scrivere una poesia che un racconto anche solo di medie dimensioni; e questo per la complessità propria della struttura poetica, per la particolarità del mezzo espressivo adoperato e per la sottile insidiosità della materia trattata. I componimenti più sono brevi meno consentono errori, più hanno un respiro contenuto, maggiore è la difficoltà di scrivere qualcosa che non sia stato altrove letto mille altre volte e più si insiste sul profilo esistenziale e intimistico, più facile è scadere nel pacchiano.

Ma come si scrive, allora, una poesia? È una domanda cruciale, non c’è dubbio, cui è molto difficile dare una risposta esaustiva e richiederebbe un’esperienza in questo settore che sicuramente non ho. Io stesso ho scritto in passato pochissime poesie e ogni volta che le ho rilette, a distanza di anni, me ne sono sempre pentito per la delusione che mi suscitavano. So però, per certo, cosa non è poesia.

Innanzitutto non basta scrivere in versi. Una semplice frase di prosa non diventa poesia per il solo fatto che dopo cinque o sei parole si vada a capo o se, per avventura, si trova pure la rima. E questo è un fraintendimento banale molto più comune di quello che si potrebbe pensare. Se scrivo la luna splendeva sulle colline brulle la frase non diventa magicamente una lirica se dopo splendeva vado a capo.

Né è necessario stipare il verso di aggettivi qualificativi (la sterile lacrima cerulea…; le nivee onde spumose del mare…; risucchiami amare vertigini, profondimi albeggianti rapsodie…). Ogni sostantivo non deve per forza avere il proprio aggettivo o addirittura averne due per buona misura. La sovrabbondanza cromatica di un verso lo rende solo ridondante, smodato, stucchevole.

E non è neppure poesia l’uso ostentato di vocaboli inusuali o cervellotici. Il verso non diventa per forza idilliaco se si usano termini come irti, faville, stilla, silente, empio e tantissimi altri della stessa forza o se il blu diventa cobalto o il rosso cremisi o se si utilizzano altri termini ripescati dalle proprie reminiscenze scolastiche.

Non è neppure poesia il ricorso frequente a parole tronche (van per la campagna…; solean ridere e scherzar…;) o a forme verbali dell’Ottocento (lacrime di cristallo invocavan pietade;) abbondando poi di metafore o similitudini che starebbero meglio in un feuilleton o nel déhors di un bar.

La poesia in altre parole non è un esercizio di erudizione, né un’infarcitura di parole messe una vicina all’altra solo perché si ha l’impressione che ‘suonino’ bene e rispecchino più o meno quello che si vuol scrivere. Caricare troppo un verso (cospargiti della soluzione vivificante delle tue ali e vola verso l’infinito…) è come ottenere una faccia eccessivamente truccata o avere addosso tutte le parures che una donna può avere a disposizione; non si metterà in rilievo nessuna parte del viso che rischierà di diventare solo un ‘mascherone’ buono per il periodo di carnevale, mentre con tutti i gioielli disponibili si finirà con il somigliare a una madonna il giorno della processione.

La poesia deve essere leggera, deve poter contare su poche pennellate di chiaroscuro, facendo prevalere il ‘non detto’ piuttosto che l’esplicitato, l’eco emotivo di quello che si è scritto piuttosto che le parole usate nella loro crudezza semantica. Antonio Skàrmeta una volta scrisse che la poesia non è in chi la scrive, ma di chi la usa alludendo al profilo evocativo dei versi e alla loro capacità di perpetuare intimo godimento.

Si deve dunque intravedere il sentimento più che osservarlo sotto la lampada della tavola operatoria, si deve lasciar intendere le proprie percezioni piuttosto che metterle in posa per una fotografia impietosa e deve infine percepirsi l’emozione, piuttosto che la sua evidenza.

Il poeta vede cose che sono sì sotto gli occhi di tutti, ma di cui nessuno si accorge perché sa cogliere i fili invisibili che tengono insieme gli oggetti, le persone, le passioni; è in grado di allacciare immagini, sogni e sensazioni su un piano di lettura indiretta, mediata dalla sensibilità di chi scrive.

Il messaggio poetico è obliquo, filtrato da una superficie invisibile che lo distorce e parla direttamente a ciò che tu sei e che non sapevi di essere. Il linguaggio poetico è semplice, piano, ma non per questo meno potente e ha la capacità di rendere chiaro quello che non sembrava esserlo affatto ed è disarmante per la sua bellezza, nel suo lavoro di lenta e perdurante fascinazione.

Il cielo è una rete colma di pesci cupi. — scriveva Neruda — Qui vengono a finire i venti, tutti./ La pioggia si denuda./Passano fuggendo gli uccelli./ Il vento. Il vento./ Io posso lottare solamente contro la forza degli uomini./ Il temporale solleva in turbine foglie oscure/e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo.

Ecco, sì, questa è poesia.
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1 pensiero su “Non è poesia

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