Quel che la sentenza non dice

Quanto appena chiarito non deve tuttavia indurre l’appellante ad abdicare all’onere del vaglio critico della sentenza; non può in altre parole non considerare che il primo giudice ha l’obbligo di pronunciarsi sulle domande come formulate e nei limiti delle stesse.

La sentenza di primo grado va quindi censurata non solo per quello che viene argomentato dal giudice ma anche per quello che non è stato preso in considerazione perché oggetto di omissione.

Faccio un esempio: il primo giudice ha ritenuto che quello azionato da parte attrice sia un contratto di comodato gratuito e che parte comodataria sia tenuta a rilasciare l’immobile e a corrispondere quanto stabilito in contratto quale importo mensile stabilito inter partes a titolo di rimborso forfetario delle spese di gestione dell’immobile. Il giudice respinge per infondatezza la domanda riconvenzionale del convenuto che vuol far valere invece l’esistenza di un contratto dissimulato di locazione, eccependo la conseguente nullità per mancata registrazione (come contratto di locazione), che legittima la richiesta di restituzione di quanto pagato a titolo di canone in quanto l’importo forfetario previsto a titolo di spese dissimulava proprio un non dovuto canone locativo.

Questa decisione peraltro è presa ancorché, in sede di precisazione delle conclusioni, il comodatario ci avesse ripensato e avesse richiesto che il giudice accertasse non che il comodato fosse nullo perché simulava un contratto di locazione ma perché, prevedendo un importo da corrispondere, non poteva ritenersi gratuito e in quanto concretamente oneroso gli importi versati dovevano essere restituiti.

Dunque abbiamo il giudice che in sentenza esamina la domanda riconvenzionale come proposta dal convenuto e non la domanda da lui formulata da ultimo in sede di precisazione delle conclusioni. L’appello che va dietro alla sentenza argomentando che il giudice ha sbagliato nel ritenere che il contratto non era simulato sulla scorta che le stesse parti avevano stabilito un importo pari a un canone locativo sebbene spacciato per rimborso spese, è un gravame impostato erroneamente che porta al giudicato interno.

È errato perché non censura quello che la sentenza non dice. Il comodante/attore aveva infatti azionato il contratto di comodato cui il convenuto aveva opposto la dissimulazione del contratto di locazione mentre, con un revirement improvviso a 180 gradi, ha poi ritenuto di rivedere la domanda riconvenzionale sostenendo che effettivamente era un comodato, ma siccome era ugualmente nullo per il fatto che concretamente non era gratuito chiedeva la restituzione di quanto corrisposto onerosamente.

Il primo giudice avrebbe infatti dovuto non tener conto della domanda riconvenzionale originaria ma prendere atto che era stata abbandonata perché non insistita (anche alla luce della sentenza Sez. U, Sentenza n. 1785 del 24 gennaio 2018 Rv. 647010 – 01 dal momento che la formulazione di una domanda che presupponga la validità del comodato non può che essere alternativa e incompatibile con una domanda che presupponga la simulazione del comodato sicché la domanda riconvenzionale doveva ritenersi rinunciata) ed esaminare la domanda da ultimo formulata.

Non solo, ma il fatto di essere “andato dietro” l’appellante al giudice di primo grado e al suo errore di scelta su quale domanda pronunciarsi ha fatto (mi viene da dire “di nuovo”) perdere di vista la propria diversa domanda formulata come si è visto in sede di precisazione delle conclusioni che, in quanto non censurata in gravame, sotto il profilo della omessa decisione da parte del primo giudice, è passata parimenti in cosa giudicata.

La circostanza che l’appellante, come si è detto, vada dietro al suo giudice, lo ribadisco, non fa rivivere un thema decidendum già delimitato dall’effetto devolutivo, vale a dire dalle preclusioni intervenute perché si tratta di una questione cui il giudice del gravame deve rilevare.

Ma cosa avrebbe dovuto fare allora il convenuto?

Innanzitutto non precludersi alcuna strada in primo grado. Qualora avesse voluto proporre una nuova domanda quale quella di restituzione sulla base di un comodato illegittimo non avrebbe quantomeno dovuto abbandonare la domanda già introdotta con la riconvenzionale e in sede di conclusioni, assolti gli oneri processuali connessi con l’introduzione di una domanda nuova, formularla in via gradata.

E in appello avrebbe dovuto mantenere entrambe le domande censurando le manchevolezze decisorie del primo giudice senza restringere il campo del devoluto.

Tutto ciò per far comprendere dunque che l’ottica del gravame e delle parole corrette da utilizzare per assolvere all’onere di specificità deve tener conto sia delle domande delle parti che della risposta correlata del giudice in modo da censurare gli “spazi vuoti” da quello lasciati (le decisioni omesse) o per criticare i “troppo pieni” (le decisioni ultra ed extrapetita) in quanto il secondo giudice di merito rivaluta di ufficio la congruità del gravame rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il corretto decisum del primo grado e soprattutto fa valere le preclusioni che si sono già verificate e cosa resti sul tavolo decisorio.
[space]

↵ ↵ torna all’indice della Sezione Conferma nel resto

-> L’efficienza e l’efficacia del gravame
<- Premessa giurisprudenziale