Dillo coi fiori

Era già un po’ che aspettava in piedi dietro al solito palazzo. Era in ritardo e lui era preoccupato, forse anche nervoso, come sempre del resto. Si guardava le scarpe, poi il portone dalle grosse maniglie d’ottone luccicanti da dove la ragazza sarebbe uscita e poi ancora le scarpe. La sua figura ballonzolante riflessa nel vetro dell’internet point di fronte sembrava chiedersi come fosse cominciata quell’avventura assurda, dove portasse e soprattutto che cosa ne avrebbe fatto di lui. A quell’ora, in quello stesso punto, la sua immagine rovesciata si allungava malinconica sui computer spenti, sui sedili logori e la penombra smorta del negozio chiuso.
Ogni tanto, nell’andirivieni dello sguardo, si soffermava sul mazzo di rose che aveva in braccio, badando bene a non stringerle troppo. Erano stupende, turgide di profumo e sensualità. Il fioraio, che conosceva bene per le lunghe frequentazioni dei giorni precedenti, gli aveva fatto quel giorno un prezzo speciale: dodici baccarat carminio dai petali morbidi come labbra di bimbo che ancora gocciavano di sudore di terra e bagliori di luce marmorea. Le grosse spine traforavano implacabili il doppio foglio di giornale che avvolgeva l’interminabile gambo ancora gonfio di linfa cercando le dita del ragazzo come per volerle ferire. E lui muoveva le mani in su e in giù, quasi fossero mobili, evitando di venir uncinato in quei ripetuti assalti. Ma era il profumo intenso che lo stordiva, un odore femmineo profondo che aveva imparato ad associare a lei. Il suo collo, le sue guance, la sua pelle erano oramai un tutt’uno con quell’odore così intimo e così osceno.
Il ragazzo si era calato in uno dei suoi pensieri bui, senza apparente ritorno e da cui riemergeva a stento e sempre più di rado. ‘Quando si è innamorati ci si sente sempre così?’ si chiedeva soppesando quell’oceano d’ansia e di impaccio in cui procedeva alla deriva. E si era così tanto perso in se stesso da non accorgersi che lei era appena scivolata via dal portone. Si mosse rapido anche lui, dietro a quello svolazzare gentile di gonna sotto cui sbocciavano due belle gambe snelle. Il cipiglio della ragazza era irrequieto, qualcosa quella mattina non doveva essere andata per il verso giusto e questo forse spiegava l’inusuale ritardo. Lo intuiva da come risuonava il tacco sul marciapiede, da come teneva lei il mento leggermente all’insù e la mano libera, che dondolava al suo fianco al ritmo del suo passo, tenuta chiusa a pugno. La vide innanzitutto sostare dal giornalaio. Lui conosceva bene il copione di ogni mattina: avrebbe comprato il quotidiano e il biglietto dell’autobus.
Aspettò con pazienza appoggiandosi ad un lampione e immergendosi nei suoi gesti, in quello scrollare lento di capelli, il quel modo tutto suo di tenere la borsa. E non appena lei si allontanò in direzione del bar il ragazzo corse in avanti a trafiggere con la prima rosa i giornali sotto lo sguardo dell’edicolante che, vedendolo di nuovo, come ogni altra mattina, immancabilmente scosse la testa.
I primi tempi l’uomo protestava prendendolo a male parole: ‘Le rose sono bagnate, le rose non centrano niente con i quotidiani, le rose bucano i cellophan delle riviste e poi nessuno le vuole più comprare…’; ‘e che cosa penserà poi la gente? Un ragazzo che porta a un uomo dei fiori!… Magari credono che siano per me, che c’ho

l’amante gay…’ Ma poi lui, un uomo di sessant’anni dai modi bruschi e asprigni aveva osservato gli occhi del ragazzo. Occhi spauriti, indifesi, di chi insegue un’ombra evanescente a cavallo di una nuvola indomabile. Ci aveva visto qualcosa di sé che era stato o che avrebbe voluto essere; così non se l’era più sentita di dire nulla.
Il ragazzo quindi ritornò indietro allungando verso il locale dove lei, come da programma, già stava sorbendo il cappuccino. E non appena lei uscì, lui vi entrò leggero, come un folletto metropolitano, lasciando a terra il secondo fiore là dove lei aveva sostato. La signora del bar, osservandolo, smise di spazzare alzando il pollice destro in segno di approvazione. ‘Magari avessi avuto uno spasimante così, quando ero giovane’ gli disse una volta che andava di corsa. Il ragazzo si era fermato sulla porta, era tornato indietro e le aveva allungato una rosa arancione come un sogno incendiato dalla luce dell’alba, che aveva finito per scaldarla e farla piangere per una settimana intera.
Di nuovo in strada, vide la ragazza piegare verso il Duomo. A metà strada si appoggiò alla grata di una cantina per lisciarsi una piega della calza. Lui, puntualmente, non appena la vide riprendere il cammino, incastrò nello stesso punto un’altra rosa, la più bella. Ma ne abbandonò altre lungo quel suo cammino invisibile, a sottolineare il passaggio di una principessa. Pareva che qualunque cosa lei avesse sfiorato o guardato avesse all’improvviso fatto nascere un fiore carico di bellezza disperata. Per magico prodigio, degno di una fata sfuggita al sortilegio di una fiaba, erano sbocciate increduli rose da fenditure nei muri, dalle tristi sbarre di un tombino, da un anodino cestino di carta. Una magia insospettabile tra auto in sosta e passanti distratti.
Quindi la vide sparire in fretta dietro l’angolo. La fermata del bus da dove sarebbe partita in direzione dell’ufficio era nei pressi.
Aveva un’ultima rosa da consegnare e l’avrebbe fatto poco prima che lei partisse. Forse lei avrebbe dato un’occhiata alla vetrina delle borse o forse avrebbe parlato con un collega o chissà cos’altro. Il ragazzo accelerò il passo per non perdersi l’ultima immagine di lei di quella mattina. Per un attimo guardò la rosa rimastagli tra le dita per respirarne tutta la bellezza e in quello stesso frangente dallo spigolo dell’edificio riapparve lei all’improvviso. Il ragazzo se la trovò di fronte che ancora aveva a mezz’aria il fiore che quasi sembrava glielo stesse offrendo. Da vicino lei era ancora più bella. Le sopracciglia erano fini, gli occhi chiari, intensi, le labbra distese, profumate, con un filo di lucidalabbra a renderle inebrianti, un porto sicuro dove ancorare i propri sogni: un’ondata di languore devastante gli artigliò il cuore, accendendogli la mente. Si immaginò per un attimo mano nella mano, come se lui fosse tornato da un lungo viaggio e lei gli fosse venuta incontro non sopportando più quella lontananza insostenibile, sopraffatta dal desiderio di stringerlo a sé, di baciarlo, di annullare lo spazio che li aveva divisi.

«Non voglio niente!» imprecò lei irrigidendo il volto e fulminandolo con lo sguardo. Il ragazzo impallidì. Si sentì contrarre i muscoli della faccia, delle braccia, dei polpacci in uno spasmo dolorosissimo. Abbassò la rosa fino a terra. I petali strisciarono contro il lastricato squinternando la corolla che si sciolse come da un abbraccio avvelenato. Avvertì i piedi pesanti e la testa vuota.
«Non si può camminare in pace che subito cercano di venderti qualcosa» disse ancora lei con astio dandogli già le spalle. Lui era appena naufragato in quel fotogramma spezzato. I colori erano evaporati, il suo sangue inaridito. Rimase immobile e freddo come un macigno che fosse nato in quell’istante sul marciapiede. Si limitò a seguirla con lo sguardo vuoto mentre si allontanava con impazienza dalla sua vita.

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Il racconto ha vinto il primo premio di prosa
al IV Premio Nazionale Stagionalia del 2007
Università aperta Semiramide 

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