La medicina di Zi’ Beppe

Era la prima volta che veniva sull’isola. Aveva faticato molto per farsi accettare ma alla fine ci era riuscito.
«Pensa che tre giorni prima della battuta al cinghiale gli ‘indiani’ vanno sul posto e vivono all’addiaccio per tracciare il percorso che fanno gli ungulati quando vanno e vengono per la pastura.»
«Indiani?»
«Sì, li chiamano così. Sono gli esperti. Persone un po’… rustiche per la verità, ma veramente in gamba, sanno davvero il fatto loro.»
Fabio ascoltava Valerio con attenzione mentre nel cuore della notte, su una jeep piena di spifferi, si stavano avvicinando al campo base. Alla domanda dove erano diretti, il Capocaccia, che guidava il convoglio, aveva bofonchiato che era ‘lì vicino’, anche se erano quasi tre ore che erano in viaggio.
«Vengono raramente da queste parti» rivelò a un certo punto Valerio mentre la macchina entrava sulla spianata. «Vogliono fare bella figura con te e ti hanno portato in una zona pregiata…»
Al campo base, prima di partire a piedi, il Capocaccia, un viso modellato dal vento e dal tempo, in una sorta di cerimonia improvvisata, gli si parò innanzi sfilando dalla sua cartuccera una munizione a pallettoni.
Ma è vietato cacciare con questa’ pensò Fabio mentre allungava la mano per prenderla. Ma subito il Capocaccia la lasciò cadere facendola finire nell’erba. Fabio si chinò a raccoglierla. Poi il Capocaccia ripeté gli stessi gesti con la seconda cartuccia. Anche quella finì a terra. Era il rituale: l’Anziano dispensava le munizioni e l’Ospite si inchinava in segno di rispetto.
«Stai attento» l’avvertì poi Valerio poco prima di lasciarlo alla posta. «Questo punto dove ti ha sistemato Zi’ Saverio è sicuramente uno di quelli dove passerà il cinghiale. Qui sull’isola, l’Ospite è davvero sacro, viene prima di tutti, e ha sempre il posto migliore. Quando vedrai l’animale (e lo vedrai), sparagli, mi raccomando, senza mancarlo. Se lo lasci scappare si offenderanno tutti.»
E con questa frase Valerio lasciò Fabio solo e preoccupato in un bosco silenzioso. La luce nascente aveva cominciato a regalare ombre e chiaroscuri al cisto e alle piante da sughero. Il profumo di mirto, reso intenso dalla rugiada della notte, aleggiava come un fantasma vestito di seta. Il freddo era intenso e Fabio non sentiva più i piedi. Per un paio di volte avvertì l’abbaiare dei cani filtrare a ondate dai boschi dell’altura e per altrettante volte li sentì allontanarsi fino a quando il silenzio non ebbe il sopravvento.
Verso mezzogiorno, comparve dal nulla, senza fare il minimo rumore, il Capocaccia che subito gli consegnò una piccola ghirba di pelle consunta dall’uso.
«È la medicina di Zi’ Beppe» chiarì l’Anziano senza tanti preamboli e soprattutto senza muovere alcun muscolo del viso; e immediatamente scomparve così come era venuto.
Fabio aveva fame, ma il freddo era stordente. Bevette un lungo sorso del contenuto della sacca e appena il liquido toccò lo stomaco sentì una vampata lunga di calore che gli attraversò il corpo. ‘Deve essere alcol puro’, pensò con una smorfia che per un attimo gli deformò le labbra.
Trascorse un’altra ora. La fame era oramai passata. Stava meditando di andarsene, stanco per la lunga attesa, quando gli giunse all’orecchio un tramestio proveniente dal sottobosco a un centinaio di metri di distanza. C’era qualcosa che stava arrivando al piccolo galoppo. Ne ebbe conferma per le decine di cinciallegre e codirossi che si levavano pigolando dai cespugli. Alzò il fucile in direzione del rumore mentre l’adrenalina gli inondava il sangue. All’improvviso, da dietro un gruppo di roverelle, uscì. Non era un cinghiale e neppure un daino o un cervo. Aveva un’andatura bizzarra, ondivaga, ma pesante, sul dorso una serie di escrescenze ossee lo facevano assomigliare a un animale preistorico se non fosse stato per le setole ispide e il muso oblungo come quello di un grosso cane; gli occhi erano freddi e inespressivi come quelli di un rettile. Non aveva mai visto nulla di simile. Il candore delle zanne e l’ansimare furioso lo facevano sembrare irreale. Si aggiustò il calcio del fucile sulla guancia accorgendosi però di non riuscire a sparare. Era come pietrificato. Qualunque cosa fosse davanti a lui, invece di spaventarsi alla sua vista, si mise a caricare accelerando il galoppo. Oramai era a dieci metri di distanza, forse meno.
Spara’ si ripeteva nella sua testa senza riuscire a farlo.
Spara, subito, ora’. Ma nulla.
La terra tremava sotto gli zoccoli imponenti della bestia come dovesse rimanerne inghiottita. Giunto a un metro da lui l’animale scartò sfiorandolo e proseguendo la sua corsa forsennata verso valle. Abbatté alcuni giovani alberi, lasciando con la coda strisciante un largo solco dietro di sé sul terreno. Fabio si voltò a guardarlo mentre si allontanava. Non riusciva a star fermo sulle gambe: gli tremavano. E quando la bestia fu distante, solo allora provò un dolore acuto come se un artiglio di acciaio gli avesse avvinghiato d’un tratto la nuca. Poi il dolore si spostò alla spalla. Si guardò il vestito. Era lordo del suo sangue. A terra c’era il fucile e intorno al calcio la sua mano staccata dal braccio con l’indice ancora serrato sul grilletto.

17 pensieri su “La medicina di Zi’ Beppe

  1. Quindi con la scusa del cinghiale il credulone ha sparato a sé stesso …ma o non ha una buona mira o non è stato così furbo da allontanare la pistola da sé…anche un bambino lo capirebbe che non bisogna fidarsi delle pistole altrui né di chi incita troppo a sparare…poi si capisce che se il cinghiale è sacro non va sparato!!! O no?
    Bel pezzo…CIAO

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