La voce

«Gabriele! Gabriele!»
Nel sonno sentiva in continuazione chiamare il suo nome.
«Gabriele! Gabriele!»
Il tono era secco, profondo, concitato. Dopo un primo momento di sorpresa, la riconobbe: a chiamarlo era suo padre, scomparso anni prima d’un brutto male. Sì, la voce era senz’altro la sua: era la sola che potesse scuoterlo così profondamente facendolo sentire indifeso, in colpa, inadeguato.
«Gabriele! Gabriele!»
Si svegliava ogni volta di soprassalto. Era così reale quel suono nella sua testa che si scuoteva tutto gridando:
«Sì, papà, eccomi… sono qui… dimmi.»
Ma la voce al suo risveglio taceva. Come taceva tutto il resto della casa, della notte, del mondo intero.
«Gabriele! Gabriele!»
Negli ultimi dieci anni non aveva avuto un buon rapporto con il genitore; l’aveva anzi perso di vista per uno screzio, uno stupido screzio che subito aveva eretto tra loro un muro ottuso di orgoglio e intransigenza. A lui sembrava di essersi finalmente liberato di un giogo troppo stretto che lo aveva soffocato fin dall’infanzia, ma in realtà aveva solo reciso una parte importante di sé e della sua identità. E come spesso accade, solo adesso che suo padre non c’era più, aveva imparato a riconoscerne nel ricordo i lati positivi, l’esempio che aveva rappresentato per lui, il legame profondo al di là dei risentimenti e dei silenzi imbarazzanti.
E così poteva essere che fosse tornato per rimproverarlo, ancora una volta, che reclamasse una spiegazione del perché si fosse allontanato da lui così tanto, del perché fosse diventato un figlio ingrato e soprattutto irriconoscente.
Era diventato angoscioso andare a dormire. Tant’è che guardava il soffitto per prendere tempo, leggeva quel che capitava, sbirciava fuori dalla finestra le luci del cielo come in cerca di un aiuto. Ma non si accorgeva neppure di addormentarsi, stanco com’era per la lunga giornata di lavoro.
«Gabriele! Gabriele!»
«Cosa c’è papà, cosa c’è? Cosa posso fare per te? Perché non mi lasci in pace, una volta per tutte?»

Poi una notte gli parve che il mattino non arrivasse mai. Voleva aprire gli occhi per vedere l’ora dalla sveglia sul comodino, ma non ci riusciva. Stava diventando tardi, ne era sicuro. Doveva alzarsi per prendere il treno. Lo aspettava una giornata di inferno. Doveva scendere dal letto. Subito.
«Gabriele! Gabriele!»
Anche se gli occhi non gli si aprivano più avvertì che il padre era lì, ai piedi del letto. Gli sorrideva in quel suo modo semplice, aperto, rassicurante che tanto gli aveva infuso coraggio in mille altri momenti difficili della sua adolescenza.
«Vieni, Gabriele» gli disse girando un poco il busto e allungando la sua mano grande e accogliente verso di lui. «Vieni con me, vedrai che non è niente… sono qui io… Dobbiamo proprio andare.»
[vuoto]

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