L’Antenna di Dio

Sono il papà di Anura e vivo qui con la mia famiglia nel piccolo villaggio di Pranaranesh nella regione di Angun nel nord dell’India. Non ho molto tempo e cercherò di raccontarvi, per quanto mi è possibile, ciò che di incredibile è accaduto in quest’ultimo anno. Mi devo sfogare con qualcuno.
Giusto un anno fa il torrente Sarawannan che sgorga dai Monti Sacri, per la furia delle piogge monsoniche, si è improvvisamente ingrossato come mai era accaduto prima e, straripando, è diventato un fiume di fango. Scorrendo a valle ha portato via ogni cosa incontrata sul suo cammino: foresta, villaggi, persone, animali. Ha deviato all’ultimo momento risparmiando il nostro piccolo agglomerato di case, ma nel disastro ho perso ugualmente alcuni amici cari e gran parte della mia terra. Non voglio però dilungarmi su questo. Ho davvero poco tempo, come vi ho detto, e vi devo raccontare tutto anche se il mio cuore è ricolmo di dolore.
Quel che c’è di peggio infatti è che mia figlia Anura, di sette anni, ha smesso improvvisamente di parlare. L’abbiamo fatta visitare da molti medici, anche importanti della capitale, ma non c’è stato nulla da fare. Ci hanno assicurato che è sana e che, se volesse, potrebbe tornare a parlare quando vuole; ha solo semplicemente smesso di farlo perché non ha più niente da dire. A sette anni.
Tuttavia si sa: Ganesh toglie, Ganesh dà.
Così il giorno dopo la tragedia, al ritorno dai primi soccorsi, mia moglie Samiya ha trovato all’ingresso di casa un panno di cashmere pregiatissimo; per la sua fattura molto elaborata e le rifiniture d’oro abbiamo pensato dovesse appartenere a una famiglia molto ricca come non ce ne sono da queste parti. La capitale è lontanissima e i visitatori stranieri, qui, sono più rari dei fiocchi di neve. Samiya l’ha ritenuto un segno del Cielo e ne ha ricavato una pashmina da mettere al collo di Anura perché l’aiutasse a riacquistare la parola.
Sette giorni dopo, mia figlia si è alzata finalmente dal letto ed è andata nella stanza che uso come studio; mi ero dimenticato di dirvi che sono un giornalista, un giornalista dell’Angun Chronicle. Ebbene, stavo dicendo, la mia piccolina è andata dritta alla mia scrivania, ha preso la mia macchina da scrivere ed è tornata a letto. E si è messa subito a scrivere: lei che ha appena imparato a leggere e che non dovrebbe avere neppure la forza di pigiare sui tasti rigidi della mia Underwood. Sta di fatto che ha cominciato a battere svelta: date, nomi, elenchi, luoghi che neanche conosce. È un anno che lo fa, senza più dormire, senza più mangiare, giorno e notte. Ticchete, ticchete, ticchete.
Sua madre si è subito disperata pensando potesse morire. E invece la bambina ha un aspetto ancora più sano, più sereno, pieno di vigore. È persino cresciuta. Il nastro della macchina da scrivere non c’è più da tempo, consumato dall’uso, e la carta su cui batte sembra non finire mai nonostante sia un normale foglio formato A4. Mia moglie ha anche cercato di toglierle la pashmina dal collo ma ha dovuto purtroppo constatare che non si snoda più, né è possibile tagliarla o distruggerla.
Ticchete, ticchete, ticchete.
Insomma, Anura scrive le notizie che accadono nel mondo prima che accadano. Un piccolo di sula piedazzurri che nasce in un’isola sperduta della Polinesia, un vaso di fiori che cade dal terzo piano in Nebraska, un incidente tra biciclette in un paese dell’entroterra della Cina, la vittima di un omicidio in Botswana, una potenza straniera che invade lo Stato vicino; piccoli e grandi eventi, comuni e straordinari della nostra vita; una sorta di telescrivente, in altre parole, solo che dietro quei messaggi non c’è una macchina fatta di ferro e ingranaggi, c’è mia figlia e, dall’altra parte, Chi tutto vede e provvede.
La voce di una bambina che scrive del futuro prossimo e venturo si è sparsa in un attimo. La chiamano l’Antenna di Dio. E ora, davanti alla mia casa, c’è una fila interminabile di gente di ogni tipo, a piedi o con qualsiasi mezzo: arrivano da ogni parte del mondo proprio qui a Pranaranesh. Tutti vogliono vedere la mia bambina, tutti le vogliono parlare e io non so più che fare, non so più come tenerli a bada: sono molto preoccupato.
Anche perché sono l’unico che Anura accetta che entri nella sua stanza. Forse perché sono l’unico che la rispetta e riconosce il suo ruolo e soprattutto che non insiste perché smetta.
Nelle lunghe ore in cui le sto accanto ho imparato a interpretare i suoi sorrisi e i suoi sguardi. Ci capiamo, noi, ci siamo sempre capiti, anche se adesso ancora di più.
Così quando è apparso il mio nome, in quella marea di dati vomitati senza sosta dal rullo della macchina da scrivere, abbiamo capito entrambi che non era per quel posto all’Università cui tenevo da tanti anni. Lei ha persino smesso di scrivere e mi ha abbracciato forte. E io l’ho consolata togliendole le lacrime che le scendevano dalle guance: volevo portarle via con me. È stato solo questione di attimi: non avevo infatti ancora chiuso la porta dietro di me che lei aveva già preso a scrivere. La mia piccolina. Ha sempre preso molto a cuore i suoi compiti.
Sì. Questo è proprio tutto. Almeno mi pare.
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18 pensieri su “L’Antenna di Dio

  1. Comunque questi doni (come vedere in anticipo ) sono elargizioni divine a persone speciali…la parola è un dono per chi la usa per comunicare e non per scocciare gli altri senza nessun messaggio di interesse o di valore…tu per esempio comunichi per gettare pillole di saggezza e perciò ti distingui dall’uomo comune! NOTTE!

  2. Bellissimo pezzo, acuto e ben narrato, …una bambina che ha molto da dire e non parla…rapportata ad adulti che riempiono le giornate con discorsi da imbecilli senza né capo né coda rende il senso della sostanza rapportata al vuoto ciarlare della società odierna!
    CIAO!

  3. a mio parere, uno dei tuoi scritti migliori! magnifico e terribile il finale (almeno per come l’ho interpretato).

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