La prua

designFinalmente Paul Hagg si trovava in quell’ufficio, nell’attico del ventiduesimo piano. Stanza d’angolo, tre finestre e una conformazione dei muri che ricordava la prua di un motoscafo d’altura. Tutto il resto della società si trovava, anche fisicamente, sotto di lui, ai piani inferiori. Un sogno. C’erano voluti trent’anni ma, al trasferimento di Mark Walkoat, era uscito il suo nome come quello più adatto a dirigere il Compartimento. Un curriculum impeccabile il suo, i migliori clienti nel portafoglio. E, nonostante le forti resistenze interne, alcuni sgambetti e un complotto dell’ultimo momento, ce l’aveva fatta. Ora la prua della sua stanza puntava verso un tramonto spettacolare, da film western d’altri tempi.
Si era appena insediato. Era comodamente seduto dietro alla scrivania di quello studio enorme, con monitor collegati a telecamere dislocate nei punti nodali del palazzo, la tabella luminosa con tante lucine quante erano le navi da trasporto in giro per i tre oceani, l’ascensore personale e un mucchio di documenti da firmare in cartelle distinte per colore e forma; ma non riusciva a lavorare. Se ne stava con le mani raccolte dietro la nuca a dondolarsi sulla poltrona e a rimirare il soffitto in mogano intarsiato. Si stava godendo tutto ciò, ad occhi chiusi. Quando bussarono alla porta.
Paul si drizzò subito sulla poltrona. Guardò confusamente i monitor alla sua destra. Non era ancora pratico e non riuscì a individuare quello che puntava sul corridoio. Bussarono di nuovo, con insistenza. Si ricordò che non aveva ancora istituito un segretariato personale; nessuno sarebbe andato ad aprire. Si alzò contrariato. Doveva tenere bene a mente tutte le modifiche che andavano fatte in tempi brevi e aprì la porta di scatto pronto a investire verbalmente chiunque si fosse trovato lì; davanti a sé c’era però solo il largo corridoio luminoso: un corridoio senza altre stanze se non quella del futuro segretario ancora vuota e, in fondo, la vasta vetrata sul Corona Park il cui verde cupo sembrava voler entrare a occupare ogni spazio. Nessuno sullo scalone, nessuno sull’ascensore di servizio fermo al piano ai suoi comandi.
La stessa scena si ripeté dopo pochi minuti e poi ancora una volta: non ci poteva credere che i suoi dipendenti invidiosi si fossero ridotti a essere così puerili. Lasciò alla fine la porta spalancata, chiunque fosse stato l’avrebbe visto.

Trascorsero diversi altri giorni. Istituì al piano una segreteria di suoi fedelissimi. Le bussate alla porta però non smisero, neppure con la porta spalancata. No, neppure il suo Segretario particolare le aveva sentite. Era strano, si disse, proprio strano. E poi, a farci bene attenzione, adesso Paul le sentiva un po’ ovunque intorno a lui, da punti indefinibili della stanza.

Poi incontrò un giorno Mark, nel ristobar del palazzo.
«Allora come ti trovi?» gli chiese l’amico.
«Molto bene e tu?»
«Lo sai?» fece dopo un po’ lui interrogando il fondo del bicchiere. «Occupi un attico che è nuovo nuovo, pieno di comfort e avveniristico. Sei un dannato fortunato.»
«Sì sì lo so: è bello da non credere» e sorrise.
«L’ha costruito la società appena un anno prima che ci trasferissimo nel nuovo grattacielo.» Paul lo osservava: Mark era invecchiato velocemente da quando era andato a dirigere la West Coast Oil Company, anche se il suo sguardo era sempre luminoso e vivido. «È un gioiello di design dell’archistar svedese Åaron Lundström…» proseguì l’amico come se si stesse confessando. «Peccato che abbia fatto una così brutta fine.»
«In che senso?» chiese Paul che si era incantato a guardare il profilo da bulldog dell’amico.
«Nel senso che nel bel mezzo dei lavori è sparito.»
«Sparito? Come sparito?»
«Sì, dicono che fosse in attrito con la mafia con cui faceva affari e che l’abbiano seppellito in uno dei muri dell’attico mentre lo stavano costruendo. Ma non credo sia vero. Sarà piuttosto in qualche isola sperduta a godersi i suoi soldi esentasse.»
Calò il silenzio tra i due.
«Pensa» proseguì Mark facendo segno al cameriere che voleva un’altra birra. «C’è persino qualcuno che sostiene di sentirlo bussare alle pareti a riprova che ancora si trova lì dentro. Ovviamente nemmeno questo è vero. Anche se sembra certo che porti sfiga sentirlo. Sono morti tutti di morte violenta quelli che lo hanno riferito.»

31 pensieri su “La prua

  1. Si può leggere in vari modi: i compromessi che il potere comporta sempre, la solitudine dovuta al non poter parlare con nessuno di una questione così agghiacciante, un ulteriore complotto per farlo uscire di testa? Io preferisco l’idea della scoperta che il mondo che credevamo di conoscere e controllare a fondo, è in realtà misterioso, angosciante e incomprensibile. Buzzatti con una spruzzata di Poe?

    • Buzzati con una spruzzata di Poe mi piace troppo (se ti va di dare un’occhiata all’infografica che illustra i mei credits letterari, giusto per capire quanto ci hai azzeccato -> http://bit.ly/2iWuYHw).
      Comunque hai ragione: è un racconto che si presta a diverse letture.
      Io avevo pensato però alla effettiva eliminazione fisica di Åaron Lundström e alla sua sopravvivenza in spirito nell’opera che lo aveva reso famoso e che era diventata anche la sua tomba, come un novello faraone.

  2. Morirà Mark? E’ già invecchiato e comunque ha parlato del “bussare”, strano però che il segretario (o la segretaria) non abbiano sentito nulla, però altri pare abbiano sentito, quali, dove?

  3. E allora che bussi senza che nessuno lo riferisca…al bussare gli si dice un “ciao…grazie della visita”…ahahahahah….certo chi è abituato a parlare a bocca squarciona dicendo cose senza senso troverà a questo giro pane per i suoi denti…ahahahah
    Bel pezzo…forte davvero…

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