La boa del ricordo

albatroLe bracciate erano ritmiche, distese; si sentiva così sciolto che il suo procedere nell’acqua salmastra non faceva nessun rumore. Il respiro era regolare, profondo, come se si fosse trovato nel letto di casa; ogni tanto alzava la testa per vedere dove si trovasse Pico Pequeño. Aveva imparato a capire, dalla distanza che lo separava da quel promontorio, quando avrebbe dovuto svoltare verso est, per poi raggiungere la bandiera del molo delle casse. Come al solito, sarebbe andato avanti a indietro per quel tratto di mare per una decina di volte per poi tornarsene a casa e finire di scrivere il suo libro. Il mare dalla finestra di casa sua l’aveva chiamato con quel suo blu ipnotico e lui non aveva saputo resistere e ora l’acqua, tra le sue dita, scivolava via tiepida; era così trasparente ed eterea che poteva vedere il fondo sotto di lui, tanto da sembrargli di nuotare nel cielo. Mancavano ancora poche bracciate quando pensò che, sentendosi così bene quel pomeriggio, avrebbe potuto anche fare qualcosa di diverso, come andare dalla parte opposta e, in un’unica tirata, raggiungere la boa davanti a Playa Morena, dove andava quando era piccolo. Doveva decidere. Giunto al punto di svolta, virò senza esitazioni verso la boa. Dopo una cinquantina di metri, lo avvolse una corrente più fredda che lo contrastava delicatamente. Questo, pensò, lo avrebbe facilitato al ritorno. Riuscì a mantenere un buona battuta di crawl fino a quando sentì che il braccio sinistro si faceva un po’ più pesante. Si conosceva bene: quello era il primo segnale di stanchezza, ma poteva reggere ancora molto. Alla sua destra vedeva scorrere lento un paesaggio che non riconosceva più: erano passati davvero molti anni da quando era stato in quei luoghi per l’ultima volta. E se la boa l’avessero nel frattempo tolta? Pensò. Playa Morena non era frequentata da tempo. Il turismo di élite si era spostato altrove e quella spiaggia era tornata selvaggia come anni prima. Si rincuorò pensando che, se si fosse sentito davvero stanco, avrebbe pur sempre potuto puntare direttamente a riva, che non era lontana. Proseguì, allora, pieno di entusiasmo, facendosi forte della sensazione di vigore che sentiva nelle braccia e nelle gambe. La corrente contraria dopo un po’ si fece tuttavia ancora più forte e più fredda. Ora sentiva la fatica. La boa… dov’è la boa? Si chiese più volte. Non doveva pensarci, sarebbe arrivata presto, ne era sicuro, non poteva essere lontana. Se non l’avesse vista entro breve avrebbe dovuto però rinunciare. Possibile che le energie lo avessero abbandonato così, all’improvviso? Cercò di non pensarci. 9+9=18, disse tra sé e sé, 18+18=36, 36+36=72. Gli aveva insegnato così suo padre. Distrarre la mente, ingannarla, per non fissarsi sulle proprie paure. La paura può essere una pessima compagna, soprattutto in acqua. 72+72=144, 144+144=… Poi un punto verde davanti a sé. Era il grande zatterone che affiorava appena sopra la linea delle onde. Si, ce l’aveva fatta. Aumentò l’andatura e ben presto si ritrovò aggrappato alla scaletta della boa piena di alghe. Tremava. Si lasciò andare sul pavimento della boa come svenuto. Era sfinito. Doveva farsene una ragione: non aveva più il fisico per quelle bravate. Cullato dalle onde e dal sole dolcissimo rimase immobile per riprendersi; e fu proprio un brivido di freddo che lo scosse violentemente per tutto il corpo a fargli capire che si era addormentato. Aprì gli occhi. Il sole era sparito da qualche parte nel cielo che aveva preso il colore del ghiaccio. Era anche più buio. Ma quanto aveva dormito? Decise che non sarebbe tornato indietro a nuoto: avrebbe raggiunto la riva e sarebbe tornato a piedi. Cambiare programma non era stata, dopo tutto, una grande idea. Alzò lo sguardo e si accorse che la spiaggia davanti a lui non c’era più. Per la verità non c’era più neppure la costa. Un velo denso di foschia lo circondava tutt’attorno come una sciarpa di lana a una distanza di una cinquantina di metri. Le onde si erano trasformate in cavalloni e lo zatterone sballottava nella continua ricerca di un equilibro impossibile. Se si fosse buttato subito, tempo venti minuti, si disse, avrebbe però ritrovato la spiaggia, anche se ora non la vedeva. Si calò giù per la scaletta, pronto a lasciarsi andare, quando vide sotto di lui, nell’acqua tersa, che la catena della boa era libera. Non era agganciata, come sarebbe dovuta essere, al blocco di cemento che la teneva ferma al fondo: la zattera stava andando alla deriva. Risalì in preda al panico. Poi cercò di convincersi che la boa non poteva che aver preso la corrente contro cui aveva nuotato per venire sin lì. E si sforzò di bucare con lo sguardo la nebbia alla ricerca di un qualche punto di riferimento, ma era inutile. Era tutto di un bianco impenetrabile come se qualcuno si fosse divertito a gettare sul mondo infinite secchiate di latte. Il freddo si era fatto pungente e il sole, ovunque si trovasse dietro a quelle nubi solide, stava tramontando. Ben presto fu scuro ovunque, quasi si fosse trovato nella gola di un mostro. Le stelle si erano dimenticate di apparire nel cielo e la luna era rimasta imbavagliata tra le nubi. Un grafico maldestro l’aveva disegnata lassù ma poi, pentitosi per la troppa luce, l’aveva cancellata lasciando un pallido alone. I minuti passavano a strattoni e, durante la veglia in quell’incubo, qualcosa di grosso e di pesante urtò più volte lo zatterone alzando un’onda di spuma giallognola che lo investì in pieno. Oramai non riusciva più a smettere di tremare dal freddo. Trascorsero altre ore, immerso in un silenzio assoluto che lo pigiava come all’interno di un tino; persino il mare tratteneva il respiro volendo dare l’impressione di essersi nascosto per apparire ancora più crudele. Solo il vento, a momenti, si levava teso cambiando spesso direzione. Prima dell’alba una folata gelida e innaturale gli investì il viso. Ora c’era qualcosa o qualcuno accanto a lui sulla boa. Per quanto si sforzasse non vedeva però nulla, un telo nero gli copriva ancora gli occhi. Cercò di allungare davanti a sé le mani, come avrebbe fatto un cieco per proteggersi. In quell’istante la luna forò finalmente la nube sopra di lui facendo luccicare il bianco dell’occhio di un enorme uccello marino a pochi centimetri dalla sua mano. Andava avanti e indietro sulla boa, quasi una sentinella spazientita, picchiettando la superficie con le sue zampe palmate a chiedersi cosa fosse mai quello strano essere implume rannicchiato da un lato. ‘Un albatro’ si ripeté lui ad alta voce, spaventando il volatile. ‘Ora non ci sono più dubbi’ si disse ‘sono in mare aperto’. Chinò la testa tra le gambe chiudendo gli occhi: la disperazione gli risalì dal ventre, come un virus letale. Se ne stette per qualche attimo meditabondo, poi recitò: 36+36=72, 72+72=144, 144+144=288, 288 + …

23 pensieri su “La boa del ricordo

      • Questo è quello che ho immaginato io dopo averlo letto. Non so perché, ho dovuto anche scriverlo, proprio nero su bianco… Mi è tornato in mente soltanto adesso:

        Mentre annaspava, sentendo che le forze stavano per abbandonarlo, alzò le braccia come in segno di resa.
        Fu in quel momento che si accorse di uno strano riflesso sopra le onde: sembravano due ali imponenti, maestose. Dietro di lui… o forse sopra… doveva esserci un grosso volatile. Senza nemmeno girarsi sbatté istintivamente le braccia contro la superficie dell’acqua più volte e con forza tentando di allontanarsi. E spiccò il volo.

  1. Veramente notevole per l’adrenalina che ha messo in coirpo al lettore. Un crescendo fino all’ultima conta. Potrà contare fin che vuole ma mi sa che sarà gara dura tornare indietro.
    Complimenti

  2. Bella la descrizione, mi sembra di aver nuotato davvero…e si…piano piano si arriva in mare aperto…sempre…se continui a persistere il gioco diverta sempre a maggior livello…ciao

Lasciami un tuo pensiero